Domanda al Vescovo di Caltanissetta
mons. RUSSOTTO:
Eccellenza mons. Russotto,
congratulazioni per il lavoro che svolge con
dedizione presso la comunità religiosa della nostra provincia. Io,
montedorese, abito a Milano da molto tempo.
Mi permetto di portare alla Sua conoscenza un fatto
increscioso occorso tanti anni fa, cioè il barbaro e crudele omicidio
di una ragazzina di soli 13 anni, LUCIA MANTIONE, avvenuta a Montedoro,
di cui a suo tempo s’interessò la stampa locale. La ragazzina, figlia
di una modesta e cattolica famiglia di contadini, venne rapita il 6
di gennaio 1955 e ritrovata cadavere dopo alcuni giorni presso un
casolare in campagna. L’autopsia eseguita dal prof. Stassi dell’Università
di Palermo scoprì che il corpo della ragazza era assolutamente integro,
e che la sua morte era dovuta ad asfissia. Il bruto, nel tentativo d’impedire
alla ragazza di urlare, le turò bocca e naso uccidendola. Sulla ragazza
solo un graffio. Grande fu lo strazio della famiglia e della comunità
montedorese, che mai ha dimenticato un simile fatto oltraggioso.
Ma come si comportò il Clero, in testa il parroco di
Montedoro, mons. Alfano Vito? Negando la benedizione alla piccola
salma e negando i funerali religiosi in chiesa!
Cosa aveva compiuto di così grave la piccola, se non
di farsi uccidere piuttosto che cedere alla violenza di un bruto, mai
scoperto? A distanza di tanti anni, la riscoperta di questa storia empie
di rabbia e disgusto il sottoscritto e tutta la comunità di Montedoro.
Ella, eccellenza, spero vorrà esaminare questa triste vicenda, e ridare
l’onore che merita a questa piccola "martire". Ella,
eccellenza, conosce meglio di me il significato di questa parola, tanto
amata dalla Chiesa, della quale Ella è importante rappresentante.
Nel ringraziarLa ed augurarLe un prospero lavoro, Le
porgo i miei più cordiali saluti.
Federico Messana
Risposta dal Vescovo
Carissimo Federico,
Rispondo alla email che ha mandato circa il pietoso e drammatico caso
di Lucia Mantione di Montedoro.
Le fornisco le uniche informazioni, peraltro scritte in latino dall’arciprete
Alfano, che risultano dai nostri registri, e precisate nel registro
parrocchiale dei battesimi di Montedoro.
Lucia Mantione, nata il 22 marzo 1942 a Montedoro, da Rosario e Serpe
Maria. Battezzata nella chiesa madre di Montedoro il 1 aprile 1942 dal
sacerdote Calogero Pizzillo, padrini i coniugi Gregorio Duminucoe
Maria Palermo. Nessun altro dato risulta dai registri, neanche la data
di morte né alcun accenno alla incresciosa vicenda o ai funerali.
Ho dato ordine all’attuale arciprete Sac. Salvatore Asaro di
celebrare la santa Messa in riparazione e suffragio di Lucia il 6
gennaio pomeriggio del prossimo anno, a nome e per volontà del
Vescovo.
Grato, La benedico nel Signore.
+ Mario Russotto Vescovo
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LA STORIA DI LUCIA
Montedoro,
6 gennaio 1955
Tra meno
di due mesi Lucia avrebbe compiuto 13 anni. A tredici anni, una
ragazzina in quel paese e negli anni quaranta del secolo scorso, era
considerata una bambina, ingenua e soprattutto senza alcuna esperienza
di vita. E tale era da ritenersi Lucia Mantione se, dopo aver
frequentato la quinta elementare era rimasta, come tante sue coetanee,
in famiglia per accudire alle faccende domestiche ed alle tante
necessità quotidiane. Il paese poteva definirsi sicuro, perciò anche
una bambina poteva muoversi indisturbata per vicoli e vie, per giocare
con le amiche coetanee o per sbrigare i piccoli servigi richiesti dalla
mamma. A recente memoria nulla di particolarmente sgradevole era stato
denunziato, nessuna azione di violenza verso minori e nessun atto
riprovevole che lasciasse presagire il sia pur minimo allarme. Si diceva
del resto che in paese ci si conosceva tutti, che i 3700 abitanti
accalcati in un fazzoletto di terra erano tutti amici o parenti, e che
regnava il rispetto reciproco tra tutte le famiglie. In quegli anni il
paese aveva raggiunto il massimo numero di abitanti, nonostante l’emigrazione
verso le Americhe, e solo negli a venire la forte emigrazione verso il
nord li avrebbe dimezzati.
