LA DOLCE ALBA
DI
RAFFI
<La grasta di basilicò >
" Testo gustoso e commosso su una
Sicilia ormai molto malata"
(Elvira Sellerio)
Introduzione
L'ultimo libro di Federico Messana l'ho letto tutto d'un fiato. Sì, perché gli scritti di Messana hanno questa caratteristica: si fanno leggere con molta facilità, sia per la scrittura piana, ma ancor più, per la freschezza delle immagini, per quello scendere nei particolari descrittivi che mostrano il suo accostarsi ai ricordi con grande cura ed amore tanto da incuriosirti e gustarne i particolari quando trattasi dei paesaggi circostanti al paese come quando, con poche pennellate, ti descrive il personaggio.
L'avvio del racconto, che non necessariamente deve essere complicato o avere per argomento i massimi sistemi o travolgenti storie d'amore o di lupara, prende spunto dagli oggetti che corredano la casa paterna che una attenta riflessione fanno "parlare, raccontare" degli anni passati, di fatti ed avvenimenti che sembrano dimenticati per sempre. Appunto, una Grasta di Basilicò costituisce lo stimolo, la scintilla per mettere in moto i ricordi della fanciullezza, del periodo nel quale si scopre la realtà circostante carica, piena della sua bellezza naturale, quando i colori, i canti, i suoni, i rumori, i profumi, i sapori, scavano delle tracce profonde, indelebili nella memoria. E poi, la lontananza, la nostalgia del loco natio aggiungono una certa aurea per tutte quelle cose che la quotidianità non fa apprezzare, non fa godere appieno: il silenzio, il cielo stellato, il canto degli uccelli, le voci della campagna, la bella famiglia delle erbe, i viottoli, le tane, ecc.
Il contrasto con la realtà milanese le rende ancora più spettacolari, più stupefacenti, tali da farle diventare un luogo del mito e che le parole cercano di fissare sulla carta, fuori dalla memoria personale e trasferirle nella memoria collettiva.
Lungo il percorso da Montedoro a Raffi non viene tralasciato nulla: il grande pino del Dopolavoro, la scalunera del Ricovero, l'abbeveratoio, il mulino, li firrara, lu Chianu Puzzu,
Albanello, Fontana Grande con le sue fresche acque, il nostro fiume Gallo D'Oro, Cirausi, Crucifia, Sampria, Cozzo Asparagio ecc. e semplici personaggi come Francischella, Marasanta, Buzzichinu che ci danno la dimensione strettamente umana, di semplice umanità patrimonio della piccola comunità che ha avuto anche delle grosse personalità nel campo della religione, della politica, delle professioni e della cultura. Piccoli ambienti e attività umane che non si riscontrano più. Sono dei tasselli che riescono a darci un simpatico mosaico della vita del paese, colti nella loro essenzialità, con il distacco di tempo e di luogo che li liberano dalla meschinità quotidiana, dalla loro pochezza.
Questo racconto, ricordo della fantastica battuta di caccia a Raffi, viene impreziosito dai detti siciliani di zì Calogero Alfano e da una poesia dello stesso autore (Lu babbaluci).
Tanti emigrati ritornano in paese e rivedono parenti, amici e ambienti della loro fanciullezza e le loro gioie, le loro emozioni, e i loro sentimenti rimangono all'interno del loro cuore.
Federico Messana, con questo libro, ritorna a Montedoro e ripercorre, passo dopo passo le strade ed i sentieri che ha percorso nella sua fanciullezza, ricorda gli oggetti, le cose, gli ambienti, i paesaggi, le atmosfere, le persone e i personaggi, fatti ed avvenimenti con tanta cura, con tanto sentimento, con tanta gioia del cuore da trasmetterlo nel lettore ed in ogni caso, mettendo nero su bianco, alla memoria collettiva di tutti coloro che hanno vissuto intorno alla metà del secolo scorso e alla memoria storica di Montedoro.
Lillo Paruzzo
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Premessa
Ho intitolato questo racconto "La dolce alba di Raffi", per l'atmosfera incantata che mi ha tanto affascinato e che solo a rievocarla, a distanza di tanti anni, mi fa tornare ai tempi dell'infanzia. Ma un secondo titolo potrebbe essere "La grasta di basilicò", perché proprio da un vaso di basilico il racconto prende le mosse e si sviluppa.
Il racconto vuole riesumare dalla memoria una battuta di caccia effettuata agli inizi degli anni sessanta in contrada Raffi, muovendo da Montedoro, attraverso un territorio molto ondulato e panorami d'indubbia bellezza come la rocca di Sutera. Raffi è una località ricca di cacciagione, facente parte del territorio di Mussomeli, dichiarata zona archeologica in seguito agli scavi che hanno portato alla luce importanti reperti storici (villaggio del II millennio
A.C.) dei Sicani, antichi abitanti della zona. Sono state anche trovate testimonianze del periodo dell’invasione dei Greci di Agrigento e successivamente dei Romani, di cui fu uno dei principali granai. Dopo i Romani vi passarono i Bizantini e i Musulmani ai quali probabilmente si deve la costruzione del primo nucleo abitativo.
Ma Raffi potrebbe essere un luogo qualsiasi della Sicilia, da Palermo a Catania ad Agrigento, come pure i personaggi che animano la battuta o semplicemente fanno parte del contesto paesano. I luoghi descritti, in Sicilia, si possono trovare dappertutto, girato l’angolo di casa; mentre i singolari personaggi del luogo, come Turiddu, Marasanta, il medico, il barbiere o zì Vicìanzu sembrano dei replicanti o delle fotocopie di altrettante figure che da sempre, veri attori in un proscenio universale, recitano la loro parte nei paesi limitrofi con movenze dalla somiglianza sconcertante. Eredità indelebile lasciata dalle civiltà che nei secoli a turno si sono insediate in quest'Isola, ideale per clima e posizione geografica. Greci, Arabi, Turchi, Normanni, Bizantini, Tedeschi, Francesi, Spagnoli, etc. ne hanno assaporato le bellezze, lasciando in pegno un pizzico dei loro costumi e delle loro tradizioni. I Siciliani ne hanno fatto un amalgama dal quale purtroppo non sempre hanno saputo fare prevalere la parte migliore, entrando spesso in crisi d'identità. Ciononostante non sono rimasti succubi e inerti di fronte al triste destino, poiché spesso hanno trovato la forza di reagire usando l'arma del coraggio e della fantasia. Doti che ogni Isolano custodisce gelosamente e che sa tirare fuori al momento opportuno.
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La grasta
A papà
a zi’ Vicìanzu di Liddru
a zi’ Ciuzzu Zaccaria
i n ricordo di una fantastica battuta di caccia
a Raffi
Ringrazio zio Calogero Alfano per le citazioni sulla trebbiatura
Da qualche ora stavamo curiosando nei vecchi cassetti di mamma e papà rievocando, ad ogni oggetto rinvenuto, momenti e sensazioni degli anni della nostra gioventù trascorsi in quella casa. Bastava un particolare per farci tornare in mente dettagli e fatti che sembravano dimenticati per sempre. Un ventaglio appartenuto alla zia Peppina, col quale usava procurarsi un po’ di refrigerio nei momenti più caldi della giornata, un piccolo diploma col quale il Santo Padre mandava benedizioni e felicità alla nuova coppia. La foto di mamma e papà, mai vista prima di allora, fu la più emozionante: lei vestita di bianco, coi guanti ed un lungo velo, e lui con un papillon da assomigliare ad uno di quei manichini che s’intravedono dietro le vetrine dei negozi nei centri commerciali. Un cagnolino di zolfo fuso nella miniera di Gibellini, una tazza che era servita per la colazione a base di latte o di tinnirumi, il lemmu dentro il quale eravamo soliti fare pediluvi e bagni con acqua bollente. Stavamo riscoprendo un mondo che sembrava del tutto dimenticato per sempre, e che ci era appartenuto per tanti anni. Rovistando in un armadio ci colpì una strana scatola con su scritto: Per la salute degli italiani. L’aprimmo incuriositi e vi trovammo due piccoli ovuli di olio di merluzzo, quell’olio odioso e puzzolente che da piccoli il medico ci costringeva a bere per tenerci in buona salute.
Eravamo tornati in paese per ricordare il loro anniversario, dopo la rituale visita al piccolo cimitero, e rientrare in quella casa semi abbandonata fu come fare un tuffo nel passato. Tutto parlava di loro, i vecchi mobili, la vecchia cucina, gli attrezzi d’uso giornaliero. Girare il lucchetto delle porte era come sentire la mano di nostro nonno che n’era stato l’artefice, la toppa del portone come l’inferriata dei balconi di ferro battuto. Nel girovagare da una stanza all’altra ci trovammo sul piccolo terrazzo, il regno di nostra madre, dove poneva le mandorle ad asciugare dopo l’abbacchiatura, sistemava il telaio col passato di pomodoro per farne l’astrattu, curava con amore i suoi vasi di geranio. Quei vecchi vasi ed una piccola giara erano ancora lì, e da alcuni di essi emergevano dei gambi allungati e spicati oltre misura da sembrare alberelli di una specie mai catalogata dai botanici. Logorati e malandati, resistevano al tempo ed al ricordo di chi li aveva coltivati con cura e dedizione.
Uno strano vaso, una grasta particolare, abbandonata in un angolo e coperta da alcune bottiglie, da cui spuntavano foglie di basilicò e fili d’erba, attirò la nostra attenzione.
"Che strana grasta!", disse mia sorella dopo averla liberata da tutte le cianfrusaglie che impedivano alla vista le fattezze ed i contorni.
In un attimo mi ritrovai catapultato con la memoria indietro di tanti anni ed un lampo mi balenò nel cervello.
"La grasta del venditore di fiori!", esclamai tra la meraviglia di tutti.
"Cos’è questa storia del venditore di fiori!", mi chiesero quasi all’unisono.
"Ma come! Non sapete la storia di questa grasta? Tu che sei la più grande dovresti conoscerne la provenienza!", dissi all’indirizzo di mia sorella.
"So che la mamma vi coltivava il suo basilicò che durava tutto l’anno. Ricordo solo un particolare, che quel basilicò vi cresceva rigoglioso e sembrava non morire mai. Oltre a ciò non ricordo altro", mi rispose, pregandomi di raccontare questa storia che l’incuriosiva tanto.
"E’ una storia molto semplice, che risale a parecchi anni
orsono. Io avevo circa dodici anni e, come spesso succedeva, mi trovavo nella putìa ad osservare papà che trafficava con un vecchio fucile da riparare. Un coloratissimo e sgangherato camion, pieno di lucine e tanti santini attaccati al parabrezza, si fermò, il pomeriggio di un sabato, davanti la porta. Ne scese un uomo, sulla quarantina, basso e tarchiato, con una pancia che assomigliava al tamburo di Minicu Lisina.
Adesso ricordo, forse era la vigilia della festa di San Giuseppe che allora si teneva ai primi di giugno, e che la sera spararono un
castìaddu eccezionale. In quell’occasione si disputava una gara tra due valenti fisciara, Sciortino e
Picone, ed il più bravo avrebbe vinto un premio in denaro. Uno dei due, non ricordo chi, compì un’impresa eccezionale, terrorizzando i paesani che erano in piazza. All’insaputa di tutti aveva steso un filo a mezz’aria tra il cinema di Narda e la casa di Balìaccu, da una parte all’atra della piazza, insomma. Lungo quel filo, ad un certo punto, cominciarono a correre
fisci con lingue di fuoco ed esplodere petardi d’ogni tipo. Immaginate il fuggi fuggi generale, tra l’urlo della gente ed il pianto dei piccini.
Quel signore per tutta la mattina aveva venduto fiori e graste per il paese, urlando a squarciagola: "Haiu lu basilicò, accattàtivi la grasta cu lu basilicò!". Questo tizio, mai visto né conosciuto prima da papà, ancora tutto rosso in faccia, entrò con fare circospetto chiedendo con la sua voce da baritono:
"E’ lei zi’ Pitrino?".
Papà lo guardò in faccia ed assentì con un cenno del capo, come volesse dire: eccomi qui!
"Mi manda una persona fidata, che mi ha parlato bene di lei, quindi mi fido anch’io. So che lei oltre a riparare fucili da caccia è in grado di sistemare pistole. Io ne ho una speciale, una strana pistola di marca spagnola, che ha un piccolo difetto che nessuno finora è stato in grado di eliminare. Tutti mi ripetono che si tratta di una fesseria, ma nessuno è capace d’aprirla per sistemarne la molla del carrello inceppato".
E così dicendo, senza consentire a papà di manifestare la sua opinione, s’era d’accordo o meno a trattare un argomento così delicato, con disinvoltura infilò la mano destra nella sua
puttrina estraendo una grossa pistola automatica con un bel calcio di madreperla. Questo particolare me lo ricordo bene, perché il calcio di quella pistola luccicava in modo strano. Papà fu preso alla sprovvista, e preoccupato per il fare incosciente di quel tizio, chiuse subito la porta mettendovi dietro la
stanghetta. Va bene che era lì per fare il suo mestiere, ma una cosa era riparare un innocente fucile da caccia, che tutti potevano detenere liberamente, un’altra mettere mano ad una pistola di cui non conosceva né il legittimo proprietario né la storia. Lo sapete che spesso e volentieri i carabinieri, passando per andare in caserma, che si trova in cima alla salita di fronte, si fermavano a fare due chiacchiere. Quindi sarebbero potuti entrare da un momento all’altro, e non sarebbe stato prudente farsi trovare con quella pistola in mano. E poi chi era costui, mandato da amici fidati? Non poteva essere qualche sbirro spedito apposta per fargli uno sgarro, dati i tempi e l’atmosfera poco tranquilla che regnava in paese per le imminenti elezioni politiche?
"Io devo partire subito per il mio paese, disse il venditore, perché ho un problema ai freni del camion e temo di restare per strada. Appena torno da queste parti vengo a ritirarla, tanto sono sicuro che lei riuscirà a sistemarla. Mi raccomando acqua in bocca!".
Papà tistià tanticchièdda come volesse dire, con un pizzico d’orgoglio: "Tutto tu stai facendo! Arrivi in casa mia e tiri fuori una pistola che non funziona, ma che magari può avere mandato qualcuno all’altro mondo. Vieni a sfidarmi dicendoti sicuro che io possa riuscire dove gli altri in precedenza hanno dichiarato la loro resa. E poi acqua in bocca! Non sono mica tuo complice, io! Va bene: ti faccio vedere io di cosa sono capace".
"Comu dici tu facìammu!", brontolò tra sé e sé quasi non volesse farsi sentire dall’intruso, ma che io, che ero rimasto in un angolo ad ascoltare lo strano colloquio, capii benissimo.
Appena però il venditore gli confidò che lo mandava, o meglio lo raccomandava caldamente, zi’ Pietro di
Raffi, papà si tranquillizzò un po’ ed accettò l’incarico promettendo che avrebbe controllato quella pistola il più in fretta possibile. Avvolse quell’arnese in uno straccio, come fosse un ferrovecchio e lo sistemò sotto il bancone insieme ad altri cimeli di guerra di cui era piena la putìa.
"Visto che è amico di zi’ Pietro, che conosco bene, gliela posso portare io stesso verso fine mese, a Raffi, dove andrò per una battuta di caccia. Sempre che non abbia urgenza di …..!", rispose papà con un sorrisetto che ancora adesso non so come interpretare, ma che sicuramente suonava come una presa in giro.
"Va benissimo per fine mese da zi’ Pietro", disse il venditore, con una stretta di mano, dicendo di chiamarsi
Bussica.
Papà, risollevato rispetto ad alcuni minuti prima, al momento dell’irruzione dell’intruso, aprì la porta, dando modo al venditore di tornare al suo camion. Subito dopo però questi tornò verso la putìa con uno scatolone, alquanto pesante a giudicare da come lo portava. Quando lo depose a terra e lo aprì, grande fu la nostra meraviglia nel vedere che si trattava di una
grasta, una bella grasta robusta ed elegante, con dei rilievi ai lati e due bei manici tutti lavorati. La grasta insomma che si trova in quell’angolo oramai un po’ malandata, e che mamma ha usato per coltivare il suo eterno basilicò.
"Accetti questo piccolo omaggio come anticipo al suo lavoro. Dentro al vaso troverà una bustina di semi speciali di basilicò!", disse il venditore con una smorfia di soddisfazione, certo d’avere fatto un regalo adeguato, data la meraviglia di papà.
Quindi, senza dire altro, salì su quel camion malandato, che si mise in moto dopo vari tentativi, e partì lasciando una voluta di fumo nero e puzzolente. Papà pose il vaso sull’incudine, al centro della putìa, e vi girò intorno due o tre volte osservandolo con meraviglia. Poi lo sistemò nella scatola e corse da mamma per una sorpresa che fu molto gradita.
"E come andò a finire la storia di quella pistola?", chiese mia sorella, disinteressandosi del vaso.
"Andò a finire che quella pistola rimase nella putìa non so per quanti anni, per poi sparire per sempre, non so come, né dove".
"Ma come! Papà con tutta la sua valentia in fatto di armi non fu in grado di ripararla?".
"Ma che dici, sorella, come puoi pensare una cosa del genere! La riparò e come, quella pistola, in un battibaleno. Devi sapere che papà in queste cose era un vero genio, ed a lui piaceva cimentarsi in queste cose complicate. Non per soldi, naturalmente, perché quasi nessuno pagava a dovere, ma per sua personale soddisfazione. Dopo la partenza di Bussica e l’omaggio fatto a mamma, impaziente ed incuriosito, ma soprattutto punto nel suo orgoglio, liberò la pistola da quello straccio e cominciò ad esaminarla. Quella maledetta non voleva saperne d’aprirsi, nonostante i tentativi più svariati. Pinze, pinzette, cacciavite, niente da fare, come tutti gli altri che avevano tentato prima. La esaminò in tutte le sue parti, ma non c’era nulla, almeno in vista, che potesse fare sbloccare il meccanismo. Sembrava stregata, eppure ci doveva essere un sistema tanto semplice da apparire complicatissimo. Dopo altri tentativi e non poche imprecazioni, papà capì che ci doveva essere un trucco, come il famoso chiodo conficcato nella porta del nonno che fungeva da sicura, e che faceva impazzire chiunque tentasse di aprirla: e forse a quello s’ispirò. Avvicinò la pistola all’orecchio, e girando un piccolissimo ed innocente perno nascosto dietro il grilletto, questo cominciò ad emettere un clic ad ogni giro. Al quinto clic il carrello di quella pistola schizzò in avanti come una lucertola infastidita da un ragazzaccio che voglia catturarla. Il mistero finalmente era stato svelato.
"Lo dicevo io, che ci doveva essere un trucco. Caro Bussica, eccoti servito!", esclamò papà con soddisfazione.
La smontò con meticolosità controllandone ogni parte, esaminò il pezzo guasto, e con l’abilità che non gli mancava ne costruì uno identico. Sostituita la molla e sistemato il percussore, la pistola poteva dirsi riparata. Papà soddisfatto, richiuse quindi l’arma in modo tale che, chi avesse voluto riaprirla in avvenire, non cinque ma otto clic doveva sentire.
"Ammesso che capisca il trucco!", rise con un pizzico di malizia.
"E perché allora la pistola rimase nella putìa per sempre, e non la volle più restituire a Bussica? Forse era tanto bella che la voleva tenere per sé?", obiettò ancora mia sorella, sempre più meravigliata ed incredula di tutta questa strana vicenda.
"No! Non andò così, sorellina mia. La pistola gliela restituì come stabilito e promesso, o meglio tentò di restituirgliela, durante una battuta di caccia nella contrada di Raffi. Sediamoci, e vi racconterò come andarono veramente le cose".
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La partenza
Non avevo mai osservato il cielo stellato di fine giugno, alle due di notte. Il cielo terso di Sicilia e le fioche luci che illuminavano appena le vie del piccolo paese, mi offrivano uno spettacolo che doveva rimanere impresso per sempre nella mia mente. Così come restano impressi avvenimenti particolari nella memoria di un adolescente di dodici anni. Rimasi incantato e col naso all’insù, gli occhi sgranati, non so per quanto tempo, alla vista della miriade di puntini che illuminavano la volta celeste. Un’infinità di puntini fitti e senza interruzione attraversava il cielo, mentre in basso verso l’orizzonte due punti più grossi, simili a palle da bigliardo, facevano da guardia a tutte quelle pecorelle che sembravano vagare nel nulla. Non tutti i puntini avevano la stessa intensità di luce, poiché alcuni risaltavano più degli altri, ed a ben guardare formavano delle figure geometriche facilmente distinguibili. Due piccoli quadrati con una coda, da sembrare aquiloni, un triangolo, una doppia W molto evidente. Forse aveva ragione il tolemaico Francischella che in quelle figure vedeva tutti gli animali della terra? Mi giravo e rigiravo verso tutti i punti cardinali, ma quei lumini misteriosi, che formavano una cappa sopra la mia testa, erano sempre lì, immobili, quasi lanciassero una sfida a contarli. A quest’idea la testa cominciò a girarmi vorticosamente, e fui costretto ad abbassare gli occhi, stropicciandoli ripetutamente, accostandomi al muro di casa.
"Si vede che hai ancora sonno!", mi disse papà, con tono canzonatorio, quasi volesse prendermi in giro, dopo le assicurazioni che avevo fatto il giorno precedente. "Hai visto che cielo stellato? Sarà più facile, con tutta questa luce, attraversare il vallone che porta verso il fiume, sempre pieno d’insidie e di spine", continuò".
"Senza la luna come faremo a vedere la strada?", obbiettai con un po’ di coraggio. L’idea di potermi imbattere in un ciuffo di ortiche o di opunzie, o di qualche biscia sempre in agguato mi dava i brividi.
"Non ti basta la luce di tutte quelle stelle? Guarda il pino di Manazza come si vede bene da qui, anche senza luna", rispose papà.
Quella risposta non mi convinceva tanto ma, a ben guardare, il famoso pino si vedeva distintamente, e mi parve di vedere che proiettasse una piccola ombra verso la piazza. Pensai che fosse la stella Sirio, stupenda e luminosa più delle altre, anche se bassa all’orizzonte, a fare quell’effetto, e che la mancanza della luna non era così decisiva per vedere i sentieri che i muli conoscevano a memoria. Persino in fondo alla strada, in alto alla fine della lunga gradinata che portava alle scuole elementari, si scorgeva distintamente la piccola edicola dedicata alla Madonna, illuminata da una flebile lucerna.
Annuii con un cenno del capo, per fare capire che ero sveglio, e tornai in casa per gli ultimi preparativi prima della partenza.
Era la prima volta che mi levavo a quell’ora insolita della notte, e mi sentivo orgoglioso per l’avventura che stava per cominciare. Ne avevo sentite di storie in fatto di caccia! Ricordavo le infinite discussioni tra cacciatori quando, seduti in cerchio davanti l’uscio di casa, discutevano e raccontavano battute al limite dell’inverosimile, e ne sparavano di tutti i colori tra le risate degli astanti. Noi bambini, seduti sul davanzale della porta di zio Ludovico, ascoltavamo a bocca aperta il racconto degli interminabili viaggi fino alla Mappa e a Raffi, contrade lontane parecchi chilometri. Quei
sapitura d’ogni segreto della caccia raccontavano della preparazione delle trappole, del lancio del furetto, del volo delle pernici, degli spari col fucile ad una o due canne, della corsa veloce dei conigli e delle lepri. Parlavano della preparazione delle cartucce, della polvere adatta all’umidità del mattino o del pomeriggio infuocato, dei pallini grossi, medi o piccoli, in base alla preda alla quale si dava la caccia. Ricordavo che per un’intera serata avevano parlato di fucili e relativi calibri, s’era più appropriato usare il dodici oppure il sedici per sparare alla pernice piuttosto che al coniglio.
La prova della merca era sempre al primo posto, poiché tante prede riuscivano a farla franca per non avere verificato la giusta dose di polvere nel preparare le cartucce. L’iniziazione allo sparo col fucile in genere avveniva proprio con la prova della merca, essendo un bersaglio fisso e quindi facile da centrare. Così il mese precedente era avvenuta la mia iniziazione con tutte le cautele del caso.
"Prendi bene la mira!", mi diceva papà. "L’occhio deve seguire la riga centrale della canna fino al bersaglio. Stringi bene le guance contro il calcio del fucile, altrimenti il rinculo ti rompe il muso!".
Naturalmente il rinculo ci fu, eccome! E dovetti sorbire una ramanzina che avrei ricordato per tutta la vita, come quella botta in faccia.
"Ti avevo detto di alzare la spalla destra e stringere il calcio del fucile alla guancia, prima di tirare il grilletto!", fu il rimprovero di papà; e poco ci mancò che partisse un ceffone. Così allora i genitori rincuoravano i figli anche se, ad onor del vero, mai papà alzò le mani su di noi, come potete confermarmi.
Avevo osservato papà la sera prima della partenza mentre preparava gli attrezzi, e mi sembrava che dovessimo partire per una guerra di liberazione. Un’intera
buggiacca colma di cartucce vuote, di barattoli di polvere da sparo di varie marche, come sipe e rotwell, scatole di detonatori, piccoli otri di pelle colmi di pallini, misurini per polvere e pallini, tappi di sughero e rondelle di cartone, scovolini e macchinette per sigillare le cartucce. Tutto l’armamentario, insomma, per caricare le cartucce. E poi le cartucciere colme di cartucce già pronte per l’uso, fatte arrivare da una fornitissima armeria della provincia.
"Cartucce speciali", mi diceva papà con soddisfazione, "capaci di colpire un coniglio a distanza doppia del normale".
Naturalmente non mancavano le cartucce caricate a palla ed a pallettoni, le micidiali
lupare, capaci di stendere un bue a debita distanza.
Alla mia domanda, come mai tante munizioni, la risposta era sempre la stessa: "Non si sa mai!".
Un’altra sacca colma di lazzola era pronta da alcuni giorni. I lazzola erano dei cappi di file di rame, a forma circolare, legati ad uno stelo di legno che veniva conficcato nel terreno. Il coniglio correndo infilava la testa nel cappio che, data la velocità dell’animale, si chiudeva come un nodo scorsoio, lasciandolo impigliato. Allo stelo era attaccato un segnale, in genere un piccolo nastro colorato, che scherzosamente chiamavamo
banniredda, per essere riconosciuto tra l’erba al momento del controllo.
Quindi veniva il furetto, rinchiuso nella sua panara, con tutto il necessario per i suoi pasti, come latte e formaggio, il filo ed il sego per prepararne la museruola.
I cani erano già pronti, e da un pezzo scodinzolavano allegramente per la via in attesa della partenza. Giulia, un valoroso setter, annusava dappertutto, e sembrava pronta per setacciare ogni angolo di maggese per scovare la preda, mentre l’altro cane, Zuriddu, forse un po’ assonnato, era alla ricerca di moine.
Tutte le chiacchiere dei giorni precedenti mi rimbombavano nella mente e mi rendevano importante poiché, moccioso com’ero, fra poco avrei potuto provare e verificare di persona cosa volesse dire partecipare ad una vera battuta di caccia.
Alcuni minuti dopo sentii lo scalpitio dei muli ed un vocio di persone che si avvicinavano. Erano gli amici di papà e quindi i miei compagni di avventura.
Li conoscevo bene zi’ Vicìanzu (chiamato Vici’), con quella sua voce straziante quando cantava nel coro dei lamentatori il Venerdì Santo, e zi’
Ciuzzu; contadino il primo e muratore il secondo. Avendo tutti e tre il vizio (come diceva la mamma) o la passione (come dicevano loro) della caccia, facevano un gruppo abbastanza affiatato. Per questo motivo, quasi ogni fine settimana, si ritrovavano per le battute di caccia.
"Piuttosto che andare a perdere tempo dietro ai conigli, perché non ripari il rubinetto della cucina che da mesi perde acqua. Abbiamo fatto la fine del ciabattino che va con le scarpe rotte!", lo rimproverava la mamma un po’ indispettita.
"Quando porto i conigli o le pernici da fare a sugo, non ti lamenti però! Il rubinetto può attendere", rispondeva papà (che chiamavano zi’ Pitrinu), che tutti i santi giorni trafficava con tubi e rubinetti.
E chi poteva dargli torto! La caccia era sì una passione ed un divertimento, ma era essenziale in quei tempi grami per mangiare un po’ di carne. Il macellaio bisognava pagarlo, ed oltre alla carne trita per le polpette ed a qualche costoletta, nei giorni di festa, non gli si poteva fare ricorso frequentemente. La caccia era aperta tutto l’anno, data l’abbondanza di selvaggina, e papà che ne subiva un fascino particolare, non trascurava la minima occasione per praticarla. Spesso papà tornava a casa a sera inoltrata con un coniglio, catturato nei pressi della miniera Gibellini dove lavorava, o tramite qualche amico, che tornava in paese, ci mandava una preda catturata il mattino presto. La preda doveva essere scuoiata e pulita in fretta, dato il caldo persistente, e quindi appesa ad un chiodo per farne rassodare la carne.
Parlare di caccia e viverla era la stessa cosa. Nei ritagli di tempo se ne stava in bottega a riparare un fucile per un amico, rifare un calcio rotto, sistemare i grilletti che s’erano allentati. I suoi clienti erano per lo più amici conosciuti nelle varie contrade in occasione di qualche battuta, e dei quali era spesso ospite in occasione della riconsegna degli attrezzi riparati. E proprio presso uno di questi amici, di cui spesso mi parlava papà, si doveva fare la sosta più lunga e passarci la notte: la masseria di zi’ Pietro e za’ Carmela, in contrada Raffi.
"Zi’ Pitri’!", diceva un contadino passando davanti la putìa. "La solita volpe è tornata a mangiare nel mio pollaio: quando viene a catturarla?". Un altro gli raccontava del coniglio (sempre lo stesso!) che passeggiava indisturbato davanti la sua aia, un terzo, con dovizie di particolari, giurava di avvistare tutte le mattine
sbardi di pernici nella sua contrada. Le chiacchiere non mancavano, ma spesso le battute in seguito alle segnalazioni davano i frutti sperati.
I tre muli di zi’ Vicìanzu erano bardati di tutto punto. Uno portava sulla sella una
vìartula che, a giudicare dal gonfiore delle tasche, doveva contenere pane, companatico e vino per due giorni almeno. Sul secondo erano caricati due
cufina con sul fondo un paio di coperte, mentre sulla vardedda del terzo pendeva una bisaccia vuota. Sulla spalla destra di zi’ Vicìanzu poggiava una cinghia che sosteneva un fucile a due canne, e portava una cartucciera che, appena legata alla vita, pendeva sulla pancia in modo disordinato. Non aveva l’aria del cacciatore provetto, a giudicare dal suo aspetto, ma quei benedetti muli erano una manna per spostarsi in contrade lontane per qualche giorno, e trasportare tutto il necessario, soprattutto al ritorno le prede sempre numerose.
"Le borracce le riempiamo a fontana grande, così si mantiene più fresca", disse zi’ Vicìanzu a papà, dopo un abbozzo di saluto. "Ah, vieni anche tu? Vedrai che bella camminata ti aspetta", mi apostrofò con meraviglia, vedendomi pronto a partire più per la spiaggia che per una battuta di caccia. Indossavo un paio di scarpe aperte ai lati, un paio di calzoncini corti, una maglietta con maniche corte ed un berretto che mi era stato regalato l’anno precedente in colonia.
"Ti ho visto mentre guardavi il cielo", continuò zi’ Vicìanzu, a voce alta che rimbombò per tutta la via. "Se vuoi saperne di più su tutte quelle stelle, devi parlare con Francischella, poiché quello sì che se ne intende! Quello in cielo vede di tutto, vede cani e leoni, immagina aquile, scorpioni, tori, orsi e serpenti. Chissà perché non vede anche conigli e pernici, che potremmo fare cadere giù con una fucilata e risparmiarci di andare a cercarli fino a Raffi o alla Mappa. Deve essere un po’ matto per tutte le storie che racconta. Dice di avere letto certi libri che gli hanno aperto gli occhi, ma secondo me è stato il caldo a chiudergli il cervello!".
"Lascia stare cugino Francischella", gli rispose papà. "Quello è capace di tenere testa a tutti i dottorini del paese, in fatto di cielo e stelle".
"Ascùnta a mia, Pitri’! Chiddu havi la testa celu celorum, anziché sulle spalle. E’ inutile che lo
metta sopra la vara. Piuttosto che contare le stelle a milioni, che solo lui sa fare, perché non bada alle sue dieci pecore e lascia in pace tutti i creduloni di cui il paese è pieno?".
"La scienza, Vici’! L’amore per la scienza l’ha portato ad avere la testa
celu celorum, come dici tu. Avesse studiato da piccolo, le sue teorie avrebbero fatto il giro del mondo, anziché restare chiuse tra i muri della sua
mànniraed essere deriso e incompreso da tutti".
"Ma che scienza e scienza! Quello fa girare sole e terra in base a come cacano le sue pecore. Se la cacata è dura è il sole che gira intorno alla terra, se la cacata è molle allora è la terra che gira intorno al sole. L’ho sentito ieri mentre, tenendo sottobraccio uno di quei dottorini di cui parli, che chiama sempre cugini, esponeva le sue teorie:
"Caru cujìnu, parlammuci chiaru! Se la terra girasse intorno, come dicono i sapientini moderni, saremmo tutti a gambe all’aria! Se provi a girare su te stesso, la testa ti gira fino a cadere per terra. Lo stesso sarebbe se la terra girasse intorno. E’ tutto fermo, fermo, caru cujìnu! E poi non l’hanno stabilito Chiesa e Papi che la terra è immobile ed il sole ci gira intorno?". Caru Pitrinu, questo tuo cugino è indietro di cinquecento anni almeno, a quando erano monaci e parrini a stabilire se tu dovevi vivere o morire.
Pi mìa, cu picuraru nasci, nun pò muriri astrologu!", concluse zi’ Vicìanzu che quando s’infervorava non trovava requie fintanto che non avesse espresso sino in fondo il suo pensiero.
"Pitri’, la caffettiera è pronta, devi solo accendere il
pipigas", gridò la mamma dal piano di sopra.
Papà aveva già provveduto, dal momento che il caffè gorgogliava con un glù glù incessante ed un buon odore si stava diffondendo per la stanza.
Bevuta un’abbondante tazza di caffè a testa, caricarono gli attrezzi sul mulo provvisto di cufina, papà si allacciò la cartucciera e si mise a tracolla il fucile, io presi la panara col furetto poggiandola sulla spalla. Non era un fucile, ma anche quello era un vivo attrezzo di caccia, capace di rivoltare una tana da cima a fondo e mettere in fuga i conigli che vi si trovavano. Notai però qualcosa di strano.
"Oggi la panara con Cicco mi sembra più pesante del solito", dissi a papà.
"Non farci caso, si vede che ha mangiato troppo latte e formaggio!", mi rispose con indifferenza.
"Attento al bambino e non farlo sparare con quel maledetto fucile", disse mamma un po’ preoccupata, affacciandosi al balcone.
"Noi andiamo, metti la stanghetta dietro la porta", fu la risposta di papà, mentre io facevo un cenno di saluto con la mano.
Zi’ Vicìanzu, presi i tre muli per le redini, s’incamminò verso la piazza per andare incontro a zi’ Ciuzzu che, per guadagnare tempo, era andato a prendere il suo cane. Io e papà infilammo la
vanedda adiacente che portava dritto verso l’uscita del paese.
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L’appuntamento
L ’appuntamento era nei pressi della fontana con annesso abbeveratoio per le bestie, vicino al mulino, appena fuori del paese. Attraversate alcune viuzze semi buie, ci ritrovammo alle spalle della piazza e quindi nei pressi della fontana. Il paese dormiva, ed a quell’ora insolita soltanto alcuni ragazzi giocherellavano con un barattolo come fosse una palla, causando un po’ di rumore. I nostri cani andarono a fare compagnia a quello di Nardazzu, dalle cui imposte usciva un filo luce, di fronte all’abbeveratoio, segno che, anche lui cacciatore, si apprestava ad una battuta di caccia. Taceva il mulino, tacevano gli attrezzi del fabbro ferraio che all’alba avrebbe iniziato a battere sull’incudine ed a ferrare i cavalli. S’udiva soltanto il rumore dell’acqua che fuoriuscendo dal cannello cadeva in una conca di duro calcare e quindi andava a riempire la vasca rettangolare, normalmente piena di vischio, di sanguisughe e d’insetti. Tutt’intorno alla fontana spuntavano ramoscelli d’erba di vento, una varietà di parietaria utilizzata per pulire i vetri, immancabile in tutti gli angoli del paese dove stagnasse un po’ d’umidità. Alle prime luci dell’alba la piccola fontana sarebbe stata presa d’assalto dai paesani, sempre disposti a vociare ed a litigare per avere la precedenza a riempire
bummula e lanceddi, data la penuria d’acqua e le poche fontanelle esistenti. E decine di muli e cavalli si sarebbero abbeverati prima di recarsi in campagna. A quelle voci si sarebbero sovrapposti i saluti e lo scambio di notizie dei contadini che si apprestavano agli ultimi lavori della stagione, prima della pausa estiva.
Io e papà eravamo sul luogo dell’appuntamento da alcuni minuti quando sentimmo lo scalpitio degli zoccoli dei muli di zi’ Vicìanzu, sulle pietre laviche che lastricavano la via, ed il loro impatto produceva tante piccole scintille da sembrare un esercito di lucciole. Poco dopo vedemmo un’ombra avanzare lentamente da dietro il vecchio mulino, preceduta da un cane. Era zi’ Ciuzzu.
"Ciù, allunga il passo anziché arrancare catàmmari catàmmari! Lassa stari chiummu e cumpassu
che usi tutti i santi giorni. Fra poco spunta l’alba", gridò zi’ Vicìanzu con voce stridula.
Insieme ci avviammo per il sentiero che portava verso la contrada Cuba e quindi a Fontana grande, lasciando alla nostra destra la gobba del monte Calvario con la croce illuminata appena. Il tragitto iniziale lo conoscevo bene, avendolo fatto decine di volte con la luce del giorno. Di notte era un’altra cosa. Sotto quel cielo costellato di puntini vedevo ombre dappertutto, e sembrava che la lunga gobba del monte Ottavio che dalla croce portava a Pupìddu ci venisse incontro o ci seguisse, secondo come mi giravo. Oltrepassammo i grandi
carcaruna della vecchia miniera di zolfo di Piano del pozzo, che oramai fungevano da pagliera, ed iniziammo il ripido sentiero che portava verso fontana grande.
I cani s'erano fermati dinanzi ad una di quelle costruzioni rosse, ed abbaiavano incessantemente come se avessero scovato un coniglio o una volpe. Ed a quest'ultima pensarono subito papà e gli altri, quando udirono una voce provenire dal di dentro:
"Vossìa binidica, chiamate i cani, chiamate i cani!".
Zi' Ciuzzu corse a fermare i cani prima che sbranassero quel poveretto che, con indosso soltanto un paio di mutande rosse, s'era fatto avanti, saltellando come un piccolo diavolo, con le mani alzate quasi ad implorare pietà.
"E' quel matto di Turiddu!", disse zi' Ciuzzu.
Turiddu, spaventato e tremante, si scusò dicendo che stava dormendo nella culla quando i cani avevano cominciato ad abbaiare e volevano quasi sbranarlo.
"Torna pure a dormire!", gli disse papà.
"Povero Turiddu, la guerra in Grecia gli ha messo fuori uso il cervello", commentò zi' Vicìanzu.
Proprio così! Il povero Turiddu era la persona più mite e brava del paese, il cui cervello era tornato bambino dopo le tante peripezie subite. Era naturale quindi che combinasse stranezze e che venisse considerato un folle agli occhi della gente. Era stato mandato a combattere in Grecia, ma n'era tornato sconvolto e disperato; ricordava soltanto alcune parole greche che sciorinava come un rosario quando qualcuno gli chiedeva di raccontare le sue avventure. In sella al suo motorino si recava a Palermo, e rovistando tra gli scarti del teatro Politeama raccattava i variopinti costumi degli attori d'opera. Allora lo si vedeva circolare per il paese vestito da gladiatore romano, con un mantello rosso, spada, lancia e calzari. Oppure, coperto appena da quattro stracci ed un bastone in mano, emulava S.
Bernardo, circondato dai suoi cani. A richiesta si metteva in posa con un sorriso disarmante, mostrando l'unico dente rimastogli: che era già tanto per quello che riusciva a racimolare per mangiare!
Sparito per qualche mese, al suo ritorno raccontava d'essere stato in colonia (carcere) perché, vestito da gladiatore era salito sulla predella situata in mezzo ad un crocevia di Palermo, e s'era improvvisato vigile dirigendo il traffico! A modo suo, naturalmente.
"Non capisco perché m'abbiano mandato in colonia!", continuava a ripetere.
"Conviene andare a piedi fino al fiume, disse zi’ Vicìanzu, quindi possiamo montare sui muli". Fummo tutti d’accordo dal momento che sarebbe stato più faticoso stare in sella, per quella ripida trazzera, che seguire a piedi il comodo viottolo che portava verso il basso.
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Il vicolo delle rose
"Povera comare Carmela, com’era brava e servizievole!", disse zi’ Vicìanzu con tristezza passando davanti al vicolo denominato delle rose.
"E povero compare Michele!", gli fece eco zi’ Ciuzzu, quasi accuttufatu per la tristezza in cui era precipitato il suo amico, dopo la sepoltura della moglie, avvenuta il giorno prima.
Il vicolo delle rose era situato alla periferia del piccolo paese; prendeva il nome dalla serie di vasi che da sempre, a memoria dei più anziani del luogo, inondavano di rose i due muretti che facevano da ingresso al caratteristico cortile. Anche il piccolo
astraco, posto al centro del cortile e sostenuto da due colonne squadrate, era colmo di vasi seminati a fiori, una grande
giarra di terracotta alzava al cielo una piccola palma africana, mentre due cactus che spuntavano da altrettanti
muzzuna, una specie di quartara dalla bocca larga, facevano da contorno alla ringhiera in ferro battuto, messi lì quasi a protezione della casa. Persino la piccola scala esterna, composta da una decina di scalini, era costellata di vasetti dalle fogge strane, piccoli tegami caduti in disuso o pentole che non valeva più la pena riparare. Da un’occhiata attenta, infatti, si capiva, dalle numerose toppe e dalle evidenti saldature, che quei tegami erano stati martoriati, e non poco, dal mastro ferraio nel tentativo di farle durare il più a lungo possibile per l’uso originario. Adesso, degradate ad essere riempite di terra piuttosto che di pasta e verdura, stavano lì a ricordare come il tempo passasse inesorabile e come anche le stoviglie potessero raccontare della loro gioventù, del loro matrimonio, della nascita dei loro figli, ormai adulti.
"Ricordi quella pentola posta sul primo gradino? Ce l’ha regalata zia Peppina in occasione delle nozze; e quanto latte abbiamo scaldato ai nostri bambini in quel tegamino posto più in basso, dove adesso spunta quella piccola margherita!", ricordava Carmela con commozione.
Michele annuiva mostrando indifferenza, ma in cuor suo quei ricordi lo toccavano forse più di Carmela.
Da ogni vaso spuntavano fiori e foglie verdi. Una piccola oasi, in quel deserto di case scarne e disadorne, curata da una padrona assidua e meticolosa: comare Carmela, detta la fioraia.
Oltre alle rose ed ai fiori dai colori delicati, di una pianta andava orgogliosa Carmela; una bellissima agave che, andava dicendo alle amiche, stava lì a protezione della casa. Era stata piantata in un bel vaso di terracotta, una
saimera di colore azzurro, e posta nella parte alta del terrazzo per essere vista ed ammirata da chi passasse. Le sue belle foglie verdi e carnose, lunghe e spinose, si aprivano a raggiera in vari strati incrociati, mentre uno stelo centrale, coperto da bei fiori viola, si elevava su tutte. Il suo nome greco, meraviglioso, era veramente appropriato per quella pianta che cresce spontaneamente in Sicilia. Quel fiore delicato, a dispetto della forma austera e violenta degli aculei delle foglie, la commuoveva; al pensiero che, fra qualche tempo, inesorabilmente, quella pianta sarebbe morta per sempre, le dava gioia e tristezza, allo stesso tempo. Carmela in cuor suo sperava che potesse sopravvivere alla vecchiaia ed agli acciacchi che sempre più frequentemente la infastidivano.
Persino le piante estranee e non cercate si davano appuntamento in quel cortile. Nell’angolo tra il muretto e l’inizio della scalinata che portava all’astraco era spuntato un fico che, anche se ignorato e non tenuto in considerazione da comare Carmela, era cresciuto ed era diventato una pianta con tanto di tronco, quasi volesse inserirsi nel contesto di quel meraviglioso cortile. Michele aveva persino dovuto scavare una piccola nicchia nel muretto per evitare che il tronco, ingrossandosi, potesse arrecare danni irreparabili alla costruzione. Alla fine comare Carmela s’era arresa a dedicare qualche minuto del suo tempo a quella bella pianta, dalle foglie larghe e dall’odore pungente, che la mandava in visibilio nelle fresche mattinate estive. Presto arrivarono i primi frutti bianchi, per diventare abbondanti l’anno successivo, ed attirare tanti passerotti alla ricerca di cibo.
Il marito di comare Carmela era soprannominato Michele tre dita perché rovistando tra i rottami di un carro tedesco, residuato dell’ultima guerra, aveva perso il mignolo e l’anulare della mano destra in seguito all’esplosione di un proiettile d’artiglieria. Michele faceva di mestiere il contadino, ed oltre che coltivare i campi a grano e fave, secondo le usanze paesane, curava un piccolo orto nei pressi di
fontana grande, giù verso il fiume. Ai margini dell’orto oltre al girasole seminava fiori dai colori sgargianti, perpetuando così la sua passione di giardiniere che aveva appreso in quei lunghi mesi di permanenza a Catania durante il servizio militare. La passione di Michele tre dita s’era impadronita di comare Carmela fino a diventare maniacale: il che non dispiaceva né al marito, che vedendola sempre impegnata era libero di muoversi come voleva, né ai vicini di casa che indirettamente ne godevano i benefici.
I passanti, amici o semplicemente conoscenti, che si recavano dall’ortolano di fronte o che si dirigevano verso la piazza per il passeggio serale, non disdegnavano di curiosare nel cortile fiorito alla ricerca di qualche nuova pianta, o per vedere se la rosa che si abbarbicava alla colonna dell’astraco avesse emesso qualche nuovo bocciolo. Curiose per natura le donne di quel paese, ma forse punte da un pizzico d’invidia si chiedevano coma mai le loro piantine, accudite e coccolate come e più d’un bambino, non durassero il volgere di qualche settimana per poi inaridire miseramente. Non facevano mancare loro l’acqua ogni sera, curavano che al volgere del sole i raggi non colpissero direttamente le foglie, spostandole all’ombra. Era tutto inutile.
"Io con le piante parlo, cara comare", diceva Carmela a chi le chiedeva spiegazioni. "Vedete quella rosa gialla sul davanzale dell’astraco? Stava per morire quest’inverno; ma poi con un po’ di concime e tanta cura sono riuscita a salvarla ed a farla fiorire".
Per comare Carmela ogni vaso aveva la sua storia e d’ogni pianta raccontava come tenerla, se metterla al riparo durante l’inverno, come e quando travasarla, lasciando stupefatte ed incredule le sue amiche.
Quel tardo pomeriggio di fine giugno, però, la gente che passava davanti al vicolo dei fiori, si faceva tre volte il segno della croce volgendo lo sguardo a quel bianco lenzuolo che faceva da sipario all’ingresso del cortile. Persino le rose, che allietavano la strada coi loro bei petali colorati, arse dal calore estivo e prive d’acqua da alcuni giorni, s’erano piegate in avanti, quasi a mostrare la loro tristezza per quanto stava accadendo alla loro padrona.
"Come va comare Carmela?", chiese una passante ad una vicina di casa che, spostando il lenzuolo, era spuntata in strada con un fazzoletto in mano, come un attore sul proscenio di un teatro per prendere gli applausi dagli spettatori, dopo una rappresentazione ben riuscita.
"Stamattina aveva avuto un curpicìaddu, e sembrava riprendersi; ma ormai assacca, comare Carmela,
assacca dda mischina. Chi mala sorti!", rispose la donna singhiozzando e coprendosi gli occhi col fazzoletto bianco, per poi infilarsi di corsa nella porta accanto.
I ragazzini, parenti e nipoti di comare Carmela, sembravano impazziti e, quasi ignari della triste situazione, giocherellavano per il cortile rincorrendosi di qua e di là del lindo lenzuolo pendulo. Nella loro incoscienza forse già assaporavano il ricco
cùansulu che parenti ed amici avrebbero approntato per l'occasione. E mentre un'anziana signora con una scopa li rincorreva per indurli ad un comportamento consono alle circostanze, dalla porta socchiusa giungevano in strada le litanie ed i
Pater noster recitati ad alta voce dai parenti con voce concitata, in un crescendo impressionante, in un
latinorum misto di dialetto locale: "Pater nostro chi sei in celo, santificeto nome tuo…..Ave Maria di grazia piena, Domino teco, biniditta …..".
Poco prima da quel triste proscenio era spuntato il medico, per l’ultima visita prima di decretarne ufficialmente la morte, era apparsa l’onnipresente Marasanta, come sempre intabarrata nel suo scialle di seta nera, dalle lunghe frange pendule, pronta e servizievole per i suoi consigli e la sua esperienza in queste pratiche dolorose. Infine s’erano uditi i rauchi e lenti rintocchi della campana a morto, ed al centro di una piccola processione salmodiante de profundis e miserere, era apparso il parroco Don Vito. Nella sinistra una lunga croce e nella destra l’aspersorio, avvolto nei suoi paramenti viola, aveva bucato quella tenda bianca per portare l’estrema unzione a comare Carmela ed alle sue belle rose.
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L’asino e la senia
" Sentite come gira quel povero sceccu intorno alla gebbia di Murialìaddu?", disse papà rompendo il silenzio.
"A quest’ora di notte? Ma allora non si ferma mai, povera bestia!", chiesi meravigliato.
"Gira di notte perché tira l’acqua per innaffiare il giardino mentre c’è un po’ di fresco. Più tardi col caldo opprimente non sarà più possibile bagnare l’aranceto".
Quel piccolo giardino era come un’oasi in quella contrada che in verità tanto secca non era. Aranci e limoni crescevano rigogliosi inondando di vivaci colori i terreni limitrofi coltivati per lo più a mandorlo, ed un pungente odore di zagara inebriava le narici di quanti si trovavano a passare nei paraggi. E tanti alberi da frutto, fra cui un bellissimo gelso che era la felicità di noi bambini quando, per raccogliere quei piccoli globuli, ci coloravamo di rosso dalla testa ai piedi. Ai margini del giardino un verdissimo orto dispensava in abbondanza melanzane, peperoni, zucchine e tante altre verdure che non avrebbero potuto crescere senza l’abbondanza d’acqua che richiedevano.
Questo miracolo era possibile grazie all’acqua che quel povero somaro tirava su da un profondo pozzo con un meccanismo vecchio di secoli, non esistendo ancora i motori elettrici adatti a questo scopo. Girando pazientemente intorno al pozzo, cogli occhi bendati, o spesso accecato da padroni senza scrupoli, metteva in movimento una ruota dentata, chiamata
senia. Questa ruota a sua volta ne azionava un’altra nel cui asse, che girava in senso verticale, erano agganciati una teoria di secchi. Questi immergendosi nel pozzo si riempivano d’acqua, e tornando in superficie si vuotavano in una
canalina di zinco collegata ad una grande vasca (gebbia). Da qui l’acqua per mezzo di canali si convogliava verso il giardino per irrigare l’orto e le piante. Quel sistema ingegnoso per sollevare il prezioso liquido, bello a vedersi, produceva un rumore monotono d’acqua e di secchi che si udiva anche ad una certa distanza, soprattutto nel silenzio della notte. Ma spesso erano i ragli di quel povero asino bendato, costretto a quel girotondo senza fine, a sopraffare gli altri rumori.
Questo particolare sistema di senia era utilizzato per tirare l’acqua dal pozzo di una certa profondità. Nei luoghi dove l’acqua si trovava quasi in superficie bastava una semplice
noria, formata da una ruota dentata in grado di sollevare l’acqua e riversarla a lato, oppure da una ruota ad elica. In Sicilia ed in Sardegna era utilizzato l’asino come forza motrice, poiché il meccanismo a ruota non richiedeva una grossa forza di trazione. Mentre in altre località come Egitto o Siria erano i buoi o i cammelli a girare pazientemente in circolo. Spesso le norie erano utilizzate non per tirare l’acqua, ma per schiacciare le olive o triturare il sale, per necessità spesso a livello casalingo. In questo caso muovevano due grosse macine di pietra adatte allo scopo. Una bella applicazione di noria, di cui restano soltanto dei disegni che si rifanno al grande Leonardo, si trovava nella Villa
Arconati, presso Milano. Un asino, girando intorno ad un meccanismo di ruote dentate, sollevava l'acqua per riempire un grosso recipiente posto ad una certa altezza. Questa, cadendo in basso con forte pressione, oltre che innaffiare i giardini alimentava le tante fontane della villa, ricche di zampilli e giuochi d'acqua.
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La discesa al fiume
Lasciati sulla destra ai margini della Cuba i due alti ontani, le cui foglie mosse da una leggera brezza producevano un leggero fruscio, imboccammo il ripido vallone ricoperto di rovi pungenti ed intricati dai quali, disturbati dal rumore dell’erba secca che calpestavamo, saltavano i merli che vi trovavano riparo, rompendo l’assoluto silenzio della notte con i loro incessanti ed acuti zirlìi. Avanzavamo lentamente in fila indiana, ed il silenzio che regnava era rotto di tanto in tanto dalle frasi smorzate ed incomprensibili di zi’ Vicìanzu che incitava i muli in quel tratto di strada scoscesa. Ai lati del vallone si potevano scorgere alberi di mandorlo, di fichi, di peri e tanti piccoli appezzamenti coltivati a vigna, che risaltavano sui terreni circostanti per il loro colore verde. Mentre in lontananza si vedevano distintamente i due alti pini, al centro della dorsale dell’Albanello, che da sempre contrastavano con la vegetazione del posto.
Lungo un muretto, a delimitare la proprietà del terreno, spuntavano tante agavi, che regalavano a quel territorio un’atmosfera quasi messicana. Quelle foglie cauline, dentate e carnose, erano armate di spine e culminavano con velenosi ed acuminati pungiglioni, quasi a protezione della propria incolumità. Le piante più vecchie mostravano un lungo rizoma adornato da rami a candelabro, con bei grappoli di fiori viola; segno che la pianta, vecchia di vent’anni, oramai era destinata a morire. Dalle foglie si ricavavano forti filamenta per la tessitura, mentre la punta, legata ad uno stelo di legno era adoperata come
zaccurafa, una specie di testa d’ago per forare materiali di una certa consistenza.
Poco più avanti, sotto la luce delle stelle, cominciavano a luccicare i gessi che costituivano la parte finale e prominente della piccola collina, ricca di grotte e tane per animali.
"Quanti ricordi mi legano a questa terra!", disse papà commosso. "Venivamo qui per la caccia o per raccogliere le pere dai numerosi alberi che ancora adesso, benché vecchi e malandati, fanno tanti frutti. Vedi quella robba lassù? E' la robba dell'Ingegner Valenti. Tu avevi ancora pochi mesi quando, durante la guerra, eravamo sfollati proprio in quella robba. Ad un tratto un aereo americano cominciò a lanciare bombe contro i Tedeschi che si stavano ritirando verso il fiume. Immagina che paura a sentire il rumore delle eliche a bassa quota e delle mitragliate continue. Due grosse bombe caddero proprio su quei gessi che vedi luccicare: una esplose con tale fragore e potenza da fare rompere i vetri delle case in paese, mentre l'altra rotolò inesplosa sui gessi e si fermò proprio qui, su questo viottolo. Dopo qualche giorno, finita la battaglia, chiamammo gli artificieri americani che, estratta la spoletta, seppellirono la bomba, grossa come una piccola botte, tra quei tre alberi che vedi di fianco. Furono momenti di paura, ed ho ancora nelle orecchie le parole del nonno che gridava: nascondetevi, porca terra, nascondetevi! Ma c'era poco da nascondersi, poiché solo un tavolo da cucina fu il nostro riparo".
"E la bomba che sta qui sotto non è pericolosa se i muli dovessero calpestarla cogli zoccoli?", disse con ansia zì Vicìanzu.
"No, disse papà, perché eliminata la spoletta non può più esplodere. A meno che, come mi aveva proposto anni addietro
Michilazzu, non la vai a martellare per estrarre la polvere per farne delle mine. Quello è un po' matto, e mai gli rivelerò l'esatta ubicazione della bomba".
Macchie d’erba verde e ciuffi d'ampelodesmi (comuni canne) cominciavano a comparire ai bordi del piccolo vallone, segno che lì scorreva un rigagnolo d’acqua. Erba e canne che, sempre più alte e rigogliose, raccontavano anche ad uno sprovveduto che si era in prossimità di una sorgente d’acqua.
Ancora un centinaio di metri di ripida discesa, e ci trovammo di fronte ad un grande canneto che circondava la sorgente di Fontana grande. Nel silenzio della notte si udiva distintamente il rumore dell’acqua che, sgorgando dalla fessura di un grosso masso all’interno di un
casalinu, cadeva in una piccola conca e quindi spariva ripida tra le canne. Poco più a valle formava un piccolo ruscello che i contadini convogliavano in una grande vasca per innaffiare i numerosi orti. L’acqua, data la pendenza del terreno, scorreva in una serie di piccoli canali verso le piantine da innaffiare, quindi poteva essere deviata con una zappa, in modo da formare una piccola chiusa, per immetterla in un canale adiacente. Queste operazioni avvenivano in genere di notte o alle prime luci dell’alba perché, essendo il terreno un po’ umido, l’acqua scorreva meglio e c’era meno dispersione nel terreno. Vi crescevano in abbondanza pomodori, zucchine, melanzane e peperoni, oltre a cocomeri e meloni di tutte le qualità, di cui i contadini facevano un piccolo commercio. L’acqua di quella sorgente era buona da bere, anche se un po’ calcarea, ed una manna per quell’arida contrada. Il piccolo casalinu era circondato da alte canne e sovrastato da un enorme fico, quasi volesse sostituire il tetto mancante, e che saturava il piccolo ambiente col suo caratteristico odore pungente. Un senso di pace e di frescura riempiva quella piccola oasi; il silenzio che vi regnava era rotto soltanto da qualche ranocchio che saltellava qua e là nella conca e dal rapido guizzare di una
guìsina, una piccola biscia d’acqua disturbata dalla nostra presenza. Dopo esserci dissetati, riempimmo d’acqua fresca bummula e borracce a nostra disposizione, quindi iniziammo l’ultimo tratto di trazzera che portava diritta al fiume Gallodoro.
"Compare Vici’, venite a raccogliere un po’ di cocomeri che quest’anno sono abbondanti!".
Evidentemente il nostro passaggio era stato notato, (e come poteva non esserlo) da un contadino intento alle operazioni d’annaffiamento.
"Grazie, compare Carmelo, al ritorno sicuramente ci fermiamo", rispose zi’ Vicìanzu che aveva riconosciuto la voce del contadino.
"Anche se non mi trovate, il mio orto è a vostra disposizione. Saluti a tutti e buona caccia!", fu la risposta di compare Carmelo.
A quel punto riconobbi anch’io la voce paesana di Patamuru presso il quale ogni tanto la mamma mi mandava a comperare rossi e odorosi pomodori per l’insalata.
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Salita a Crucifia
Attraversare il fiume, in secca in quel periodo dell’anno, non rappresentava alcun problema, dal momento che il suo letto era asciutto e solo un po’ d’acqua stagnante si vedeva scintillare in pozzanghere o
nache, com’erano chiamate in paese. Quelle nache, spesso profonde alcuni metri, erano il regno delle rane e delle anguille che di solito venivano catturate con dei sistemi particolari, dopo avere attassata e avvelenata l’acqua con un’erba di nome tasso. Poco più avanti stazionava un carretto con le aste alzate verso il cielo, mentre un cavallo pascolava tra l’erba ed i proprietari dormivano tranquillamente su un grande letto di paglia a forma di mezzaluna, residuo di una recente trebbiatura. Evidentemente aspettavano le luci dell’alba per continuare la raccolta delle
vastunache, un tubero di colore giallo e dolciastro, simile alla carota, prodotto da una piccola pianta delle ombrellifere chiamata pastinaca. A lato del carretto ce n’era un bel mucchietto, pronto per essere caricato e portato a destinazione. Solo allora mi ricordai della festa che facevamo quando il carretto attraversava le vie del paese, e l’inseguivamo vociando per impossessarci di uno di quei dolci tuberi.
Il panorama era cambiato completamente. Il Gallodoro formava delle anse tortuose e sonnolente allungandosi da ovest verso est, ed oltre alla Rocca di Sutera, col monte S. Paolino appena illuminato, in lontananza si scorgevano le luci di alcuni paesi. Sembrava il regno del buio e del silenzio, rotto soltanto dal gracchiare di piccole rane che saltellavano tra i cespugli dei numerosi e rigogliosi orti seminati ai bordi del fiume. Di fronte a noi s’intravedeva la collina della contrada detta Sampria, ricca di platani alla base, ma brulla e coperta di sterpaglie nella parte superiore.
"Questo è il regno delle pernici, ma ancora è presto per sentirle cantare", disse papà rompendo il silenzio, con l’aria di chi conosce bene un luogo per averlo frequentato. "Col fresco, lo sbardo di pernici è capace di volare da Sampria per posarsi sotto l’Albanello, ed allora ci vuole mezza giornata per andarle a
catacogliri fino laggiù".
Dal loro incessante canto, alle prime luci dell’alba mentre starnazzavano tra l’erba, si poteva individuare la loro posizione e dare loro la caccia quando il sole era già alto, approfittando della loro indolenza al volo.
Era giunta l’ora di salire a cavallo e dirigerci verso la prossima contrada chiamata Crucifìa.
"Mi scappa di pisciare, vi raggiungo subito", disse zi’ Ciuzzu intanto che annaffiava una macchia di capperi.
"Non fartela scappare ancora durante la salita!", gli rispose zi’ Vicìanzu ridendo.
Iniziammo la salita verso Crucifia, lungo una trazzera abbastanza ripida tra arbusti e sterpaglie d’ogni genere. Io m’ero accovacciato in groppa al mulo di zi’ Vicìanzu, molto pratico nel cavalcare le bestie, mentre papà e zi’ Ciuzzu arrancavano dietro sugli altri due, attenti ai movimenti bruschi per non essere disarcionati e finire in mezzo alle spine. Io mi tenevo stretto alla bardatura del mulo che ansimava e di tanto in tanto emetteva rumorosi pìdita.
"Mih! comu si pìdita ssà mula!", disse sghignazzando zi’ Ciuzzu che se ne stava in coda al gruppo.
"Eh! chi vulìti, cumpari Ciuzzu! La dovete sopportare. E’ vecchia ormai st’armaruzza!", gli rispose zi’ Vicìanzu, con voce quasi rassegnata.
"Se la volete vendere, la prossima settimana a Sutera si tiene una magnifica fiera dove si vende e si compra di tutto".
"Ma che fiera e fiera! Non la vorrebbero neanche come carne da macello. Finché sta in piedi va bene, poi mi toccherà
arrizzularla a lu sbalanzu", gli rispose zi’ Vicìanzu mostrando un’infinita pena per quella povera bestia e dispiacere per sé che perdeva un inseparabile attrezzo da lavoro.
"Perché non le fate una bella cura ricostituente? Ho sentito dire che a Canicattì ogni settimana arriva un veterinariu che fa miracoli".
"A li vicchizzi, valori, cumpà? No, ormai la sua fine è segnata", disse zi’ Vicìanzu pervaso da un’atavica rassegnazione.
Da sempre era consuetudine che, dovendo farla finita con un asino o con un mulo si menava la bestia sulla balza di un dirupo e, dopo averla bendata in segno di estrema pietà, si faceva sfracellare contro le rocce sottostanti. Una specie di Rupe Tarpea nostrana per animali non più utili al padrone. Non sempre la bestia moriva all’istante, ma spesso restava a rantolare a lungo tra le carcasse di tanti altri animali che l’avevano preceduta in quell’orribile fine.
Intanto che parlavano di muli e di fiera un’ombra avanzava verso di noi. Quando fu evidente che si trattava di una bestia carica di due enormi rotoni di paglia, zi’ Vicìanzu fermò subito il suo mulo, non essendoci spazio sufficiente su quella trazzera, facendo segno che sarebbe stato opportuno fermarsi.
"Ah! Ah!", gridò saltando a terra e prendendo per le redini il mulo. Io rimasi aggrappato alla vardedda, timoroso di finire a terra se la bestia si fosse imbizzarrita. Appena quell’ombra si materializzò, evidenziando una persona tra i rotoni di paglia, udimmo un:
"Salutammu a tutti!", a voce alta, quasi temesse di non farsi sentire.
"Salutammu, Buzzichì! A quest’ora vai in giro a portare paglia!", rispose zi’ Vicìanzu che aveva conosciuto rannicchiato tra i rotoni di paglia Buzzichinu,
l’uomo che ballava camminando, per via della sua gamba destra più corta della sinistra.
"Abbiamo finito ieri di trebbiare a Crucifia e mi tocca fare due viaggi fino al paese. Si vede che andate a caccia", continuò salutando papà e zi’ Ciuzzu.
Uomo basso e tarchiato, possedeva un carattere ridanciano, capace di tenere testa con salaci battute a chi, a causa della sua menomazione sin dalla nascita, tentava di prenderlo in giro.
Fare passare quel mulo carico di paglia fu un’impresa non facile. Scendemmo tutti dai nostri muli, facendoli spostare ai bordi della stretta trazzera, permettendo così a Buzzichinu di avanzare lentamente col suo carico fino a sorpassarci.
"Cinque minuti fa è scappata una lepre tra le gambe del mulo, propriu darreri lu casalinu di don Carmelo", disse Buzzichinu per ringraziarci della cortesia.
"La solita lepre che mi segnalano a Crucifia!", commentò papà con sarcasmo. "Potremmo andare a cercare anche l’altra che mi hanno segnalato vicino la robba di Tulumìaddu".
"Lassammu stari, Pitri’! Cu’ du’ lebbri voli assicutari, l’unu e l’autru veni a mancari! Meglio cercare le pernici che fra poco sentiremo cantare", fu la sentenza di zi’ Vicìanzu.
Buzzichinu, malmesso e sciancato, aveva la gamba sinistra più corta dell’altra di parecchi centimetri e quando camminava per strada sembrava ballasse una mazurca. Quasi spariva in sella al suo mulo tra due giganteschi rotoni di paglia che facevano arrancare e sfiatare il povero animale. Tornava dalla Crucifìa, dov’era rimasta abbandonata della paglia dopo la trebbiatura, e che trasportava nella sua stalla, per essere utilizzata come biada per le bestie durante il periodo invernale e per attizzare il fuoco nella cucina a legna. Tutti si chiedevano come facesse, da solo ed in quelle condizioni fisiche, a preparare i rotoni e caricarli sul mulo, cosa non facile neppure per due persone. Il
rotone era un’enorme rete di corda, come una rete da pesca ma con delle maglie abbastanza larghe, che assumeva la forma di una sfera una volta riempita di paglia. I due rotoni, agganciati tra loro per mezzo di uno spezzone di corda, erano pronti per essere caricati sul mulo. Fatta questa operazione, Buzzichinu sovrapponeva con non poca fatica un rotone sull’altro e, lasciandoli in equilibrio, accostava il mulo ai due rotoni; quindi con una spinta faceva rotolare il rotone superiore sul mulo, facendo attenzione che la cordicella che li univa si posasse sulla sella, intanto che si aggrappava al rotone inferiore per evitare che per il contraccolpo, come una catapulta, anche questo rotolasse dalla parte opposta. Dopo qualche sobbalzo ed un paio di rinculi del mulo, il carico restava in equilibrio ed il miracolo era compiuto. Buzzichinu, che era rimasto sospeso per aria come un granchio per qualche istante, poteva toccare terra con soddisfazione. Aggrappandosi al collo del mulo, con una manovra da equilibrista da circo, si adagiava sulla sella e spronava la povera bestia che doveva trasportare il pesante carico fino a destinazione, attraverso trazzere scoscese e malandate.
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La ricotta
Il cielo cominciava lentamente a rischiararsi, e sulla destra si vedeva distintamente la collinetta di arenarie chiamata Ciràusi, molto ricca di fossili, che piano piano assumeva un colore arancione. Poco dopo la trazzera divenne meno ripida ed ampia, fino a diventare una comoda strada di campagna, sboccando in un pianoro costellato di alberi di mandorlo e di pietre calcaree sparse dappertutto.
"Visto che siamo a Crucifia e l’ora mi sembra giusta, potremmo andare a mangiare un po’ di ricotta da compare Peppi", disse zi’ Vicìanzu.
"Va bene, disse papà, l’importante è non fare tardi per sentire cantare le pernici dietro al cozzo Asparagio; anzi ne approfitto per dargli un tulìari d‘una
scupetta che gli ho riparato".
Fummo tutti d’accordo, e dopo qualche minuto ci trovammo dietro l’ovile di compare Peppi, che consisteva in un recinto a forma rettangolare con bassi muri di pietre sovrapposte ed una sconnessa porticina di legno. Accostata al muro sorgeva una specie di focolare, formato da due muretti in pietra, con sopra un’enorme pentola annerita ai lati. Un fumo nero avvolgeva pentola e focolare, ed a stento s’intravedeva una persona che con un lungo bastone rimestava il latte per farlo quagliare e farne ricotta e formaggio. Avevo già assistito in paese a quella pratica per fare la ricotta, quando la mamma mi mandava da Vicilenti a comprare il siero, ma qui le proporzioni erano diverse. Compare Peppi, nel buio della notte, aveva munto le sue pecore ed aveva riempito il pentolone con quel latte che a momenti sarebbe andato in ebollizione, scaldato dal fuoco di paglia di fava. Usava questo tipo di paglia perché produce più calore rispetto alla paglia di grano, anche se emana un fumo più denso e più fastidioso. Inserito il caglio nel pentolone, il latte andando in ebollizione si sarebbe raggrumato in ricotta.
Un cane, sentita la nostra presenza, cominciò a ringhiare e ad abbaiare incessantemente, e saltellava rabbiosamente poggiando le zampe sul muretto dell’ovile, quasi volesse scavalcarlo.
"Cani c’abbaja assa’ muzzica pocu, ma a cani di picuraru rèstacci arrassu!", disse zi’ Vicìanzu chiamando un paio di volte: "Compare Peppi! Oh compare Pè!", tenendosi a debita distanza da quel cane che sembrava volerci sbranare.
A quel richiamo compare Peppi abbandonò il bastone con cui girava il latte e, dopo essersi stropicciato gli occhi si avvicinò al muretto.
"Siete voi, compare Vicìanzu! Zi’ Pitri’! Venite dentro, venite dentro!" esclamò, mettendo a tacere il cane ed avvicinandosi alla porticina.
Dopo una stretta di mano, che prima stropicciò un paio di volte su una specie di
fallaru nel tentativo di pulirla, ci invitò ad entrare ed a sederci su delle pietre che fungevano da sedile.
"Siete di caccia oggi, eh! La ricotta è quasi quagliata e tra un paio di minuti sarà pronta", disse tornando a rigirare il latte col bastone. "Che si dice in paese? Io non ci vado da due settimane almeno".
Uomo basso di statura e mingherlino, barba non rasata da qualche giorno, zi’ Peppi era vestito alla meglio: indossava un paio di pantaloni scoloriti legati alla vita da uno spago, una maglietta consunta ed annerita dal fumo, ed una piccola coppola in testa. Ma soprattutto emanava un odore particolare di pecora. Solo allora mi ricordai del proverbio che gli calzava a pennello: "Lu picuraru vistutu di sita, sempri feti di latti e lacciata". Ed a maggior ragione doveva puzzare dal momento che il suo vestito non era né di seta né quello della festa, ma da lavoro che usava tutti i santi giorni.
Mi accostai al focolare per osservare da vicino le complicate operazioni che andava facendo zi’ Peppi, intanto che chiacchierava cogli altri. Intanto che colla destra girava e rigirava il latte, che cominciava a raggrumarsi in ricotta e saliva in superficie, colla sinistra, alternando
cuppinu e scumalora, li faceva roteare con maestria sulla superficie bianca e increspata, raccogliendo la schiuma e le impurità che il fumo e la paglia vi depositavano; e dopo averli svuotati in un angolo, percuotendoli leggermente contro un asse di legno, velocemente tornava a fare la stessa operazione di prima. Ai nostri occhi sembravano operazioni complicate, ma semplici e familiari per il pecoraio che da sempre manipolava quegli attrezzi indispensabili al suo mestiere.
"Cumpari Vici’! La ricotta è pronta. Datemi una mano a tirare giù il pentolone", disse compare Peppi.
"Adesso possiamo mangiare in santa pace", esclamò dopo avere spento il fuoco ed eliminato il fastidioso fumo che un leggero vento spargeva dappertutto.
"Libbici mai beni fici, e si quarchi vota nni fici, nun fu veru libbici", esclamò zì Vicìanzu da buon contadino e conoscitore dei venti, spesso premonitori di calamità per semina e raccolto.
"Libbici, quagli pi l’amici", gli rispose compare Peppi, quasi a volere mitigare la iattura del proverbio di zì Vicìanzu.
"Peccato che siano solo quaglie e non pernici", commentò papà contrapponendo la sua praticità a quelle dotte citazioni popolari.
Compare Peppi ci porse dei piatti d’alluminio piuttosto ammaccati ma capienti, che riempì di siero e ricotta, e dei cucchiai sempre d’alluminio che pareva avessero fatto la guerra del 15-18 tant’erano sformati. Zi’ Vicìanzu recuperò un pane da una truscia che aveva conservato sul mulo, e cominciammo a gustare il pane inzuppato nel siero e quell’ottima ricotta calda. Zi’ Ciuzzu, data l’insistenza di compare Peppi, non esitò a fare il bis di ricotta e
lacciata. In ricompensa del lavoro effettuato su un vecchio fucile, papà ricevette da zi’ Peppi una caciotta appena salata che sarebbe stato un ottimo companatico durante il nostro girovagare per le campagne.
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La lepre di Buzzichinu
Lasciammo l’ovile di compare Peppi quando il sole s’intravedeva appena all’orizzonte, puntando direttamente verso cozzo Asparagio, che si presentava brullo come tutte le prominenze di quel territorio, ma cosparso di macchie di
ddisa con tanti soffici ciuffi ondeggianti.
"Qui dovete venire, compari Vicìanzu, a prendere la ddisa per attorcigliare
ligami o per fare le vampe di Santa Lucia. Si potrebbero fare tante torce da illuminare tutto il paese", disse zi’ Ciuzzu.
Se mancavano le piante d’alto fusto, abbondavano invece le erbe selvatiche. Qua e là s’intravedevano ciuffi di cardi selvatici, coi caratteristici piccoli e vivaci fiori colorati a forma di piccolo carciofo, che si sarebbero aperti completamente all’apparire del sole, e lungo il sentiero arbusti di artemisia, dai fiorellini gialli, che emanavano un odore gradevole anche se un po’ piccante.
Facevo una gran fatica a camminare tra spine e ristoppie con quei sandalini da colonia, ma stoicamente non potevo darlo a vedere. Restammo fermi ed in silenzio per sentire il canto delle pernici che non tardarono a farsi sentire dopo alcuni minuti. Era il canto che tutti noi aspettavamo, un canto fatto di zzi’, zzi’, zzi’, al quale faceva eco il richiamo di un altro sbardo vicino. Un canto monotono e melodioso allo stesso tempo, per le nostre orecchie. Io già vedevo quei grossi uccelli spostarsi in gruppo da un maggese all’altro, razzolare allegramente tra l’erba, intenti a mangiare insetti e chicchi di grano, coccolarsi ed amoreggiare, e cantare soprattutto: Zzi’, zzi’, zzi’.
"Quannu canta la pirnìci a lu chiarchiàru, carrìa ligna a lu pagliaru", sentenziò zi’ Vicìanzu.
"Prepariamo i fucili perché qui è facile imbattersi in qualche lepre attraversando quel tratto di maggese. E tu stammi sempre dietro", mi disse papà.
"Ancora ti scappa?", commentò zi’ Vicìanzu vedendo zi’ Ciuzzu accostato ad un muretto di pietra per il suo ennesimo bisognino d’acqua.
"Mi sento di scoppiare. Sarà stato il siero di compare Peppi che sta facendo effetto", gli rispose zi’ Ciuzzu.
"Hai fatto il bis di siero e ricotta, e fra poco ti vedremo accucciato dietro qualche siepe per un bisognone grande come una luna piena!", gli fece eco zi’ Vicìanzu gesticolando e mettendo le braccia in tondo.
"Attenti alla lepre, scappa, scappa!", cominciò a gridare zi’ Ciuzzu, al primo spruzzo d’acqua.
Papà che, dato il consiglio, aveva il fucile in mano, si girò di scatto, e buhm! la lepre rotolò su sé stessa, avanzò per qualche metro strisciando su un ciuffo d’erba secca e lì rimase immobile, ansimante e cogli occhi sgranati. I cani corsero verso la preda, ed io feci gran fatica a tirarla dalla bocca di Giulia che era stata la più veloce degli altri ad afferrarla per la gola. Non aveva sopportato, poverina, d’essere annaffiata dal siero di compare Ciuzzu ed era scappata come un fulmine per cercare un nascondiglio più sicuro. Quella sua ultima corsa disperata le era stata fatale.
"Ecco la lepre di Buzzichinu!", commentò papà con sarcasmo, sollevandola a mezz’aria per le orecchie.
"Se continuate a pisciare ad ogni muretto che incontrate, compare Ciuzzu, da qui a mezzogiorno riempiamo due cufina di lepri!",
scaccaniò zi’ Vicìanzu che, presa la lepre, l’appese ad un cufinu sul mulo come primo trofeo di caccia. Ed era appena l’alba!
Camminammo in formazione verso cozzo Asparagio per andare a snidare le pernici, il cui canto ci aveva ammaliati poco prima, tra maggesi e ristoppie. La vegetazione era quasi nulla, tranne qualche fico selvatico ed alcuni cespugli di piraniu, colmi di frutti piccolini non commestibili. Abbondavano i finocchiastri che emettevano un forte odore da pizzicare il naso, e le macchie di capperi ricoperte di lumachine bianchissime. Anche le ristoppie erano incrostate di babbaluci che, come diceva zi’ Ciuzzu, le avrebbe mangiate volentieri bollite con le patate ed un po’ di sugo. Mentre zi’ Vicìanzu che gli suggeriva di aggiungere un po’ di pane, come al solito, sentenziava:
"Babbaluci a sucari e fimmini a vasari, nun ci si po’ mai stancari!".
"Minchia, comu la sapiti longa, cumpari Vici’! Ve la prendete con Francischella per tutte le sue strane teorie, ma voi non siete da meno quando sputate tutte queste sentenze a raffica", gli rispose zi’ Ciuzzu infastidito.
"Non lo stuzzicare, altrimenti Vicìanzu è capace di recitarti la poesia sui babbaluci, come ha fatto l’ultima volta che ci siamo trovati a mangiare nella bettola di zi’ Carminu. E comu se li succhiava quei babbaluci, col vino rosso che andava giù a
cannate!", disse papà.
"Se proprio ci tenete, ve la posso pure recitare la poesia del
babbaluci. Anzi ve la recito, visto che mi avete provocato!".
"Avìa partutu di lu Palummàru
forti attaccatu a ddi tri spichi a mazzu
e sfruttannu la forza di dd'armaru
avìa viaggiatu comu fussi un razzu.
Sicuru di truvari la so’ amata
pinsà di visitari un gran paìsi,
cridìannu di ristari fori cuntrata
armenu tri simani oppuri un misi.
Sintìa ca ddu sciccuzzu arrinculava
ni dd'acchianati di lu Lavaturi;
ma armenu chista vota iddu viaggiava
senza biglìattu e comu un gran signuri.
Abituatu a taliari sempri 'nterra
vidìa ’nu panurama senza pari;
summacchi e gran finùacchi ni la serra
e ni li chiani tanti vigni e armari.
Ma un gran tafanu tiddicà lu sceccu
quannu fùaru vicinu a la gran Cruci,
e pi un cùarpu di cuda a ddu gran beccu
ittava 'nterra spichi e babbaluci.
Tirava un forti vìantu di punenti,
ni dda iurnata ca nun c'è cchiù pazza;
ma camìna ca ti camìna lentamenti,
avìa arrivatu 'nfunnu a dda gran chiazza.
Certu ca caminari è gran fatica
attaccati a la terra cu la vava,
ca quannu chiovi e terra è comu crita
è mìagliu arripusari intra 'na cava.
Sempri girava 'ntunnu pi la chiazza
a la ricerca di 'n’erbuzza adatta;
ma spessu ashàva ddà sulu sputazza
rischiannu di finiri sutta 'na scarpa.
Un jùarnu ch'era a Diu cunsacratu
cci fu 'na confusioni accussì granni
ca si ni stetti sempri arrintanatu
jurannu di turnari a li so' banni.
E vista 'na gran mula pronta e bedda
ca iva a scarricari a la campagna,
cu forza s'attaccà a la so' vardedda
facìannusi purtari a la Muntagna".
"Bravo, Vicìanzu! E’ veramente curiosa la storia di questo babbaluci, e fa molto pensare", disse zi’ Ciuzzu che aveva fatto il mimo durante la recita di zi’ Vicìanzu.
"Cu’ cangia la via vecchia pi la nova, li guai chi nun cerca ddà li trova. Poteva starsene tranquilla in campagna, ma a volte la smania di novità può fare brutti scherzi", fu il commento di zi’ Vicìanzu che si esprimeva sempre per motti e parabole.
"Ne sa qualcosa la mia povera sorella partita per l’America e non più tornata. Fosse rimasta in paese avrebbe trovato sicuramente un tozzo di pane che lì chissà se l’ha. Adesso però procediamo spediti se vogliamo arrivare a Raffi in serata", fu la conclusione un po’ amara e malinconica di papà.
Io, su suggerimento di zi’ Vicìanzu, m’ero fornito di un
taccarìaddu abbastanza lungo, che battevo sui ciuffi d’erba per snidare eventuali prede indolenti alla fuga, dai quali spesso svolazzavano
cacanidi e qualche calànnira. Ma soprattutto per difendermi dalle ragnatele che ogni tanto mi si paravano davanti gli occhi. Quelle ragnatele mi impaurivano più d’ogni altra cosa; bellissime a vedersi, tessute con maestria e splendenti, colpite dai primi raggi del sole, pendevano tra fili d’erba o di ristoppia ad una certa altezza da terra. Cosicché, il più delle volte, finivano contro la mia faccia ed allora ero assalito da un senso di ripulsa e di fastidio indescrivibile. Era il suo ospite a terrorizzarmi, un bel ragno verde o nero dalle dimensioni di una mandorla, con le sue quattro zampe pelose e due occhietti lucenti, che se ne stava tranquillo a divorare le sue piccole prede incappate nella tela. Alle prime vibrazioni della ragnatela cominciava a correre come impazzito da una parte all’altra di quei fili concentrici e sottilissimi, ricamo serico elaborato da mano abilissima. Velenoso o meno che fosse, non avrei potuto sopportare le sue carezze né vedermelo passeggiare sulle braccia.
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A Torretta
Un grande caseggiato circondato da alberi d’alto fusto segnalava che eravamo in prossimità di una fattoria, come quando in pieno deserto un disperso avvista il verde di un’oasi. Ancora lontani, i nostri occhi si posavano sul verde di quelle palme e degli alti platani svettanti agli angoli, quasi a delimitare la proprietà. Vista da vicino quella fattoria sembrava un vero fortino, dal momento che un alto muro circondava le numerose case che la componevano.
L’ampia trazzera in leggera discesa che stavamo percorrendo portava direttamente verso il cancello d’ingresso della fattoria.
"Siamo a Torretta, e conviene passare alla larga, perché se ci vedessero i proprietari saremmo costretti a perdere tempo prezioso", disse papà.
"Comu, Pitri’! Vai a Roma senza vìdiri lu Papa?", gli rispose zi’ Vicìanzu ironicamente.
In paese avevo sentito mormorare di Torretta, da contadini che per lavoro erano costretti a transitare nei paraggi. Parlavano di un maniero dove avvenivano convegni mafiosi, strani movimenti di macchine a tutte le ore del giorno e della notte. Per quieto vivere sarebbe stato quindi sempre meglio starsene alla larga; non per paura del proprietario mafioso o presunto tale, sempre gentile ed alla mano, ma per non perdere tempo prezioso, visto che andavamo di fretta. A vederla da vicino però, sembrava più una fattoria abitata da contadini, che coltivavano i vigneti e producevano un ottimo vino, che un fortino con mafiosi arroccati sui muri perimetrali pronti a fare fuoco con mitra e lupare. Nella fantasia popolare però l’una cosa non poteva escludere l’altra.
Intanto due grossi cani che stavano di guardia dietro il cancello avevano cominciato ad abbaiare incessantemente, ed un signore s’era affacciato per controllare chi erano gli intrusi che si stavano avvicinando alla proprietà.
"Pitri’, perché non venite a prendere un caffè!", tuonò una voce imponente da dietro le sbarre.
"Ci siamo! Chistu è l’omu di panza", sentii mormorare a zi’ Vicìanzu in modo sommesso.
Deviando verso sinistra di una decina di metri, ci trovammo dinanzi al cancello.
"E’ questa la volpe di cui parlano sempre Michelino e Ustinuzzu nei loro comizi?", chiesi a zi’ Vicìanzu, al quale stavo quasi attaccato alla schiena e che mi pareva un po’ agitato.
"Si, è questa la volpe che fa tanta paura a quel povero comunista", mi rispose laconicamente.
"A quest’ora in piedi, don Calò? Andavamo spediti verso cozzo Asparagio e non volevamo dare fastidio", disse papà appena sceso dal mulo, imitato dagli altri.
"Ma che fastidio e fastidio! Qui non siamo mica a Palermo. Si va a letto con le galline, e con le galline ci si sveglia, appena cominciano a cantare. Venite dentro, il caffè è sempre pronto".
Un viale, fitto di alberi di oleandro, i cui fiori rossi emanavano un odore pungente, partiva dal cancello principale e giungeva in un largo cortile a forma quadrata circondato da acacie con bei grappoli di fiori bianchi. Nel lato principale si notava l’ingresso di quella che sembrava la sala d’accoglienza degli ospiti. Sulla destra faceva bella mostra un’elegante carrozza, evidentemente in disuso da tempo, mentre un vialetto portava verso una tettoia che sembrava destinata ad ospitare muli e cavalli. Tutti i muri erano ben curati e dipinti, mentre non mi sfuggì un particolare sistema di gronde che circondavano la costruzione principale. Curioso com’ero non resistetti al desiderio di sapere quale mistero si celasse dietro a quella strana struttura, e ne chiesi il motivo.
"Siete fortunati voi ad abitare in paese, dove bene o male riuscite ad approvvigionarvi d’acqua potabile alle varie sorgenti, per noi lontane e quindi molto scomode. Quelle gronde che vedete servono a canalizzare l’acqua, che cade abbondante durante l’inverno, in grandi cisterne che mio padre fece sistemare sotto la casa, cosicché durante tutto il lungo e secco periodo estivo, riusciamo a sopravvivere senza problemi. E’ un impianto che tanti ci invidiano e di cui andiamo molto orgogliosi. E dovreste assaggiarla per capire come si mantiene fresca!", fu la risposta di donna Carla che nel frattempo s’era aggiunta alla compagnia.
Ed azionando una manovella, fece scorrere l’acqua da un rubinetto impiantato nella bocca di un grande putto sorridente di terracotta che simulava un’elegante fontanella.
"Veramente ingegnoso!", fu il nostro commento. "Piacerebbe anche a noi avere in casa un rubinetto come questo. Tutte le volte che abbiamo bisogno d’acqua dobbiamo andare ad attingerla alla fontanella con
quartare e lanceddi".
Fummo fatti accomodare in una grande e accogliente sala, e lì continuarono i commenti sull’acqua, sulla siccità, sulle comodità del vivere in città e gli inconvenienti della vita di campagna. Sorseggiato un buon caffè ed assaggiati alcuni biscotti, tornammo ai muli per proseguire verso cozzo Asparagio.
"Con la bella casa che possiede in paese e le comodità di Palermo, chi glielo fa fare ad abitare in campagna, con tutti i problemi connessi?", disse zi’ Ciuzzu.
"Non lo sai che i signori amano villeggiare in campagna? Dove lo trovi a Palermo un posto così tranquillo, in questo periodo estivo? Qui gli manca solo il mare, ma penso che abbia una piscina per i suoi bagni", gli rispose papà.
"Ma tu lo vedi don Calò che nuota? Al massimo potrà galleggiare. Secondo me la verità è un’altra. A Torretta può starsene molto tranquillo, è vero, ma è una tranquillità apparente, che non mi convince molto. Almeno a sentire le male lingue, s’intende. Come quella tagliente di Michelino che continua a dire che è un mafioso acclarato: "Lippis et tonsoribus", che non so cosa voglia dire, ma se lo dice lui che ha studiato dai preti! Quando don Calò s’affaccia al terrazzo, la pancia gli si raddoppia di soddisfazione. E cosa vede? Vede Mussomeli, vede Villalba, scorge in lontananza Marianopoli. I paesi insomma dove abitano i suoi amici fidati: don Calò, don Pepè, don Tatò, don Mimì! E’ sufficiente fare un segnale di fumo, come gl’Indiani, per ritrovarsi nottetempo intorno ad un tavolo e decidere chi deve morire e chi deve campare. A Palermo è uno qualsiasi, qui è il capo dei capi. Così si mormora in piazza e nella bettola di zi’ Carminu, tra un bicchiere ed una
stigliola ben arrostita", commentò zi’ Vicìanzu.
"Si vede che il vino dà alla testa e fa straparlare i tuoi amici fidati. E ti fa pure parlare
latinorum. Le ho sentite anch’io queste dicerie strampalate, che non hanno né capo né coda. Hai mai assistito a queste riunioni di cui parli? Io a casa sua sono capitato parecchie volte, per riparare qualche rubinetto o sistemare un tubo che perdeva. T’assicuro che non ho mai notato né sentito nulla di strano. Almeno mentre ero lì, si capisce. E poi hai mai sentito parlare don Carmelo? Almeno a quello crederai!", gli rispose papà.
"Per piacere, Pitri’. Sai come si dice dalle nostre parti:
Diu ni scansi d’omu spanu e di fimmina varvuta! Ti vorresti fidare di quell’uomo,
allittratu quanto vuoi, ma senza un capello in zucca e che non è capace di distinguere il grano dal loglio? Secondo me quello rappresenta un
nuddu ammiscatu cu nenti! Quella è gente furba e sperta, almeno in apparenza. E soprattutto generosa. Dicono che la Domenica va alla messa solenne delle undici, entrando dalla
porta fansa, per non farsi notare. Solo che così finisce per essere notato di più, ed al momento dell’offerta gli occhi dei parrocchiani, soprattutto quelli sospettosi della perpetua, sono puntati su quel piccolo
tabbarè per vedere se vi deposita una carta da mille o un lenzuolo da diecimila. Allora sugli occhi espressivi degli astanti si possono leggere i commenti che sembrano muti e silenziosi, ma che valgono più di un discorso fatto a voce alta: "Com’è bravo e generoso, Dio gliene renderà sicuramente grande merito ed a giugno vincerà le elezioni!". La settimana scorsa il chierichetto a momenti impazziva alla vista di quel gran foglio colorato. Hanno dovuto rincorrerlo per tutta la piazza prima di acciuffarlo e porre riparo al gesto sacrilego facendogli mollare il prezioso obolo, destinato alle casse del parroco per la glorificazione dei Santi. Ma c’è un occhiu chi tuttu vidi, e un’oricchia chi tuttu senti, caro Pitrinu. E sono certo che Michelino dice la santa verità, anche se a modo suo in lingua
latinorum".
"Dicono che sia devoto del nostro cardinale Guarino, e che quando entra in Chiesa il suo primo sguardo lo dedica a quel faccione di marmo bianco che, col passare degli anni, mi sembra sempre più triste e solo. L’altro giorno, per richiesta del Parroco, sono andato a pulire quel mezzo busto diventato nero come San Calogero, a causa del fumo delle candele. L’ho lustrato per bene con parecchie passate, ma quella faccia sempre pallida restava e senza sorriso, segno che non è contento di come lo stanno trattando", lo interruppe zì Ciuzzu.
"Tutti siamo devoti al nostro Cardinale, ma per farlo beato, cosa che non ho mai capito, servono tanti soldi. Se don Calò avesse destinato a questa causa parte dei soldi spesi in acquisto di
carte di pasta e di scarpe per accaparrarsi i voti e farsi eleggere, altro che beato! A quest’ora sarebbe già stato proclamato Santo da parecchi anni ed avrebbe una bella statua in piazza, come quella della Madonna", concluse papà.
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Ustinuzzu e Michelino
Ma chi erano Michelino e Ustinuzzu, dei quali parlava zì Vicìanzu? Quella sera, nel mio andirivieni per le strade del paese, ero capitato vicino alla sezione del partito ed avevo sentito urla ed imprecazioni d’ogni genere. Nel piccolo paese quella sera sembrava essere sceso uno strano coprifuoco, non ordinato dalle autorità, né voluto da alcuna ordinanza del sindaco o del prefetto. Ufficialmente, insomma, nessuno l'aveva imposto, ma in pratica tutti lo stavano rispettando, quasi sentissero nell'aria, già pesante ed irrespirabile, un qualche triste presagio. In effetti, le premesse per essere preoccupati c'erano, ed abbondanti, per via di certe voci messe in circolazione sin dal mattino da un certo Malacarne, e che invitavano la popolazione ad astenersi da manifestazioni di piazza. Tutti sapevano in paese chi fosse Malacarne, ed altrettanto bene conoscevano i suoi "inviti" fatti circolare in sordina: erano ordini che andavano rispettati e fatti rispettare.
Quella sera, nessuno aveva osato tenere uno dei tanti comizi infuocati che avevano caratterizzato la campagna elettorale che ormai volgeva al termine. Evidentemente i due partiti che si fronteggiavano in paese, riservavano l'ultima cartuccia per la serata conclusiva che, come d'abitudine, avrebbe visto sul palco personalità di spicco in rappresentanza delle due fazioni sempre più agguerrite: "Il Gatto" da parte comunista, e "La Volpe" da quella democristiana, gli eterni contendenti. E di questo eterno dualismo ne davano conto i volantini ciclostilati, fatti circolare per l’occasione, che rappresentavano i due animali in atteggiamento bellicoso. Non erano oratori di piccolo cabotaggio locale, abituati a comizi che sfociavano in diatribe e offese per interessi personali, e nella migliore delle ipotesi erano le mogli ad essere tirate in ballo con epiteti non proprio gratificanti. Ma grossi calibri di livello nazionale, adusi a discorsi di una certa levatura politica. Dopo, il responso della lunga e violenta contesa verbale, costellata d'ingiurie e minacce, sarebbe stato affidato alle tre pesanti urne di legno delle altrettante sezioni elettorali del piccolo paese.
"Io, quel Malacarne l'ammazzo con le mie mani!", urlava Michelino fuori di sé, nel chiuso della misera sezione del partito. Invano i suoi amici cercavano di calmarlo e di farlo ragionare. Piccolo di statura e mingherlino, sembrava uno spiritato da come urlava e saltellava, trattenuto a stento per il bavero da uno e per la cinghia dei pantaloni da un altro. Pur sospeso a mezz'aria, sgambettava come un burattino o un bambino sculacciato dalla maestra. Sembrava impazzito. E ce ne volle prima che si lasciasse cadere pesantemente su una sedia mezza sgangherata che, sotto il suo peso modesto, ma appesantito da un carico di rabbia decennale, scricchiolò, s'inclinò da una parte e finì in cento pezzi. Gli amici s'affrettarono a sollevarlo e a deporlo su una panca che sembrava più sicura di quella sedia, ma anch'essa sicuramente stanca d'assistere a soprusi d'ogni genere.
"Quel Malacarne!", continuava a ripetere Michelino, "Giuro su Dio che l'ammazzo con le mie mani!".
Per come santiava, sembrava sgranasse una lunga corona elencando i Santi in un'interminabile litania, lucida reminiscenza di un lontano passato in un seminario della provincia.
"Sì, su Dio!", ironizzò l'amico per sdrammatizzare quella situazione che da tragica si stava trasformando in comica.
"No! Su Dio, no! Tanto lo sappiamo che non esiste; ma sui miei nipoti sì, lo giuro. Se mi capita tra le mani, io l'ammazzo, quel Malacarne", s'affrettò a precisare il comunista Michelino che, passati i primi bollori, alle invettive contro Malacarne faceva seguire gesti con le mani, quasi volesse torcergli il collo e strozzarlo. Bevuto un buon bicchiere di vino, finalmente sembrava cominciasse a ragionare; smise d'urlare e cominciò ad asciugarsi gli abbondanti sudori con un fazzoletto rosso che normalmente utilizzava per ripararsi dalla polvere del legno che lavorava nella sua bottega.
L'idea che il piccolo Michelino potesse fare a pezzi il grosso Malacarne, mise un po’ d'ilarità nei due amici che cercavano di farlo tornare in sé. In quei frangenti, non solo sarebbe stato inopportuno che ci scappasse il morto, ma, se morto doveva esserci, quello sicuramente sarebbe stato il povero rivoluzionario. Ormai tutti sapevano che Michelino era come un tuono che non
scasciava dopo il relativo lampo, ma solo un forte tuono e basta. Era come un noioso ronzio che a stento arrivava alle orecchie di chi doveva sentire, e che prima o poi sarebbe stato schiacciato come un fastidioso moscerino. Le sue sentenze, vomitate da quella sedia ambulante, a stento riuscivano a divertire il nugolo di ragazzini che si accovacciano a terra per sentire le sue accorate catilinarie contro i potenti del paese. Ma, dai oggi dai domani, quel noioso ronzio cominciava a penetrare nelle case attraverso le persiane socchiuse, dietro le quali occhi ed orecchie registravano offese e provocazioni.
"Calmati, Michelino! Tanto lo sai tu e lo sappiamo tutti noi, che quel disgraziato continuerà a campare meglio di noi che seguiteremo a mangiare
pani e cutugna. Anzi, che dico, pani e sputazza, mentre quello ingrassa i suoi cani con i suoi avanzi che potrebbero sfamare una famiglia di dieci persone. Piuttosto la sedia; hai visto che fine ha fatto la sedia dei comizi?", cercò di sgridarlo bonariamente Ustinuzzu.
"Al diavolo la sedia dei comizi. Domani ne costruisco una di faggio, indistruttibile, per gridarglielo in faccia notte e giorno a quel farabutto di Malacarne, che oltre ad essere un mafioso è pure un gran cornuto!".
A quelle parole, Ustinuzzu e l'amico ammutolirono. Pensarono velocemente che Michelino, incosciente qual era, sarebbe stato capace di questo e di altre fesserie. Finalmente Michelino, soddisfatto d'avere detto chiaramente ciò che pensava, quasi si fosse levato dallo stomaco un peso che l'opprimeva da chissà quanto tempo, si calmò e sedette alla panca posta sotto il grande manifesto elettorale, dove spiccavano una falce ed un martello, attaccato al muro della sezione. Dirimpetto troneggiava l'effigie baffuta del compagno Stalin, con a fianco la snella e barbuta faccia intellettuale di Lenin. Michelino incrociò le braccia sul tavolo coperto di manifesti e volantini, che ritraevano una volpe sorniona in atteggiamento d'insidiare un pollaio, e restò immobile ad ammirare quelle due mitiche creature, le uniche che potessero ispirarlo e dargli la forza di reagire alle minacce, alle angherie, alle invettive, ai soprusi quotidiani. Con quella falce, pensava, avrebbe volentieri mozzato la testa a quel miserabile di Malacarne, e non solo a lui, per poi schiacciarla a colpi di martello. Altro che simboli del lavoro, della fatica e della sofferenza quotidiana, del pane guadagnato col sudore! Quei due attrezzi, sicuramente utilizzati dal compagno che l'osservava, si sarebbero adattati molto bene ai suoi scopi, non meno nobili di quelli del suo ispiratore. Più l'osservava, e più gli sembrava di vederlo all'opera, in una steppa russa sconfinata, inseguire i nemici della rivoluzione, bloccarli senza scampo, calare la falce come una mannaia e vedere schizzare via da quei corpi centinaia di teste, arrossate di sangue, e sul volto un feroce ghigno di dolore. Quando, tra quelle teste, gli parve di riconoscere quella di Malacarne ebbe come un sobbalzo di ribrezzo, ma al contempo emise un ghigno di soddisfazione nel vederlo, finalmente, reso inoffensivo per sempre. Vide quella testa tanto odiata, ormai staccata dal collo taurino del malandrino, rotolare sulle mattonelle della piazza, come la testa di legno di quei pupi siciliani che, dopo una lotta accanita contro i saraceni per difendere il loro re, cadevano pesantemente a terra. La sua corsa, su quella liscia superficie in leggera pendenza, assomigliava ad una palla del bigliardo del dopolavoro di Manazza, sapientemente lanciata col giusto effetto da don Tatà Lima, e capace di saltellare da una sponda all'altra, una, due, tre volte prima d'abbattere il birillo e mandare in buca la palla dell'avversario. Quella testa, quasi fosse comandata a distanza o seguisse un percorso stabilito, andò a sbattere contro il marciapiede delle pie Orsoline, sfiorò la bianca stele della Madonna che osservava sorridente e quasi compiaciuta, e come d'incanto si fermò nel piccolo spiazzo antistante la casa della Volpe, dopo un leggero dondolio d'assestamento. E rassegnata, consapevole d'avere perso ogni linfa vitale, quasi cercasse aiuto, lì rimase immobile a fissare il maniero circondato da palme e da un'alta inferriata. Sembrava che le parti si fossero invertite, e che lui, il potente mafioso Malacarne, avesse assunto l'atteggiamento di chi vorrebbe implorare un aiuto ma gli mancano le forze e le parole per farlo. Alzò le palpebre verso le finestre del maniero, dietro le quali troneggiava l'ombra imponente della Volpe, stranamente immobile ed imperturbabile di fronte al suo pupillo così brutalmente deturpato. E sembrava udire le parole di rimando alle sue implorazioni d'aiuto: "Cosa posso fare per te, amico mio. Non vedi che è giunta l'ora della resa dei conti? Sei stato castigato per le tue malefatte ed oramai non posso fare nulla per te".
"Ammetto le mie colpe verso i poveri diavoli che, impotenti, hanno dovuto cedere davanti alla forza delle mie armi. Ma chi mi ha ordinato di eliminare zi' Tanu, di fare sparire zi' Ramunnu, di dare fuoco alle aie di chi non voleva pagare il pizzo? Si capisce, amico mio, che "cumannari è mìagliu ca fùttiri", ma adesso il fottuto sono proprio io che ho eseguito gli ordini del mio capo, con zelo ed obbedienza. Rassegnati anche tu, però, perché i cacciatori sono alle tue costole!".
Quindi, abbassate le palpebre, ammutolì per sempre.
Solo la presenza degli amici distolse Michelino da quella specie d'allucinazione, che avrebbe voluto non finisse mai, riportandolo alla triste realtà, anche se avrebbe volentieri indugiato ad assaporare l'ebbrezza di quel sogno cercato ed inconsciamente procurato.
"Tu, caro Michelino, continui a sognare ad occhi aperti, e non t'accorgi che il mondo è cambiato. Non è più tempo di rivoluzione, ed i compagni che ti stanno davanti non potranno aiutarti. Tra mafia e politica é oramai avvenuto un connubio indissolubile che sarà molto difficile separare. L'una s'è messa a disposizione dell'altra, e viceversa, con scambi di promesse e favori. Se t'azzardi a toccare un politico, come hai fatto la scorsa settimana, ti si rivolta contro il mafioso che lo sostiene, e se ti permetti di denunciare un mafioso, ammesso che questo non reagisca personalmente, interviene il suo amico politico a tagliarti le gambe, facendo di tutto per fare morire di fame te e la tua famiglia", disse Ustinuzzu con la calma serafica che lo caratterizzava.
Se Michelino, infatti, era un ometto tutto sale e pepe, Ustinuzzu era esattamente l'opposto. Posato e ponderato nell'esprimere spontaneamente un parere, lo era ancora di più se interpellato da altri, anche se amici da sempre. Taciturno per natura, meditava a lungo prima di muovere le labbra a favore o contro una decisione da prendere in seno al partito. Dare del mafioso a Malacarne, cautamente, nel chiuso della sezione, gli stava pure bene, poiché mafioso lo era veramente, e tutto il paese ne era cosciente; ma le parole di Michelino che lo definivano "gran cornuto", l'avevano un po’ preoccupato se non proprio sconvolto. Non era cosa da poco dare del cornuto ad una persona con la puzza sotto il naso, soprattutto se in odore di mafia; e Malacarne non solo odorava di mafia, ma ne puzzava più di un pecoraio che, costretto ad accudire al suo gregge dalla mattina alla sera, ne condivide l'ovile per tutte le sue necessità personali. Michelino, incosciente qual era, sarebbe stato capace di salire su quel pulpito ambulante di faggio, che aveva appena detto di volere costruire, e di spifferare ai quattro venti quell'attributo poco piacevole. Ne avrebbe così minato l'onorabilità con gli immaginabili risultati devastanti.
Malacarne, di nome ma anche di fatto, per la sua conformazione fisica ed il suo aspetto che a prima vista incuteva un certo timore, aveva da poco passato la quarantina, e s'era ritirato dall'attività della pastorizia, lasciandosi alle spalle una gioventù passata in campagna tra pecore ed ovili. Furti ed abigeati erano state le sue specialità, ed in varie occasioni aveva conosciuto l'onta del carcere per brevi periodi. Dopo l'ultimo soggiorno nelle patrie galere a Malaspina, fulminato da un incontro con un noto boss della zona, aveva giurato che mai più si sarebbe macchiato di simili reati e che avrebbe filato dritto. A detta di quanti lo conoscevano bene, da qualche anno stava rispettando alla lettera la sua promessa, nel senso che adesso non era lui in persona a compiere i reati di prima, ma li commissionava ad altri suoi ex compari. A goderne i benefici però, al riparo delle leggi, tutti giuravano che fosse sempre lui. Era da tutti riconosciuto e stimato come persona potente e rispettabile, negli ambienti paesani e del circondario. Potente, perché non si muoveva foglia senza che fosse lui ad ordinarlo. In caso contrario ne veniva a conoscenza o direttamente, o per mezzo dei suoi scagnozzi che lo informavano di tutto ciò che avveniva quotidianamente; la rispettabilità, invece, gli derivava dall'autorità che aveva sulle persone e sulle cose. Erano quindi due elementi indistinti e indissolubili, legati tra loro. Potenza e rispettabilità, che a prima vista si traducevano in baci ed abbracci, baciamani ed omaggi, risultato tangibile di favori elargiti a piene mani. Questo ciò che succedeva in apparenza, alla luce del sole che splendeva sulla testa della bianca madonnina posta al centro della grande piazza, in modo che tutti potessero vedere coi propri occhi. Ciò che invece avveniva nel chiuso del suo piccolo palazzo era un segreto che solo i suoi più intimi avrebbero potuto descrivere. Alla gente comune non restava che fare congetture, ipotizzare incontri, e immaginare riunioni segrete con gli altri capi della zona.
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Le pernici
Dopo circa un’ora giungemmo alle pendici del cozzo Asparagio, e durante il percorso alcuni conigli erano andati a fare buona compagnia alla lepre dentro il cufinu. Era ora di dare la caccia alle pernici.
Entrammo in una piccola radura, priva di erbe e completamente grigia, dove il trattore era passato da qualche giorno, dopo che i contadini avevano bruciato ogni residuo di ristoppie in seguito alla mietitura. Il terreno era stato completamente rivoltato, e camminare tra quelle grosse zolle era difficile e faticoso. In base all’esperienza venatoria, proprio in mezzo a quei grossi
timpuna dovevano annidarsi le pernici, per razzolare e ripararsi dal caldo, adesso che il sole era alto sull’orizzonte. I tre cacciatori s’erano disposti a ventaglio, una decina di metri l’uno dall’altro, mentre io me ne stavo un paio di metri dietro papà. I cani erano tenuti a breve distanza per evitare che, scovata la preda, questa potesse volare fuori tiro dei fucili.
"Questa sì ch’è una buona terra. Cu’ scippa timpuna, mangia cudduruna; ma cu’ simina ‘nta li timpi ricogghi tampi", andava dicendo zi’ Vicìanzu, forse più interessato al suo mestiere di contadino che a quello di cacciatore.
"Lascia perdere li timpuna, e stai attento che fra poco volano", l’apostrofò papà.
Passarono pochi istanti e Giulia cominciò ad abbaiare incessantemente, correndo a zigzag tra le zolle, imitata dagli altri cani che sembravano impazziti. Annusavano le pernici o la loro permanenza in quel luogo, ma non succedeva nulla.
"Sarà un grosso sbardo!", disse zi’ Ciuzzu che vedeva resti di penne dappertutto.
Ad un tratto Giulia si fermò, immobile, la coda tesa. Non fecero in tempo a dire: "Attenti, il cane sta puntando qualcosa!", che si udì un rumore di ali, un battito frenetico e convulso, quasi un boato, ed il cielo sopra di noi s’oscurò di pennuti.
Fu un bum! bum! continuo: due, tre sei volte, un rumore assordante di spari, mentre il fumo s’alzava verso il cielo ed una nuvola di rondelle e tappi frantumati cadevano come neve sulle nostre teste. Ed assieme a questi il tonfo di cinque pernici che in un attimo furono in bocca ai cani. Papà, incurante di come fossero andati gli spari, alzò gli occhi verso le pernici superstiti, e seguendo il loro volo con le mani sopra la fronte per ripararsi dal sole andava ripetendo: "Scappate, scappate pure! Vi ritroveremo, prima o poi".
"Ecco il capo sbardo!", disse zi’ Ciuzzu prendendone in mano una che sembrava la più grossa.
"Bene, a primu zuccu, ‘nzolia!" disse zi’ Vicìanzu, più euforico del solito. E salito su un piccolo masso che sporgeva tra le zolle, cominciò a recitare un inno alla pernice, com’era suo solito:
Graziosa pernice che ami l'altura
per meglio spiccare veloce volata,
e dopo un fremito di ali con cura
la balza abbandoni in veloce planata,
lontana già sei, e ti senti sicura,
dal prode nemico con l'arma spianata
che guarda beffato da tanta bravura
e pensa a rifare un'altra imboscata.
Volando nei cieli di questa regione
allieti la vista a noi tutti mortali,
vederti planare è una bella visione
pur se incute paura il battito d'ali.
Il tuo canto è d'amore un agone
nelle fresche mattine invernali".
"Altro che volare lontano, planare, essere al sicuro. Stavolta le pernici della tua poesia sono al sicuro nei nostri tascapani!", disse papà a zi’ Vicìanzu che era appena disceso dal masso, dopo la recita.
Un piccolo inno, però, se l’erano meritato quelle bestiole. Avevano provato a scappare lontano dai fucili, ma era stato tutto invano. Solo poche l’avevano fatta franca. Nessuno si pose il problema di chi avesse fallito un colpo, ma poste le pernici vicino alle altre prede ci incamminammo verso il fiume Salito, in direzione del cozzo Reina, dopo le debite considerazioni di soddisfazione.
Stupende quelle pernici! Più grosse di una colomba, le pernici siciliane fanno parte della famiglia dei "caccabis saxatilis o alectoris graeca", una varietà di coturnice. La parte intorno all’occhio priva di peli dà a questi animali un aspetto particolare, il collare è nero, il petto senza macchie, ala e coda corta, larghe le penne che coprono i fianchi. Quando si alzano in volo in gruppo producono un rumore assordante, per lo sbattere frenetico delle ali, data la loro pesantezza. Per fare meno fatica preferiscono lunghi voli da un’altura all’altra, in modo da essere facilitati al momento del successivo decollo.
Era quasi mezzogiorno quando attraversammo il fiume Salito per dirigerci verso cozzo Reina, dove papà conosceva delle tane ricche di conigli. Sarebbe stato finalmente il momento di mettere in azione il furetto che sonnecchiava nella sua panara dentro un cufinu sul mulo. Data l’ora si decise di fermarsi per riposare un po’ e per mettere qualcosa sotto i denti. Proprio ai bordi del fiume sorgeva un angusto pagliaio costruito con delle canne, e proprio lì decidemmo di fermarci per sfruttare la poca ombra che proiettava. Zi’ Vicìanzu liberò i muli del loro carico lasciandoli liberi di rifocillarsi con l’erba lupinella che lì cresceva abbondante, mentre zi’ Ciuzzu andava a fare fresche provviste nell’orto vicino. La bisaccia stesa per terra ebbe la funzione di tovaglia, e su di essa sistemammo il pane, le borracce, la caciotta di zi’ Peppi, olive, e delle fette di mortadella avvolte in una carta di colore giallognolo. Intanto che zi’ Ciuzzu tagliava i rossi pomodori che aveva raccolto nell’orto, papà provvide a mettere al fresco le numerose prede della mattinata, rimandando a dopo il pranzo l’operazione di asportazione delle pance e pulitura delle stesse.
"Vici’, assaggia la caciotta di compare Peppi", diceva papà, mentre zi’ Vicìanzu invitava a mangiare le olive e la mortadella di la
Scarparedda, e zi’ Ciuzzu condiva col sale i suoi pomodori. Data la stanchezza e la fame, non erano necessari i complimenti per darsi da fare ed assaggiare quanto era a disposizione su quella mensa improvvisata.
"Lu manciari senza vìviri è comu l’annuvulatu senza chiòviri! Assaggiate il vino rosso di don Giovanni", disse zi’ Vicìanzu aprendo un fiasco di almeno due litri.
"Il vino di don Giovanni non fallisce mai: non è come il vinello di zi’ Carminu, che non sai mai quello che bevi", disse papà dopo un assaggio abbondante.
"Vacci piano, Pitri’, altrimenti mi resta solo il fondo", rise zi’ Ciuzzu, che in fatto di vino se n’intendeva.
"Làssalu vìviri a cumpari Pitrinu! Lo sai cosa diceva mio nonno?
Nun ti mìttiri in camminu, si la to’ vucca nun sapi di vinu", gli rispose zi’ Vicìanzu, soddisfatto per l’apprezzamento dato al suo vino.
Il desinare finì con una buona fetta di muluni russu. Intanto che papà fumava la sua ennesima sigaretta, provvedeva ad eliminare pancia ed intestino alle prede, sciacquandole con la poca acqua a disposizione. Quindi seguì un meritato riposo, sdraiati all’ombra di quel piccolo pagliaio di canne verdi, dopo avere somministrato al furetto una pappa a base di formaggio.
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Verso Cozzo Reina
Caricati gli attrezzi sui muli, attraversammo la piccola pianura che ci separava dalle pendici del cozzo Reina. Il terreno si presentava brullo, con delle piccole fenditure orizzontali dovute al caldo, ed era costellato da macchie di erbe selvatiche. Numerose erano le macchie di cocomeri asinini, con tantissimi frutti oblunghi verdi. Quelli più grossi, della dimensione di una noce, erano maturi e bastava sfiorarli perché esplodessero sprizzando a raggiera i loro semi con un piccolo boato. Io mi divertivo a chiamare il cane Giulia vicino a quelle piante per poi toccare con un piede uno di quei frutti. Al piccolo botto Giulia scappava via con un guaito, terrorizzata ed infastidita dallo spruzzo dei semi. Finché divertita, quasi mi provocava a ripetere lo scherzo, accennando alla fuga non appena avvicinavo il piede alla pianta. Solo il pigolio di qualche piccolo uccello rompeva il silenzio che regnava in quella pianura, ed ogni tanto il gracchiare rauco e lamentoso di un corvo solitario alla ricerca di cibo.
"Attentu a lu scursuni, Vici’, attentu!", gridò zi’ Ciuzzu, più impaurito di zi’ Vicìanzu che se l’era visto strisciare sotto le gambe.
Fu un attimo, poiché quel serpente, sicuramente impaurito dalla nostra presenza, oltrepassò il sentiero e sparì tra i cardi in fiore e le tante piantine di
summaccu di cui era cosparso il terreno. Zi’ Ciuzzu, forse più impaurito dell’animale, mi strappò il bastone dalle mani e corse a menare fendenti sull’erba, quasi volesse regolare un conto in sospeso con quella povera bestia.
"Lascialo perdere, Ciù, quello è un impastura vacchi,
e sicuramente cercava te. Se t’acchiappa potreste morire tutt’e due: quello avvelenato dal tuo sangue che oggi sa di vino e tu dissanguato", scherzò zi’ Vicìanzu.
"Perché proprio me? Non sono mica una vacca, io, con rispetto per le vacche!", rispose zi’ Ciuzzu risentito.
"Avrà sentito odore di latte, per tutto il siero e la ricotta che hai mangiato stamattina, e ti avrà sicuramente scambiato per vacca!", rise zi’ Vicìanzu destando ilarità in tutti noi.
Era la prima volta che vedevo strisciare così da vicino un serpente dalle dimensioni di un paio di metri e nero come il carbone. La paura per quell’avvistamento passò subito, dopo avere sentito zi’ Vicìanzu scherzare in quel modo.
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Le tane di coniglio
Finalmente eravamo al cospetto delle numerose tane che costellavano le pendici del cozzo. Legati i muli al tronco di un fico selvatico, cominciammo i preparativi per espugnare quelle tane che, a detta di papà, più che tane erano dei veri e immensi
forti.
Io presi il furetto dalla panara, e mentre lo tenevo col pollice e l’indice della mano sinistra dietro al collo, per renderlo innocuo ed evitare qualche morso, papà, preso un pezzo di spago fine unto di grasso, cominciò a legargli il muso, come una museruola, in modo che non fosse in grado di aprire la bocca. Infine gli infilò intorno al collo una specie di collana con delle cianciane, affinché il loro tintinnio all’interno della tana potesse mettere in fuga, verso l’esterno, l’eventuale coniglio che vi stava nascosto. La museruola aveva la funzione di evitare che, raggiunto il coniglio, il furetto potesse afferrarlo e sbranarlo dentro la tana, coi suoi denti aguzzi. Poiché, quando ciò succedeva, non solo il coniglio restava morto dentro, e quindi poteva considerarsi perso, ma anche il furetto tornava all’aperto con tutti i suoi comodi, magari schiacciando un pisolino dopo il lauto pranzo, e lasciando i cacciatori ad attendere fuori della tana con tre palmi di naso.
"Sali su quello spuntone ed infila Cicco nel buco che si trova dietro quella macchia di finocchietto", mi disse papà che conosceva a menadito ogni singola tana.
Cicco faceva resistenza ad entrare, ma lo forzai pensando che avesse ancora sonno o poca voglia di andare ad esplorare quel buco. Infine entrò, e quando non sentii più il suono delle cianciane, segno che s’era allontanato, tornai verso gli altri.
Imbracciati i rispettivi fucili, si disposero ad una decina di metri dai bordi della tana, ad aspettare l’evento tanto desiderato.
Era importante scegliere il posto correttamente: alla giusta distanza per vedere bene l’ingresso della tana, senza però essere visti dal coniglio in uscita, controvento per non fare penetrare nel cunicolo i propri odori e quindi manifestare la presenza, in un punto dove non si potesse fare rumore al minimo movimento dei piedi. Molto spesso il coniglio, inseguito dal furetto, usciva dalla tana di corsa, seguendo il viottolo battuto da sempre, mentre altre volte faceva capolino fermandosi sull’ingresso ad osservare che aria tirasse nei dintorni. Nel primo caso il cacciatore doveva trovarsi pronto a sparare non appena il coniglio avesse raggiunto la giusta distanza, nel secondo caso doveva starsene immobile ed aspettare che si decidesse ad allontanarsi lungo il viottolo: ecco perché bisognava starsene zitti e immobili! I tre, da buoni intenditori e da cacciatori dalla lunga esperienza, si erano sistemati osservando questi atavici dettami venatori.
Fecero pure un cenno ai cani che, da buoni amici intelligenti, si accucciarono sotto un cespuglio in attesa degli sviluppi. Il loro compito era alternativo a quello del furetto: quando lavorava l’altro, loro erano costretti ad un riposo forzato.
Da oltre un’ora tutt’e tre se ne stavano appostati intorno a quella tana, in religioso silenzio, in attesa che la timida preda facesse capolino da quel buco, quasi nascosto alla loro vista da alte e secche fratte, e da quel ciuffo di finocchietto selvatico. I suoi fiori, più che altro una specie d'infiorescenza giallastra, si erano aperti da poco, e ciò contribuiva a disperdere nell’aria circostante un effluvio delizioso che, col passare dei minuti, diventava un forte e pungente odore che cominciava a infastidire le narici. E, col sole a perpendicolo sulle loro teste, le cose si complicavano. Le ristoppie, che inondavano di giallo il terreno circostante, stavano saturando l’aria coi loro fastidiosi vapori, e tante noiosissime mosche cominciavano a ronzare nelle loro orecchie, punzecchiando i tre poveri cacciatori. E questi, costretti a starsene immobili nelle loro postazioni, non potevano che sopportare quei maledetti insetti che, quasi consci di farla franca, si divertivano nella loro azione provocatrice.
I tre lo sapevano bene come sarebbe andato a finire se quel maledetto coniglio non si fosse deciso ad uscire all’aperto quanto prima. Altre volte si erano trovati in analoghe circostanze, ed avevano dovuto sopportare in silenzio tanti fastidi. Ormai che la sfida era iniziata da un pezzo non c’era più tempo per tornare indietro, visto che il furetto, penetrato nella tana da oltre un’ora, ancora non faceva sentire il tintinnio delle campanelle che si portava appese al collo. Più che sentirlo, lo vedevano col pensiero, quel valente furetto, inseguire il coniglio nei meandri di quel "forte"; e, com’era sempre successo in tutte le precedenti battute, quanto prima, saltellando freneticamente sulle sue quattro zampette appuntite, sarebbe comparso all’inseguimento della sua preda. Allora sarebbe esplosa tutta la loro gioia, avrebbero scaricato le loro doppiette su quella bestiola, avrebbero ripreso il furetto deponendolo nella
panara dopo gli elogi alla sua valentia ; ma soprattutto, liberi di muoversi, i tre, finalmente, si sarebbero scrollate di dosso tutte quelle maledette mosche e quei fastidiosi insetti. La liberazione da un incubo, insomma!
L’aveva spiegato o no, papà, che quella tana era un forte, composta da migliaia di cunicoli sotterranei, e che mai aveva tradito un cacciatore?
" Dentro é tutto un labirinto di gallerie, più della miniera di Gibellini! Se il furetto é bravo e valoroso, com’è il nostro Cicco, non torna indietro se prima non ha setacciato ogni cunicolo e scovato il coniglio. Se lo trova in poco tempo siamo fortunati, altrimenti bisogna aspettare delle ore, prima che torni all’aperto. Alcuni anni addietro, in meno di un’ora ne ha cacciati fuori ben cinque! Ma ricordo pure che é tornato all’aperto dopo parecchie ore".
Quando papà parlava di tane e conigli, ne sapeva sempre una più del diavolo: come faceva a sapere quanti cunicoli e quante gallerie facevano capo a quel piccolo buco che si apriva sotto i suoi piedi? Eccome se lo sapeva! Glielo aveva riferito il padre, ed a questi a sua volta l’aveva confidato il padre, ed a questi ..… Come se qualcuno di loro fosse stato dentro a contarli.
Ad un certo punto papà fece un cenno con la testa a zi’ Vicìanzu e muovendo gli occhi a destra e a manca sembrava dirgli:
"Non senti come cantano le pernici sulla collinetta di fronte? Saranno una ventina, tanto fanno chiasso! Osserva bene anche tu dove si spostano: sistemati i conigli, saremo sulle loro tracce".
"Eccome se le sento cantare!", gli rispondeva zi’ Vicìanzu, muto come un pesce, con un goffo cenno del capo, senza perdere di vista l’ingresso della tana. "E’ da dieci minuti che mi stuzzicano quelle bestie. Sistemato il coniglio, che fra poco farà capolino da questa tana, penseremo a loro".
"Speriamo bene!", commentava zi’ Ciuzzu, spostando su e giù la testa in assenso al muto colloquio dei suoi amici. "Ma se questo furetto non si sbriga a cacciare fuori il coniglio da questa maledetta tana, temo che per oggi perderemo l’occasione di inseguirle. Ho l’impressione che aspetteremo delle ore prima di venirne a capo".
Intanto il cane Giulia, che fino a quel momento, rispettosa del silenzio imposto dalla situazione, era andata in giro per i campi lontano dall’ingresso della tana, era tornata e si era accucciata ai piedi di papà, quasi a chiedere come andavano le cose. Ogni tanto scodinzolava e, tra l’annoiato e l’ironico, sembrava quasi volesse parlare:
"Poveri fessi! Ve ne state là impalati ad aspettare che il vostro mitico furetto Cicco, che viziate con latte e formaggio, faccia scappare un povero coniglio. Ma che bisogno c’è di starsene per ore immobili sotto il sole cocente? Non sarebbe meglio fare un giretto per i maggesi alla ricerca di una lepre? Forse che non sono più abile del vostro furetto a scovare le prede per i campi? Contenti voi, per me é una pacchia starmene all’ombra ad aspettare i vostri comodi; io un giretto me lo faccio volentieri intanto che voi vi fate mangiare dalle mosche e dai fastidiosi insetti".
Quindi si alzò dalla cuccia in cui si era sistemato da qualche minuto e, scodinzolando noiosamente, si allontanò verso una piccola fontana che sgorgava sotto la collina.
La stessa cosa stava pensando zi’ Ciuzzu in quel momento mentre, infastidito da un moscone, cercava di liberarsene dondolando la testa ora a destra, ora a manca. Ma visto che quello insisteva a tormentarlo, si mollò uno schiaffo sulla guancia destra schiacciandolo con un fastidioso senso di repulsione, ma ponendo fine al noioso ronzio.
"Ma che razza di fessi, siamo!", pensava vedendo il cane andare avanti e indietro verso la fontana. "Quello é andato a sdraiarsi tra le fresche canne che circondano la sorgente, mentre noi ce ne stiamo sotto il sole cocente ad aspettare che un povero coniglio faccia la sua comparsa per farsi impallinare. Ho la gola secca ed i sudori che mi colano dalla fronte; neanche un cappellaccio mi sono messo in testa per ripararmi da questi maledetti raggi solari. Quasi quasi, mollo il fucile e vado anch’io a rinfrescarmi: ma se quel benedetto coniglio scappa proprio adesso, dopo due ore d’attesa? Devo resistere ancora un po’, porca miseria!".
E intanto che questi pensieri passavano per la sua mente, guardava i suoi compagni di sventura, ed insieme dirigevano lo sguardo verso la fontana, lontana un centinaio di metri, dove il cane sicuramente se ne stava sdraiato al fresco tra le canne ed i papiri.
Il sole cominciava a fare sentire i suoi effetti. Dopo oltre due ore d’appostamento i tre amici cominciavano a manifestare segni di stanchezza, ma, per una questione di orgoglio, nessuno voleva gettare per primo la spugna e dichiararsi vinto. Papà perché aveva avanzato la proposta di inviare il furetto in quella tana, gli altri perché, pur conoscendone le difficoltà, alla fine si erano dichiarati convinti che il valoroso Cicco avrebbe scovato il coniglio in breve tempo e quindi implicitamente erano d’accordo con papà. Bisognava resistere alla tentazione di andare a raggiungere il loro cane.
Ad un tratto zi’ Vicìanzu cominciò ad agitare gli occhi verso papà facendogli capire di guardare verso la tana, cominciò lentamente a portare il fucile in posizione di tiro, lo sollevò di scatto per prendere la mira,
e...... Non sparò, ma fece un cenno di stizza, perché il coniglio che finalmente si era presentato all’imboccatura della tana, annusando una situazione di pericolo, non prese il solito viottolo verso l’esterno, ma si rintanò velocemente, sfuggendo alla vista dei tre sfortunati quanto pazienti e coraggiosi cacciatori.
"Ci siamo!", pensò zi’ Vicìanzu, "Finalmente il furetto ha preso il cunicolo giusto ed é riuscito a scovare il coniglio. Se uno ha tentato di uscire all’aperto, presto altri lo seguiranno. Stiamo bene in allerta, ma soprattutto immobili per non farci fregare una seconda volta".
Papà rimase perplesso perché, trovandosi in una posizione favorevole e molto attento, non aveva visto nemmeno l’ombra del coniglio che zi’ Vicìanzu sembrava avere a portata di tiro.
"Che il caldo cominci a fare brutti scherzi, facendoci vedere ciò che non c’è? Ma cos’hai visto di strano per avere tentato di sparare?", mimò papà a zi’ Vicìanzu con aria interrogativa.
"Ma sei cieco?", gli rispose zi’ Vicìanzu muovendo le palpebre su e giù, "Non hai visto che grosso coniglio si era presentato all’uscita? Si vede che sei stanco e distratto, caro Pitrinu : io l’ho visto, e come!".
"Va bene, va bene! Evidentemente ero distratto; speriamo non ne abbia visto solo l’ombra. Io però ti confermo di non avere visto niente", mimò papà abbassando la testa ed allungando il mento fino a coprire tutto il collo.
E confortati da una nuova speranza, ripresero l’atteggiamento da statua nelle loro postazioni, dopo piccoli assestamenti che servirono a sgranchire appena i loro muscoli immobilizzati da oltre due ore. Più che delle statue sembravano spaventapasseri con un bastone in mano, sistemati lì da qualche contadino per tenere lontano dal campo appena seminato eventuali passeri di passaggio. E per spaventapasseri devono essere stati scambiati da quella cornacchia gracchiante che da qualche minuto si aggirava sulle loro teste in prudente atteggiamento. Finché, vedendoli immobili e convinta che fossero degli alberelli senza foglie, scese in picchiata per andarsi a posare sulla testa di zi’ Vicìanzu. Questi, spaventato da quell’intrusa bestiaccia, ebbe un attimo di smarrimento e, abbassandosi per proteggere il suo capo, fece volteggiare il suo fucile, come fosse un bastone, colpendo con la canna dello stesso la cornacchia che, emettendo uno stridulo verso di dolore, ma soprattutto di spavento, sbatté violentemente per terra, per poi rialzarsi di scatto e volare lontano, con un violento battito di ali. Zi’ Ciuzzu che aveva seguito con divertita attenzione quanto stava capitando al suo amico, a stento riuscì a trattenere una sonora risata, e imbracciato il fucile stava per sparare a quel nero volatile se papà, con affannosi e goffi gesti, non fosse riuscito a dissuaderlo da quello sconsiderato gesto.
"Ma che fai?", sembrava mimare con le labbra, ma senza profferire parole, "Se spari adesso, vanifichi due ore d’attesa davanti a questa tana che comincio a odiare. Sopportiamo ancora un po’, e poi decideremo il da farsi. Mancava poco che quella brutta cornacchia ti portasse via gli occhi! Purtroppo il furetto é ancora dentro e non possiamo fare nulla per farlo uscire".
I minuti sembravano non passare mai, ed il sole, sempre più alto in cielo e sempre più rosso, ricordava che erano passate due ore abbondanti da quando, fiduciosi e arzilli, si erano attestati nelle loro postazioni. Adesso, sfiduciati e stanchi, erano sul punto di mollare e di rinunciare ad aspettare che il loro valente furetto portasse fuori della tana il tanto atteso coniglio. Il cane continuava a fare noiosamente la spola tra la sorgente e la cuccia ai piedi di papà, dopo avere spianato un po’ d’erba secca; il sole continuava a fare il suo dovere di scaldare oltre che illuminare la terra, mentre i sudori scendevano abbondanti sulle guance dei tre amici.
Da qualche minuto un gufo si era appollaiato su un albero di pero, nelle immediate vicinanze dei cacciatori, e col suo monotono e noioso verso sembrava prendere in giro i tre amici.
"Cu cu, cu cu! Siete proprio sciocchi! State lì immobili, da due ore ad aspettare una povera bestiola che, più furba di voi, non uscirà mai all’aperto per esaudire i vostri insani desideri e così restare impallinata! Cu cu!".
I tre si guardavano adirati e con gesti molto eloquenti, ora alzando un braccio ora sollevando il fucile, cercavano di mettere in fuga quell’uccellaccio. Evidentemente la stanchezza e la sfiducia di portare a termine il loro tentativo di stanare il coniglio cominciava a fare brutti scherzi. Non solo si sentivano traditi dal loro esperto furetto, che da ore forse se ne stava a rifocillarsi tranquillamente dentro la tana con qualche piccolo coniglio, ma anche scambiati per spaventapasseri da quella brutta cornacchia. Adesso ci si metteva pure quel brutto gufo, a prendersi gioco di loro.
"Cu cu, cu cu!", continuava quello imperterrito e per nulla intimorito.
Sembrava che tutte le forze della natura si fossero coalizzate contro i tre cacciatori. Avevano messo in conto che i raggi solari sarebbero stati caldi e insopportabili, data l’ora : ma che una cornacchia ed un gufo si potessero prendere beffa di loro, al punto da fare perdere la pazienza, non l’avevano considerato. E Cicco, il furetto ammaestrato e amico di mille avventure ? Anche lui li stava tradendo restandosene al fresco dei cunicoli di quella tana portentosa!
I tre, ormai stanchi e nervosi, si guardarono negli occhi e capirono al volo che non restava altro da fare. Spianati i fucili, fecero fuoco su quel noioso animaletto che, presagendo la brutta fine che avrebbe potuto fare da lì a poco, dopo l’ultimo verso di scherno si era dato alla fuga, con un veloce battito di ali.
"Non solo gabbati dal furetto che non torna, ma presi in giro dagli uccelli!", gridò papà finalmente libero di muoversi e di urlare la sua rabbia. "L’avevo detto che questa non é una tana, ma un forte vero e proprio. Adesso ci toccherà aspettare i comodi di Cicco per poterci muovere da qui!".
E abbandonate le loro postazioni, si diressero verso l’ingresso della tana, seguiti dai cani che, uditi gli spari, si erano precipitato verso i loro padroni, abbandonando la comoda cuccia nei pressi della sorgente.
"Sei sicuro d’avere visto il coniglio, o preso da una allucinazione hai visto la sua ombra?", chiese papà nervoso rivolto a zi’ Vicìanzu, con aria quasi di sfida.
"Certo che l’ho visto! E’ uscito per metà dalla tana e poi, disturbato da chissà cosa, é rientrato di corsa".
Si avvicinarono verso l’imboccatura della tana, controllarono se sull’erba adiacente vi fossero tracce di peli di coniglio, esaminarono ogni cosa con attenzione. Nessun indizio che da poco tempo si fosse avvicinato un coniglio, né traccia del furetto. Avvicinarono le orecchie verso il buco, nella speranza che il furetto manifestasse la sua presenza col tintinnio delle campanelle: nulla. Ma grande fu la meraviglia di papà quando, smuovendo un po’ di fratte con un bastone, scoprì la presenza di un grosso foro, tempestato di peli e di tanti residui organici di coniglio, segno che lì sì che i conigli erano di casa e che quella era la vera imboccatura della tana!
"Ma che minchia abbiamo combinato? Abbiamo sbagliato buco! E’ questa la vera tana, il grande forte di cui vi parlavo. L’altra é una buchetta di poco conto e non una tana di conigli!".
Si precipitò verso la falsa tana dove avevo infilato il furetto e dove questo era entrato malvolentieri. Preso da un presentimento, allungò un braccio più in fondo che poté, e con grande meraviglia tirò fuori il furetto ancora semi addormentato, dopo la lauta colazione a base di latte e formaggio. Un senso di sgomento e di rabbia si poteva leggere nei loro occhi. Altro che inseguire i conigli nella tana, quel valente furetto! Quello se ne stava tranquillamente a dormire su un comodo e fresco giaciglio! E Cicco, per scusarsi della figuraccia, sembrava quasi volerglielo dire in faccia ai cacciatori, agitando i lunghi baffi e roteando i suoi due occhietti piccoli e lucenti :
"Io lì non volevo entrare : ma visto che mi avete cacciato dentro con insistenza, cosa potevo fare se non schiacciare un bel pisolino?".
"Una ridicola avventura di caccia!", mormorò zi’ Vicìanzu stizzito.
"Una brutta storia da non raccontare a nessuno" fece eco papà. In vita mia, mai era capitata una fesseria del genere! Sento già le imprecazioni della buon’anima di mio padre, porca terra!", concluse sconsolato, mentre riponeva Cicco nella "panara di vimini".
"Cu cu, cu cu!", risuonò la voce del gufo dal solito albero di pero, tornato per godersi la disperazione dei tre valenti cacciatori e vendicarsi dell’offesa subita poco prima.
"E’ tutta mia la colpa che ho infilato Cicco nella tana sbagliata", dissi mortificato.
"Non importa, vedrai come vengono fuori, adesso che cicco imbocca la strada giusta".
Prese Cicco, gli inumidì i baffetti con un po’ di saliva, gli rinfrescò la testa con dell’acqua, l’accarezzò e l’infilò nella vera tana.
La tana di cozzo Reina, o meglio il forte, non tradì le attese se dopo mezzora quattro conigli erano andati a fare compagnia alla lepre ed alle pernici nel cufinu di zi’ Vicìanzu.
Lasciato cozzo Reina ci trovammo davanti ad un piccolo affluente del fiume Salito, ricco di pozze d’acqua e circondato da alti cespugli di
buda, un’erba che raccolta in fascine e seccata al sole serve per intessere seggiole e rivestire i fiaschi. Il sole era ancora alto quando, passati di là del fiumiciattolo, ci dirigemmo spediti verso la contrada Raffi dove giungemmo dopo circa mezzora.
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Lo scavatore Buffetta
Dalla collinetta su cui eravamo giunti si poteva osservare un panorama incantevole. Alle nostre spalle il piccolo fiume e di fronte una piccola pianura sovrastata dalla collina di Raffi, l’antico insediamento sicano e poi greco. Io ero rimasto indietro ad osservare i cocuzzoli che il sole, ormai verso il tramonto, inondava di raggi rossi ed ancora caldi. Guardando a valle alle nostre spalle, ad un centinaio di metri sotto di noi vidi un uomo che con una zappa, almeno così mi parve, scavava con un certo accanimento a lato di un muretto circondato d’erba secca. Un colpo dietro l’altro, alle sue spalle aveva accumulato un bel mucchio di terra, e quindi una bella buca per piantarvi chissà quale albero. Curioso, chiamai zi’ Vicìanzu per chiedere come mai a quell’ora un contadino fosse ancora al lavoro in un luogo così strano. Zi’ Vicìanzu tornò sui suoi passi, e mettendosi la mano davanti agli occhi per non restare abbagliato dal sole basso all’orizzonte verso Sutera, osservò anche lui la strana scena.
"Lo conosco bene quel tizio. E’ quel disgraziato di Nofriu Buffetta che scava alla ricerca di reperti archeologici. Dicono che abbia trovato tanti vasi antichi ed altre cose di valore che poi vende a chi gliene fa richiesta. Adesso lo chiamo. Oh! Buffè! Oh Buffè!", cominciò a gridare zi’ Vicìanzu in direzione di Buffetta.
Buffetta non sentiva, o faceva finta di non sentire i richiami di zi’ Vicìanzu. Ma dopo l’ennesimo urlo lanciato con forza, Buffetta poggiò a lato la zappa ed alzò il capo verso la collinetta. Fu un attimo. Raccattato il tascapane che poggiava sull’erba, ci voltò le spalle e cominciò a correre come e più d’una lepre inseguita dai cani latranti con la bava alla bocca che tentano d’acciuffarla. Corse verso il fiumiciattolo, si girò un paio di volte, corse ancora più forte di prima, inseguito dai richiami di zi’ Vicìanzu che non avrebbero voluto assolutamente terrorizzarlo. Oltrepassato il fiume corse ancora, finché il nostro sguardo lo perse definitivamente di vista.
"Che razza di furfante! Ci ha scambiati per guardie e t’assicuro che correrà fino a Sutera nel timore d’essere acciuffato. Dicono che venga di notte a scavare, temendo d’essere scoperto in quest’azione proibita dalla legge. Come sempre succede da queste parti, tutto ciò che è vietato è permesso, non esistendo adeguati controlli. Poveraccio si guadagna qualche soldo svendendo e rovinando reperti di pregiato valore storico. Tutti sanno dove vanno a finire i suoi vasi ma nessuno interviene a tutela di tante
cose vecchie, come le chiamano".
"E se andassimo a vedere cosa stava cercando in quella buca!", gli chiesi con curiosità.
"Meglio lasciare stare, non vorrei che lui ha fatto il danno ed a noi resti la beffa!", mi disse zi’ Vicìanzu con sapienza contadina.
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La pietra dell'Imperatore
"Sentite il suono di una campana? Proviene da Mussomeli o da Sutera", disse zi' Vicìanzu al quale nulla sfuggiva, avvicinando la mano destra all'orecchio per meglio amplificare quel suono appena percepibile.
"Dovrebbe essere il suono delle venti ore, anche se mi sembra un po' in ritardo, disse papà. Mio nonno mi raccontava spesso la storia di quel suono che per tradizione in Sicilia si sente verso le quattro del pomeriggio".
"Sono curioso di sentirla", gli dissi.
"Mi raccontava appunto mio nonno, che poi era il tuo bisnonno, al quale piacevano le storielle che leggeva su un vecchio almanacco, che Federico
II, nipote del Barbarossa, imperatore e re di Sicilia, viene spesso considerato come uomo violento per certi episodi che gli si attribuiscono, come seppellire viva una persona accusata di qualche mafefatta o sferrare un violento calcio al basso ventre a chi, genuflesso, chiedeva sommessamente perdono! Ma viene anche ricordato come persona intelligente, erudito, poeta, legislatore, mecenate, aperto al nuovo ed alla tolleranza religiosa. Basti pensare al trattato sulla caccia, che praticava nientemeno che con un falcone, ed all'apertura dell'Università di Napoli, con tutte le disposizioni impartite affinché gli studenti potessero avere vita facile per lo studio. E perché no! anche come persona aperta e sensibile alle richieste sindacali dell'epoca!
Si racconta, infatti, che gli operai dell'Isola dovevano lavorare fino a quattordici ore al giorno, dalle sei del mattino fino alle venti, per guadagnare un tozzo di pane. D'inverno poteva essere sopportabile, visto il clima benevolo, ma d'estate, con l'afa e la calura opprimente, non era da cristiani! Quando una piccola rappresentanza si presentò al suo cospetto con una supplica, affinché fossero diminuite le ore di lavoro, l’imperatore Federico prese a cuore la questione. Ordinò che fosse posta alle falde del monte Pellegrino, nella parte meridionale, una grossa pietra a forma di cono, in modo che fosse ben visibile da tutti gli abitanti della Conca d'oro, e decretò che quando l'ombra del monte avesse lambito la base del macigno (il che avveniva verso le ore quattro del pomeriggio, o come si diceva allora "a venti ore"), tutti dovevano smettere di lavorare. Una grande conquista sindacale! In segno di riconoscenza la gente battezzò quel grosso sasso a forma di cono, come la
Pietra dell'Imperatore. E per ricordare la grande conquista di quella legge umanitaria voluta dal grande imperatore nel 1231, le "venti ore" risuonano ancora dai campanili dei paesi della Sicilia".
"Ecco perché, gli risposi, quando vado sul campanile della chiesa insieme al nonno per tirare su la
mazzara mi raccomanda sempre: "Attento alla mazzara delle venti ore, porca terra!".
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Il leone di Raffi
"Ecco il leone di Raffi!", disse papà facendo un cenno con la mano verso una piccola roccia che si stagliava dinanzi a noi.
"Un leone! Mica siamo in Africa!", dissi io più incredulo che meravigliato.
"Tu guarda bene e vedrai un leone", insistette papà, per nulla infastidito dalla mia stupida osservazione.
Eravamo giunti a Raffi, ed effettivamente quel leone, colpito in faccia dal sole che ancora splendeva sopra Sutera, se ne stava sdraiato e con atteggiamento grintoso a protezione di quella valle, ricca di antichi insediamenti. Il corpo disteso, una grossa testa, due zampe enormi protese in avanti, una folta criniera ed una coda all’insù, in atteggiamento minaccioso. Persino un albero a fargli ombra!
L’avessero voluto scolpire apposta, quella pietra non avrebbe assunto le sembianze che, con un po’ di fantasia, la facevano assomigliare ad un leone. Un dubbio tuttavia mi restava, quantunque sembrava evidente trattarsi di uno scherzo di natura e di prospettiva: che quella grossa pietra calcarea, così mutilata e degradata, potesse essere stata veramente scolpita da antiche e sapienti mani. In ogni caso l’acqua sferzante ed il vento che soffiava in quella valle avevano contribuito ad incidere quel grosso masso prominente su tutto il panorama, in un senso o nell’altro: generando cioè una grossolana incisione o rovinando un’opera voluta dagli abitanti della zona alcuni millenni addietro.
Gli alberi, in tutta la vallata, potevano contarsi con le dita di una sola mano, il panorama si presentava quindi molto brullo: solo qua e là alcune piccole
robbe, per lo più malandate ed offese dall’incuria del tempo. Intorno al nostro leone si poteva ammirare una distesa d’infiorescenza di un giallo molto intenso, rallegrata da tante macchie di rossi papaveri, mentre addossata al suo fianco sinistro sorgeva una casetta, quasi a chiedere protezione al mostro che la sovrastava. Sulla destra della vallata, alle spalle del grosso leone, il terreno diventava ondulato, e sopra un leggero pianoro si distingueva perfettamente una robba che, osservata da quella distanza, sembrava imponente rispetto alle altre sparse in giro.
"Noi siamo diretti verso quella robba", disse papà indicando proprio la casa bianca di gesso che risaltava sul grigiore circostante.
Avvicinandoci al leone, la mitica figura cambiava velocemente aspetto e da feroce animale si trasformava in un’informe roccia calcarea costellata di buchi e tane per conigli, perdendo l’arcano e primordiale influsso esercitato in precedenza. Oltrepassata la fantomatica scultura, in pochi minuti ci trovammo al cospetto della robba di zi’ Pietro.
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La casa di zi’ Pietro
Il nostro corteo era stato evidentemente osservato poiché, giunti in prossimità dell’aia, fummo accolti dall’abbaiare di alcuni cani e da una voce di donna che cercava di calmarli.
"Zi’ Pitrinu, che bella sorpresa!", fu il caloroso saluto della donna.
"Come state, za’ Carmè! E dov’è zi’ Pietro?", rispose papà, contento d’essere tornato in quella casa dov’era stato ospite altre volte.
"Sta bene, è qui dietro a trafficare con spighe e ligami, perché oggi è giorno di
pisatura. Non sentite come urlano a quei poveri muli? Nino! Nino! Vai a chiamare papà che si trova sull’aia!", gridò za’ Carmela al figlio quindicenne che giocherellava con una corda.
L’accoglienza fu calorosa, fummo fatti accomodare sotto il porticato ricoperto da rampicanti e messi a nostro agio.
Intanto che zi’ Vicìanzu aiutato da zi’ Ciuzzu scaricava gli attrezzi dal mulo giunse zi’ Pietro, trafilato ma felice della sorpresa dell’inaspettata visita. Liberatosi di un enorme fazzoletto bianco che gli copriva testa, collo ed orecchie, si scambiarono un caloroso abbraccio ed una serie di battute. I due non si vedevano da un pezzo, e l’ultimo incontro era stato in occasione della consegna di un vecchio fucile che zi’ Pietro voleva fosse riparato. Ogni qual volta papà capitava da quelle parti, per motivi di caccia evidentemente, andava sempre a trovarlo; e lo stesso faceva zi’ Pietro se passava per il paese in occasione di una fiera o per la vendita dei suoi cereali. La moglie, za’ Carmela, fu molto affettuosa con me, e corse subito in casa per tornare con una
fallata di biscotti e ciambelle che offrì a tutta la comitiva. Insieme a lei comparve Pina, l’altra figlia quasi diciottenne che, anche se un po’ impacciata per la presenza di tanti estranei, se la cavò bene con saluti e convenevoli. Di media statura e formosa, aveva una carnagione piuttosto scura, abbronzata dai raggi del sole di Raffi. Portava lunghi capelli neri legati dietro alla nuca ed un
fallaru stretto alla vita, segno che in quel momento era intenta ai lavori domestici.
"Scusate per l’accoglienza, disse zi’ Pietro, ma ero in mezzo all’aia a fare girare i cavalli che oggi sono un po’ inquieti. Speriamo arrivi il vento giusto cosicché possiamo cominciare a
spagliare. Proprio ieri avevamo scannato l’agnello, e sono contento che potremo gustarlo insieme".
"Aggiungiamoci un coniglio preso a cozzo Reina, non sarà come farlo a sugo ma farà la sua figura lo stesso", aggiunse papà.
E mentre za’ Carmela, che sembrava avere cchiù facenni chi nun hannu li furni di Pasqua, impartiva ordini a Nino di preparare il fuoco ed a Pina d’apparecchiare la tavola, zi’ Pietro si diresse sul retro a prendere l’agnello. I nostri cacciatori invece, preso il coniglio più grosso, cominciarono a scuoiarlo ed a prepararlo per la brace.
La casa in gesso era composta da due locali a pianterreno, uno per gli usi comuni con cucina ed un tavolo e l’altro come deposito di attrezzi vari, e da altrettanti locali al piano soprastante. La scala esterna in muratura, che portava al piano superiore, era come imbrattata da decine di
tignusìaddi di colore grigio maculato. Se ne stavano appiattiti ed immobili con le dita allargate contro la parete, quasi sentissero l’avvicinarsi del crepuscolo. Volevano forse sfruttare gli ultimi raggi del sole oramai al tramonto, e darsi una carica d’energia per le loro scorrerie notturne. Dietro alla casa un locale fungeva da
paglialora e ricovero per le bestie. Abbastanza comoda perché tutta la famiglia potesse trascorrervi i mesi estivi, ed una manna per zi’ Pietro che, per lavorare i terreni annessi, era costretto ad abitarci tutto l’anno. Ad eccezione dei periodi d’inattività o di pioggia che trascorreva in paese, a poche ore di mulo.
Davanti l’ingresso c’era un piccolo porticato che proiettava un’ombra miracolosa, e da uno dei lati pendeva una corda adattata a
naca, dove si stava dondolando Nino al momento del nostro arrivo. A lato un piccolo pollaio, circondato da un recinto, ospitava
galline e pipìi. Nei pressi del pollaio un piccolo muro circolare, sovrastato da tre paletti di ferro a forma piramidale, da cui pendeva una carrucola ed una corda, indicava la presenza di un pozzo da cui attingere l’acqua ed a lato una piccola gebbia. Da un’estremità della corda pendeva un vecchio
catu di rame un po’ ammaccato, che si dondolava leggermente per via della lieve brezza che spirava a quell’ora.
A lato della casa faceva bella mostra di sé un bellissimo ciuffo di
ginerio, dai lunghi steli ricchi di pannocchie bianche argentee non ancora fiorite.
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La trebbiatura
Incuriosito dalle voci che provenivano dal retro della casa, dove i contadini stavano schiacciando le spighe di grano per mezzo dei muli, andai ad osservare quello spettacolo mai visto prima.
In mattinata i contadini, facendo la spola dai campi, avevano accatastato li
gregni, mentre altri dopo averli liberati dai ligami utilizzati per il trasporto li avevano sparsi sull’aia circolare come una piccola arena. Da un paio d’ore i muli appaiati, governati e trattenuti per mezzo di una corda da un contadino sistemato al centro dell’aia, girando e rigirando vorticosamente, come una giostra, coi loro zoccoli a mezzaluna calpestavano le spighe per liberare i chicchi di grano. I muli, sudati sotto un sole cocente, incitati da una frenetica quanto melodica litania di frasi all’apparenza sconnesse, in un continuo crescendo, immersi nelle spighe fino al ginocchio, erano attori di uno spettacolo emozionante che si perpetua dalla notte dei tempi.
"Ah! la mula baggianè! Ah! ca veni lu Santu e vi porta via! Attìa mula darrìari, tu lu sai chiddu c'affari! E tu mula davanti, nun babbiàri cu li santi!", urlava il contadino che guidava la giostra, testa e viso coperti da un enorme fazzoletto bianco, che scendeva fin sotto la schiena, per proteggersi dal sole e dagli aculei delle spighe che saltellavano dappertutto. Per poi continuare:
"Ludammu la santissima Trinità, lu Patri chi ci ha criatu, lu Figliu chi ci ha sarvatu, e lu Spiritu Santu chi ci ha sempri amatu!".
E intanto che i muli, (in genere due, ma a volte tre o quattro, secondo la dimensione dell'aia), continuavano a girare calpestando le spighe con veemenza, un altro contadino ributtava nell’aia quelle uscite dai margini della stessa. Quei muli erano come un treno inarrestabile, pareva che le forze della natura si stessero scaricando sulle gambe e sugli zoccoli di quegli animali, tanta era la forza e la foga che mettevano in quel pesante e faticoso lavoro. Ogni tanto il contadino al centro dell’aia sospendeva la giostra per riposarsi, dando modo agli aiutanti di rivoltare le spighe per facilitarne l’apertura.
Tante erano le litanie urlate a squarciagola dal contadino per incitare i muli a girare sull’aia, ed ognuna assumeva un significato particolare. In genere erano invocati i Santi affinché mandassero il vento necessario, evitassero i calci dei muli, portassero pane e companatico.
"Ludammu a San Calò, ca cci scansa li canciuna di li scecchi, jumenti, cavaddi e muli", cantava il contadino, chiedendo al Santo di non essere colpito dagli zoccoli di quegli animali.
"Ludammu l’Annunziata, ca cci porta la ‘nsalata", per implorare il pane ed il companatico necessario per portare a termine quel duro lavoro.
Non mancavano poi le frasi poetiche, vere poesie spesso improvvisate, come:
"Vitti ‘na nuvulidda ‘ncapu lu mari, c’attuppava li raggi di lu suli; quantu billizzi c’havi San Pasquali, c’a chiddi di Maria sunnu maggiuri; vasammu lu Santu Sacramentu, evviva li miraculi di Maria".
La trebbiatura era l'ultima fase del lavoro dei campi, dopo l'aratura, la semina ed il raccolto. Ed essendo i contadini intimamente religiosi non potevano non riporre tutta la loro fiducia e ringraziamento nei Santi che li avevano assistiti in tutte queste pratiche lunghe e pesanti fisicamente. In loro riponevano tutta la speranza di potere giungere al raccolto, poiché spesso il gelo, il vento, le piogge violente o la loro assenza potevano vanificare un anno di duro lavoro.
Quando le spighe erano state sufficientemente calpestate ed i chicchi di grano separati dalla pannocchia, era il momento di iniziare a
spagliari.
Messi i muli a riposare, i contadini, usando prima la tradenta e poi la pala, lanciavano la
bastarda contro il vento che avrebbe ripulito d’ogni impurità il grano separandolo dalla paglia. Ed in coro imploravano San Clemente perché mandasse il vento necessario:
"Ludammu a San Clementi, ca cci porta prosperi li venti".
Alla fine della spagliatura una montagna di chicchi lucenti compariva al centro dell’aia, circondata da un semicerchio di paglia simile a duna del deserto. Spettacolo emozionante a vedersi ed a ricordarsi per sempre poiché, dopo mesi di duro lavoro, quei chicchi gettati a marcire tra le zolle si erano moltiplicati per cento.
Intorno all'aia svolazzavano tanti passerotti che, impossessatisi del loro chicco di grano, volavano via pipilando di gioia. Ai margini invece si notavano interminabili processioni di formiche, grosse, piccole, nere ed anche rosse che, appesantite oltre ogni immaginazione dal prezioso carico, arrancavano verso le loro profonde tane. A migliaia e migliaia intasavano la loro piccola autostrada lasciando una lunga scia nera.
Il grano era pronto per essere misurato col tumulo ed insaccato, per essere trasportato nei granai o nei consorzi per la vendita. Ma il contadino non era ancora padrone di nulla, perché: "Mentri ‘ntr’all’aria resta lu frumentu, nun si’ tu lu patruni ma su’ centu". Se il contadino lavorava in proprio, poteva dirsi proprietario di tutto, altrimenti bisognava procedere alla divisione in base agli accordi vigenti in fatto di mezzeria. Al
mitatìari infatti spettava metà del raccolto, mentre l’altra metà andava al proprietario del terreno, per conto del quale il contadino aveva lavorato la terra per tutto l’anno.
Intanto che il grano luccicava sull’aia, puntualmente giungevano i questuanti. In genere erano i monaci del vicino convento o i messi della parrocchia del territorio a chiedere una piccola offerta, per sostenere una piccola comunità o per i festeggiamenti del Santo patrone. Ma molto spesso si presentavano guappi e mafiosi a pretendere una taglia sul raccolto, che tanta fatica e sudore erano costati al povero contadino. Allora per quieto vivere e non rischiare minacce e soprusi d’ogni genere, con le lacrime agli occhi, il contadino era costretto a cedere e subire vili ricatti. La vita di campagna, idilliaca agli occhi estranei, ma intrisa di sudore e privazioni d’ogni genere, era ulteriormente rattristata da questi neri calabroni senza scrupoli, pronti ad imporre la loro legge disonesta. Erano i vari "Malacarne" di turno che in precedenza avevano preteso l’iniquo pedaggio sul ponte del piccolo fiume o avevano imposto l'esosa tassa sul macinato.
Un motto ben conosciuto in Sicilia da sempre recita: "Càlati juncu ca passa la china!". Saggezza popolare o meno, era necessario cedere e piegarsi alla forza maggiore per non essere travolti completamente.
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La cena
"Intanto che si prepara la brace, andate a raccogliere un
panaru di fichidindia", disse zi’ Pietro a Nino.
"Vieni anche tu!", mi disse prendendo un capiente paniere ed un bastone con attaccati in cima due barattoli, che lo facevano assomigliare a quell’attrezzo che usa il sacrestano per spegnere le candele. I barattoli, che una volta forse contenevano carne in scatola, erano di dimensioni diverse. La loro funzione era quella di agganciare quel frutto pieno di spine, con l’uno o con l’altro barattolo in funzione della sua dimensione, e di strapparlo dalla pianta con una piccola torsione. In pochi minuti fummo al cospetto di una serie di verdissimi
balloni di fichidindia, carichi di frutti colorati. Fui bravo ad aiutarlo nella raccolta, facendo molta attenzione alle micidiali spine. Dopo circa mezzora eravamo di ritorno col paniere colmo di bei frutti rossi, bianchi e sanguigni.
Il sole ormai illuminava soltanto i cocuzzoli che circondavano la piccola valle, ed un cuculo cominciava a fare sentire i suoi versi monotoni. A quei versi faceva eco l’urlo di un
varvajanni appostato nei pressi della casa, mentre una cucca, svolazzando da un cespuglio all’altro, emetteva un grido monotono e lugubre.
Un papanzicu, col suo melodioso quanto monotono, lacerante e martellante frinito di zichi-zichi-zichi, s’era appostato nei pressi del pergolato, ed invano Nino con una scopa tentava di snidarlo e farlo tacere. Quel canto di richiamo amoroso fendeva l’aria, e la sua eco rimbalzava da un crinale all’altro della piccola conca per tornare al punto di partenza. Era uno, ma sembravano dieci o cento i papanzichi che s’erano dati appuntamento quella sera davanti al porticato di zi’ Pietro. Nei rari istanti in cui taceva, in attesa di una risposta galante al suo amoroso richiamo, il silenzio s’impadroniva momentaneamente della valle con sollievo per le nostre orecchie. Per riprendere più acuto e ritmato di prima: zichi-zichi-zichi.
"La cicaledda rauca, ‘ntra l’arvuli e li spichi, cu lu so’ zichi, zichi, nn’annunzia l’està", commentò zi’ Vicìanzu, abituato e rassegnato a quel canto noioso.
Il crepuscolo stava per prendere il sopravvento sulla luce del giorno morente, i cui raggi sempre più timidi sembravano vibrare nell’aria ancora calda ed appena mossa. Dinanzi ai nostri occhi spuntavano alcune piccole piante di cardo dai fiori coloratissimi, che stavano quasi per chiudersi con l’avvicinarsi delle tenebre. Da qualche minuto un piccolo grillo s’era posato su uno di quei fiori ed emetteva un canto monotono. Era un grillo campestre, e questo era il momento per iniziare il suo canto di richiamo che sarebbe durato per tutta la notte. Stridulava senza sosta, stropicciando con frequenza incredibile le sue piccole ali, ed emetteva un richiamo sessuale, continuo, monotono e penetrante. Di sicuro era un maschio. Il suo richiamo non era stato inutile poiché, nel volgere di pochi minuti, altri grilli s’erano posati su quelle piante ed avevano iniziato una gara canora, una cerimonia d’accoppiamento con la femmina di turno che, immobile su un fiore profumato, si sarebbe concessa soltanto ad uno dei suoi calorosi pretendenti. Sicuramente il più melodioso e romantico insieme.
"E siamo appena al tramonto! Chissà di notte che concerti melodiosi fanno tutti questi animali!", dissi a Nino intanto che, abbandonata la scopa, governava la brace a poca distanza dalla casa.
"Se vuoi venire con me, più tardi andiamo a dare la caccia a quel varvajanni che tutte le sere viene a stuzzicarmi", mi rispose.
"Mi piacerebbe, eccome! