Un tempo il dialetto siciliano godette di molta fama. Intorno al 1200
alla corte di Federico II° nacque e si sviluppò una
lirica che solitamente si designa (con un termine coniato da Dante) "scuola
siciliana".
Più
specificatamente si dice "siciliana" quella lirica composta da
un gruppo di rimatori che operarono alla corte di Federico II° e, nei
primi anni dopo la sua morte (1250), in quella del figlio ed erede
Manfredi.
La scuola
siciliana, appunto perché legata così strettamente alla corte sveva,
venne meno con quella; ma negli anni in cui la Sicilia passava sotto il
dominio degli Angioini, ebbe inizio nell'Italia Centrale, specialmente
in Toscana, una lirica d'arte, che si ricollegava alle esperienze
siciliane e a quelle provenzali.
Fu soltanto un
caso che questo dialetto Toscano si elevò al di sopra degli altri fino
a diventare lingua nazionale; i motivi della scelta di questo
determinato dialetto non furono di natura linguistica, ma il Toscano
divenne lingua italiana grazie all'uso che ne fecero Dante, Petrarca
e Boccaccio.
Nella storia della letteratura solitamente si è usato il dialetto come
strumento per dare autenticità ai personaggi ed alle situazioni.
Provate per
esempio a tradurre alcune espressioni tipiche del nostro dialetto (che
peraltro ritroviamo in questi "cunti") quali "figlia di
buttiglia" o "piglia giru giru", o ancora "affaccia
e coddra": non avrebbero alcun significato e l'opera che riporta
queste traduzioni perderebbe di valore.
Tuttavia oggi sempre più di rado si tende a comporre in dialetto ma,
cosa più grave, si sta perdendo anche l'uso di parlare in dialetto.
Noi vogliamo
recuperare un patrimonio culturale "minore" che altrimenti
rischierebbe di disperdersi per sempre.
Tradizioni
popolari di vario tipo, per esempio, resistono ancora soltanto nella
mente dei più anziani e sono prossime ad essere dimenticate.
Il dialetto
bisogna sentirlo come vero patrimonio di una città o di una regione,
con le sue espressioni caratteristiche, radicate nella storia di un
luogo.
La nostra opera è un
punto di partenza e non un punto di arrivo; abbiamo cercato di dare un
contributo a tale recupero che, se non è sostenuto dall'amministrazione
locale, dalla scuola (in un progetto più ampio) e da tutti quelli che
hanno a cuore la cultura in generale, risulterebbe inadeguato.
a cura dell'Associazione Culturale "Orizzonti"
Un
populu mittittinc’ a catina
spugghiàtilu
attuppatinc’ a vucca
è ancora libero
levatinc’ u travagghiu
u’ passaportu
a tavola 'unni mangia
u’ lettu unni dormi
è ancora ricco.
Un populu diventa poveru e servu
quannu 'nc’ arrobbanu 'a lingua adduttata d’i patri
è persu pe’ sempi
diventa poveru e servu
cuanno i paroli nun figghianu paroli
e si mangianu intra d’ iddi
mi n’ addugnu uora, mentre accordu a chitarra
du ddialettu ca perdi ‘na corda 'gni iuornu
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Un
popolo mettetegli la catena
spogliatelo
tappategli la bocca
è ancora libero
toglietegli il lavoro
il passaporto
la tavola dove mangia
il letto dove dorme
è ancora ricco.
Un popolo diventa povero e servo
quando gli rubano la lingua adottata dai padri
è perso per sempre
diventa povero e servo
quando le parole non partoriscono parole
e si mangiano fra loro
me ne accorgo ora, mentre accordo la chitarra
del dialetto, che perde una corda al giorno.
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(Ignazio
Buttitta)
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