Nel piccolo paese non erano ubicate fabbriche né stabilimenti di alcun
tipo; unico lavoro possibile era quello dei campi, ed all’agricoltura
erano normalmente avviati i figli degli agricoltori che possedevano un
pezzo di terra ed un mulo per lavorarla. L’alternativa per i giovani
era di dedicarsi allo studio, e pochi ne avevano la possibilità, oppure
di andare a bottega presso un artigiano, come sarto o fabbro ferraio. Le
ragazze invece avevano un’altra occasione di lavoro e d’apprendimento.
In quegli anni era scoppiata la moda del ricamo, perciò le sarte si
circondavano di ragazze che volessero imparare quel mestiere. Ed erano
diventate veramente brave se i loro pregiati prodotti erano richiesti
dai tanti commessi che giungevano da ogni parte per acquistarli a buon
prezzo. Si vedevano questi signori giungere con macchine capienti e
grosse valigie, ripartire carichi di biancheria finemente lavorata, per
poi tornare ogni inizio settimana per altri acquisti. Prodotti molto
apprezzati che finivano nelle vetrine di eleganti e prestigiosi negozi.
Pizzi e merletti, capi di biancheria intima, corredi, stole e tanti
altri prodotti di sartoria. Non a caso, la nostra paesana Vita Sciandra
donerà a Papa Giovanni Paolo II una stola finemente lavorata, frutto
del suo lavoro e della sua lunga esperienza di ricamo. La nostra Lucia
invece non s’era dedicata alla sartoria come alcune sue amiche.
La conformazione orografica divideva in due il paese: una parte bassa
comprendeva la piazza e le vie principali, come la via dei santi, così
chiamata perché attraversata dalle processioni nelle feste solenni, la
chiesa, i bar ed i locali pubblici, mentre la parte alta la circondava
da ovest a nord come una conchiglia, con le vie che s’inerpicavano
ripide. In fondo ad una scalinata verso nord sorgeva un vecchio edificio
che ospitava i locali scolastici. E proprio in una via laterale all’inizio
di questa scalinata, in via Aspromonte, abitava Lucia con la propria
famiglia, mamma, papà, fratelli e sorelle. Una famiglia modesta, come
tante in paese. I dammusi e le case ad un solo piano pullulavano
di marmocchi di tutte le età, e la vita quotidiana normalmente si
svolgeva fuori l’uscio di casa, data l’esiguità dello spazio dell’abitazione.
Fuori dell’uscio veniva esposto il banchetto di chi aveva un’attività
artigianale, fuori era stesa la biancheria ad asciugare, le mandorle o
il pomodoro da essiccare. Era quindi impossibile che una persona che
usciva di casa per una qualche incombenza non venisse notata.
Normalmente si scambiavano due chiacchiere coi vicini, pettegolezzi tra
comari, notizie sull’andamento della semina o del raccolto.
Vigevano i vecchi costumi per cui tra ragazze e ragazzi che non avevano
una conoscenza diretta parentale o di vicinato o di studio, gli unici
rapporti erano "visivi", ci si incontrava cogli occhi durante
le interminabili passeggiate in piazza o all’uscita dalla chiesa dopo
le funzioni domenicali. Così ci si intendeva per eventuali
fidanzamenti, senza aver profferito parola, quando invece non era la
famiglia, tramite una sensale o un amico compiacente, a comunicare che
sarebbe stato gradito il fidanzamento della propria figlia o figlio,
senza che i due si conoscessero. I
bambini potevano quindi giocare e scorrazzare per vie e piazze fino a
tarda ora, per fare ritorno alla propria abitazione quando, venendo meno
la luce del giorno, si accendevano i lampioni posti agli angoli delle
strade. A quel punto un urlo di gioia copriva il silenzio che regnava
per le vie, silenzio rotto soltanto dal rumore degli zoccoli dei muli
che con in groppa i loro stanchi padroni facevano ritorno dai campi dopo
una lunga e faticosa giornata di lavoro. E forti e rauchi si sentivano
gli incitamenti dei contadini che ordinavano al mulo d’accelerare l’andatura
o di fermarsi perché giunto davanti l’uscio di casa, prima di legarlo
al classico anello ed alleggerirlo della pesante soma.
Era un giovedì, il sei di gennaio del 1955, giorno della befana. Anche
se il giorno precedente aveva piovuto, le basse nubi, che al primo
mattino coprivano la parte inferiore del paese ed i campi circostanti, s’erano
dissolte sotto un timido sole, sufficiente per asciugare la piazza e le
vie del paese. In paese la befana per tradizione era alquanto povera, e
non portava regali importanti ai bambini, come nel giorno dei morti, ma
solo qualche dolciume e caramelle. E così dev’essere stato per la
povera Lucia appartenente ad una modesta famiglia contadina che sbarcava
il lunario col duro lavoro dei campi.
Nel tardo pomeriggio di quella giornata uggiosa dei primi di gennaio, un
leggero vento freddo di tramontana soffiava da nord; scendendo per la
scalinata che portava alle scuole elementari, investiva la via
principale del paese fino alla piazza. Poche erano le persone in giro
per le strade, e solo un gruppo di ragazzi si attardava a giocare a
pallone nella piazza detta "del dopolavoro". Rimaneva ancora
aperta la sala del bigliardo frequentata dai tanti amanti di quel gioco,
come il farmacista don Tatà Lima che, accanito fumatore, alternando una
sigaretta all’altra, studiava mosse sul tappeto verde e faceva
proseliti. Era in corso una delle tante infuocate partite a carambola
tra don Tatà e don Giovanni, e fin verso la piazza s’udiva il rumore
delle palle che sbattevano una sull’altra, seguito dagli incitamenti e
dagli applausi che gli astanti tributavano ai due contendenti.
La sera incipiente cominciava ad oscurare le vie, mentre rimanevano
aperte ed illuminate le porte dei negozi per offrire ai clienti
ritardatari le ultime mercanzie della giornata. Aperte erano le imposte
del macellaio "la Vampa", quelle della "Scarpareddra"
che vendeva generi alimentari, quelle del forno "La Mariuzzeddra"
con andirivieni di clienti che portavano a casa la classica focaccia
calda per la cena. Tutto secondo un rituale scandito dai rintocchi dell’orologio
della chiesa che batteva ogni quarto d’ora. Anche il negozio dei Salvo
(Nnummarùni), situato all’inizio della scalinata, era aperto ed
esponeva davanti l’uscio frutta e verdura d’ogni genere. Ogni tanto
qualcuno della numerosa famiglia faceva capolino ed urlava (vanniàva) i
suoi prodotti, portando i palmi delle mani aperti ai lati della faccia
per meglio veicolare la sua voce in una certa direzione.
L'AFFANNOSA RICERCA di LUCIA
Il
buio era già calato da un pezzo e tutto sembrava tranquillo come ogni
sera; chi si fosse trovato a percorrere la via principale Vittorio
Emanuele, come le altre del resto, avrebbe sentito il tintinnio delle
stoviglie e la voce dei genitori che invitavano i figli a tavola, segno
che la cena era imminente.
"Avete
visto per caso Lucia? Era uscita per andare a chiamare il fratellino che
giocava per strada, ma ancora non è tornata a casa", disse la
donna con voce concitata.
Era
la mamma di Lucia, che cercava la figlia di appena tredici anni. Solo
adesso con l’avanzare del buio s’era resa conto della sua assenza,
distratta dalle faccende domestiche, o perché pensava che fosse davanti
casa a giocare con qualche amica. Il fratellino era tornato da solo,
senza Lucia, da circa mezz’ora, ed evidentemente non s’erano
incontrati.
"No,
da qui non è passata oggi pomeriggio. Non è ancora tornata a
casa?", domandò la proprietaria del negozio.
"Solo
adesso ci siamo accorti che manca da circa un’ora. Il fratello è
tornato, lei no".
"Provate
a chiedere a mastro Rosario o al forno. Magari è rimasta a
chiacchierare con le sue amiche", disse quella di rimando.
"Avete
visto Lucia’", andava gridando sempre più concitata e disperata,
bussando ad ogni portone, ad ogni negozio ancora aperto, a chi
incontrava per strada.
La
risposta era sempre negativa, nessuno l’aveva vista per le vie del
paese.
Alla mamma s’erano aggiunti i figli ed i parenti, sparpagliandosi per
le vie appena illuminate, altri volenterosi ed amici spontaneamente si
misero alla ricerca di Lucia, setacciando tutte le vie del paese, la
piazza, i bar, le trattorie. Ma nessuno forniva notizie sul suo
passaggio, nessuno l’aveva vista quel tardo pomeriggio, Lucia sembrava
essere svanita nel nulla. A quel punto furono avvisati i carabinieri,
correndo nell’unica piccola caserma situata nella parte alta di via
Diaz. Questi si diedero subito da fare coadiuvando i familiari alla
ricerca della scomparsa. Prima lungo le vie del paese, già setacciate
dai parenti senza alcun esito, quindi con una camionetta cominciarono a
perlustrare l’immediata periferia e lo stradale appena fuori dell’abitato.
Non ottenendo alcun risultato, rimandarono le ricerche alle prime luci
dell’alba del mattino seguente, il 7 di gennaio.
Intanto nella casa di Lucia era scesa la più cupa disperazione,
singhiozzi, pianti ed urla s’udivano a distanza, le luci rimasero
accese tutta la notte. Ormai tutti disperavano che la piccola potesse
fare ritorno a casa, ed un triste presagio aveva preso il sopravvento su
ogni pur minima speranza. Disperato il padre, infermo ed impossibilitato
a collaborare alle ricerche, disperata la madre, i fratelli e le
sorelle. Inutilmente i vicini cercavano di consolare quei poveri
disgraziati. Solo a notte fonda giunse un po’ di quiete, in attesa
delle prime luci della nuova e speranzosa alba.
Di
buon mattino i carabinieri di Montedoro, capeggiati del tenente Marzollo,
ripresero le ricerche nel circondario, sicuri che la ragazzina, viva o
morta, non poteva trovarsi in paese ma in qualche anfratto o in una
delle tante casette abbandonate nei campi immediatamente fuori del
paese. Si sbagliavano? Chi lo sa; per essere certi ed escludere ogni
ipotesi, avrebbero dovuto mettere a soqquadro tutte le abitazioni del
paese, cosa non facile d’attuarsi, e con risultato non prevedibile.
Allora indirizzarono i controlli cominciando dai viottoli che portavano
verso la campagna, discesero le trazzere dietro il cimitero, poi quelle
che passando per la Cuba portavano verso Fontana Grande, risalendo verso
l’Albanello fin sotto il monte Ottavio. Girarono verso la parte est
del paese fin sotto il Calvario, poi verso la Madonna delle grazie per
risalire fin verso la Chiesa. Due giorni di affannose ricerche senza
trovare tracce o indizi di un eventuale passaggio della giovane Lucia.
Alle 8,30 della domenica 9 gennaio, quindi dopo tre giorni dalla
scomparsa di Lucia, il fratello di lei Rosario, che insieme al cognato
Giuseppe aveva ripreso le ricerche, scoprì il corpo della ragazzina.
Giaceva dentro un piccolo tugurio, da tempo abbandonato e senza tetto,
in contrada Cuba, a sinistra della trazzera che porta verso contrada
Fontana Grande. Giaceva per terra a bocca aperta, le narici dilatate e
le vesti scomposte sul corpo. Un carabiniere, impegnato nelle ricerche e
che si trovava nei pressi, corse in paese a comunicare la triste notizia
che subito rimbalzò di bocca in bocca e di casa in casa. Grande fu lo
strazio dei familiari che, ormai rassegnati al triste ed inevitabile
evento, poterono perlomeno darsi momentanea pace. L’autorità
giudiziaria di Caltanissetta, informata del ritrovamento del corpo,
accorse immediatamente sul posto. Fu chiamato ad esaminare il cadavere
il dott. Mancuso che, constatata che la morte era avvenuta per asfissia
prodotta da strangolamento, dispose la rimozione del corpo della povera
Lucia. Senza ombra di dubbio fu quindi un assassinio, e quasi certamente
delitto a scopo sessuale. Fino a quel momento ignoto fu l’assassino (o
assassini) e nessun dubbio poté sussistere verso parenti o amici della
ragazza, data la sua condotta assolutamente irreprensibile e che mai
aveva dato adito a pettegolezzi di alcun genere.
Molti misteri s’accavallarono intorno alla sua morte e molte illazioni
e commenti si sentirono per le vie del paese. Chi sarà stato il
misterioso assassino? L’avrà strangolata perché si opponeva ai
tentativi di violenza o ha compiuto l’efferato delitto dopo averla
violentata per atroce voluttà di sadico? Domande, illazioni e
supposizioni che potranno essere chiariti solo dopo che verrà
effettuata l’autopsia sul povero corpo. Intanto i carabinieri con a
capo il tenente Marzollo, insieme alla squadra mobile di Caltanissetta,
continuano ad indagare attivamente per fare luce sull’efferato
delitto. Certo è che una giovane ragazza, figlia di una famiglia di
contadini col padre infermo, è stata barbaramente uccisa da un mostro
senza nome: almeno per ora. Intanto la madre disperata implora un’esemplare
vendetta verso l’assassino, se mai sarà smascherato.
Così
riferirono il triste evento i giornali dell’epoca, i primi giorni dopo
la scoperta del cadavere.
Intanto emergevano nuovi particolari sul rinvenimento del cadavere di
Lucia, evidenziati anche dalla stampa locale. Infatti vicino al corpo
della ragazza erano stati rinvenuti un coltello a serramanico, chiuso,
ed un bottone. E’ stato accertato che il coltello a serramanico
sarebbe appartenuto all’individuo, o agli individui, che assassinarono
Lucia, mentre il bottone apparteneva alla camicetta della ragazza. Da
elementi raccolti dalla polizia pare non doversi escludere che più d’un
individuo fu con la ragazza sul luogo del delitto. Frattanto il mistero
s’è fatto più fitto che mai, perché non solo sono caduti i sospetti
che si erano addensati sui due giovani fermati e poi rilasciati dalla
polizia, uno di questi da poco uscito dal riformatorio di San Cataldo,
ma anche la perizia necroscopica non ha potuto fornire alcun elemento.
La ragazza, infatti, è risultata perfettamente integra nel corso dell’autopsia
eseguita dal prof. Stassi dell’Università di Palermo, né traccia
alcuna di violenza è stata rilevata sul suo corpo tranne un graffio al
mento. Al collo della vittima, che è certamente morta per asfissia,
nessuna traccia delle impronte dello strangolatore. Poiché però la
ragazza era in possesso di un fazzoletto da collo, le dita dell’assassino,
premute sulla stoffa, non hanno lasciato tracce sulla pelle. Anche
questa però è un’ipotesi perché in effetti nessuno sa dire se al
momento del rinvenimento la ragazza portasse al collo tale fazzoletto
che invece al cimitero le è stato rinvenuto in tasca. Altra ipotesi è
che la ragazza sia stata asfissiata dalla mano dell’assassino scesa a
turarle la bocca per non farla gridare, e inavvertitamente o
volontariamente calata anche sul naso provocando la morte della
fanciulla per asfissia. Gli abiti in ordine della ragazza e l’assenza
assoluta di tracce di lotta sul luogo del delitto starebbero a
dimostrare che Lucia si recò sul posto volontariamente, e che colui o
coloro che le si accompagnavano lo facevano col suo assenso. Gente,
quindi, perfettamente conosciuta dalla vittima? Si può pensare che la
ragazza sia andata all’appuntamento di uno spasimante il quale ad un
dato momento volle andare oltre il segno del consentito e la ragazza
deve aver minacciato di gridare, o addirittura deve aver preso a
gridare. Questo deve aver fatto perdere la testa all’accompagnatore
che cercò di zittirla con la mano o col fazzoletto da collo. C’è chi
suppone che l’accompagnatore della ragazza fosse un uomo sposato, e
che proprio tale sua condizione lo avesse spinto ad eliminare la
fanciulla nel momento in cui lei minacciò di svelare l’intenzione di
violentarla. Quanto al coltello rinvenuto per terra è chiaro che esso o
fu smarrito casualmente dall’assassino o di esso egli si servì,
benché chiuso, per minacciare la vittima. Ora il coltello è rimasto l’unica
debole traccia in mano alla polizia.
La perizia necroscopica oltre ad appurare che la ragazza era integra, ha
potuto accertare che ella è morta circa trentasei ore prima del
rinvenimento del suo cadavere. Resta da stabilire dove e con chi sia
stata nel periodo di tempo intercorso tra la sua scomparsa da casa e la
sua morte. A ciò si aggiunga quest’altro particolare: una mano della
ragazza aveva le dita aperte e i muscoli contratti, era insomma
artigliata, come nel tentativo di afferrare qualcosa cui appigliarsi, o
di graffiare chi stava per ucciderla. Se la ragazza fosse caduta nel
luogo dove è stata rinvenuta, cioè in aperta campagna dove la terra
era molle e fangosa per la pioggia, le sue dita al contatto con la terra
bagnata avrebbero dovuto sporcarsi. Poiché questo non è avvenuto, e
rifacendosi all’interrogativo dove e con chi ha trascorso un giorno e
mezzo prima di essere uccisa, possiamo avanzare l’ipotesi che la
ragazza non sia stata assassinata sul luogo dove è stato rinvenuto il
suo cadavere, ma sia stata trasportata dall’assassino quando era già
cadavere. Il mistero insomma si infittisce. Sempre nuovi elementi
vengono a galla, ma non fanno che rendere ancora più difficili le
indagini.
Dopo le indagini iniziali, in seguito al rinvenimento del corpo della
povera Lucia, cosa fu fatto per appurare la verità su quel nefando
delitto? Immagino nulla. I tanti fermati a caso, dopo i due iniziali,
nulla ebbero a riferire in merito, nessun indizio serio venne alla luce,
nessun colpevole. Nessuno aveva visto, nessuno aveva sentito, nulla era
successo come nei peggiori delitti di mafia. Eppure la ragazza, uscita
di casa alla ricerca del fratellino, come aveva riferito la mamma, non s’era
potuta allontanare più di tanto dalla sua abitazione, avrebbe potuto
svoltare a sinistra verso via Roma o verso la via Vittoria che porta
alle vecchie case popolari. Poteva avere un appuntamento
"amoroso" con qualche amico, come riferirono le cronache, ed
essere andata a casa di questo? Non credo sia plausibile data l’ora e
l’incarico che aveva avuto dalla mamma, e soprattutto da come viene
descritta: una ragazzina "molto ingenua, innocente, schietta".
Non resta altra ipotesi che nel breve tragitto sia stata avvicinata da
qualcuno ed attirata "ingenuamente" in trappola, portata in
casa oppure verso la campagna, distante poche centinaia di metri. Io
propendo per la prima ipotesi perché, se fosse stata portata subito in
campagna, l’omicida l’avrebbe abbandonata sul posto. Invece, da come
risulta, è stata portata nel casolare da morta. Al pomeriggio del
sabato, infatti, c’era stato un temporale, e se Lucia si fosse trovata
distesa nel casolare senza un tetto, sarebbe stata trovata bagnata.
Quindi l’omicida ha provveduto a disfarsi del cadavere tra il sabato
notte e la domenica mattina; alle otto e trenta il fratello ed il
cognato scoprirono il corpo. Viene da chiedersi però se quel casolare
fosse stato controllato nei giorni successivi alla scomparsa. Purtroppo
tutto l’incartamento delle indagini, dopo ben 63 anni, è stato
distrutto o scomparso. I carabinieri di Montedoro dicono d’averlo
consegnato in procura a Caltanissetta, mentre a questa nulla risulta. In
tempi moderni sarebbero intervenuti i RIS, avrebbero prelevato tracce di
DNA, avrebbero fotografato la scena del crimine nei minimi particolari.
Ma eravamo nel 1955 con forze dell’ordine poco competenti e con
attrezzature inefficienti. E se "dall’alto" fosse arrivata
una confidenza a lasciar perdere, le indagini potevano concludersi
immediatamente con un nulla di fatto. Come spesso era successo per altri
gravi fatti. Con ciò non voglio adombrare nessun dubbio sull’onestà
e sulla buona fede dei nostri carabinieri, che spesso giungevano dal
nord, ignari dei luoghi e della mentalità della gente del posto, e che
operavano in condizioni disagiate.
Ma
in paese tanti avevano visto, svisto, non visto, come al solito, ma
nessuno profferì parola per indirizzare le indagini nel giusto verso.
Di converso cosa fa la polizia? Accusa un giovane "demente",
uscito da qualche giorno dal riformatorio di San Cataldo. Accusa che poi
si ritiene infondata. Ma chi era costui? Credo lo stesso che, all'epoca
tredicenne, era stato accusato del delitto Gaetano Genco, e poi
rilasciato perchè manifestamente estraneo al fatto. Giusto per
gettare un cono d'ombra sul grave fatto.
Io tredicenne, e quindi suo coetaneo, all’epoca non ebbi contezza del
fatto perché mi trovavo a Randazzo, in collegio dai Salesiani, ma ho
sempre saputo ed avuto pena e compassione per la povera ragazza. Ho
voluto riepilogare questa storia affinché, data l’evoluzione, la
distrazione e la volatilità delle notizie di questi tempi frenetici,
soprattutto presso i giovani, il suo ricordo non cada nell’oblio, e
serva da monito a tutti.
Ai parenti della povera Lucia può lenire il dolore solo la consolazione
che la ragazza non sia stata violata dal sadico omicida, perché è
stata lei ad opporsi ed a non dare modo allo sciagurato di farlo. Tutto
il paese è rimasto scosso da quel triste evento, e conserva ancora
memoria del fatto. Sulla sua tomba infatti, entrando nel cimitero appena
a sinistra, mani pietose depongono sempre un fiore, a memoria della
povera ed incolpevole Lucia.
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UNA PASSEGGIATA ALLA "SABBUGIA"
di Calogero Messana
Passando lungo lo stradale per Serradifalco,
giunti al confine del territorio di Montedoro, si intravede una collina
di calcare che domina la vallata. Centinaia di volte siamo passati lungo
quella strada senza potere vedere dal basso cosa si nasconde in mezzo
alle pietre che circondano la cima della collina.
In una giornata asciutta ho deciso di salirvi
con la macchina fotografica. Man mano che ci si avvicina si scorge la
particolare struttura della collina: una cerchia di massi delimita un’area
in pendio esposta a mezzogiorno, adesso seminata a grano, ma che
probabilmente costituiva la delimitazione naturale di un antico
insediamento.
Ogni masso di calcare porta i segni di antiche
presenze . Decine e decine di tombe a camera scavate , o appena
abbozzate , segnano le pareti delle candide pietre: ho pensato alla ben
più nota Pantalica.
Conoscevo le due tombe Sicane della contrada
Guarini poiché ci giocavamo da bambini quando si andava a raccogliere
le olive, ma quelle della Sabbugia, ad appena 500 metri di distanza,
sono molto più numerose. Sicuramente, scopro solo oggi, che è il luogo
più insediato e frequentato del passato che si trovi nel territorio di
Montedoro.
Non conosco gli studi fatti sull’area ma il
toponimo arabo al-sabbuq fa pensare che anche in quell’epoca fosse
luogo frequentato. Purtroppo non vi è, a vista, alcuna traccia di resti
ceramici o vetri, ma più in basso, nel cosiddetto "Lago di Giù
" una "senia" per sollevare l’acqua è ancora presente
ed è stata attiva fino a qualche decennio addietro.
Per ora mi accontento di mostrare le foto
scattate ma spero di poterci ritornare con persone esperte per
approfondire la conoscenza del luogo.
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Scoperta (in casa della farmacista Gigina Morreale) una
boccettina del famoso olio Migneco
Nella foto si legge chiaramente G.M. (Giuseppe Migneco)
vedi articoli su Migneco e Pappalardo
Mulino
ad acqua con movimento orizzontale
Un mulino simile si trova in contrada Catalano a Montedoro
fare
clik sull'immagine per vedere il servizio
(ricerca di Calogero
Messana) |
ARCHEOLOGIA A MONTEDORO
di Calogero Messana
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1929
ARRIVA L'ELETTRICITA' A MONTEDORO
Documento
di Calogero Messana
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Interessante ricerca di Calogero
Messana
Ho provato a giocare un po' sulla
pianta di Montedoro .Dalla masseria Balatazza ( in
arancione) ai successivi sviluppi dell'abitato fino a
prima dell'unita' d'Italia. Le varie fasi dello sviluppo
urbano dovrebbero essere verosimili . Ho seguito le notizie di
Petix e quanto é rilevabile anche da Google : Si nota (in giallo) che le costruzione
della fondazione erano ben allineate , gli spazi intermedi
sono stati chiusi in un secondo tempo (probabilmente erano
cortili interni ).La quantità di immobili edificati
al 1650 ,circa , ospitava 78 famiglie , che
e' compatibile con le zone di colore arancione e
giallo.
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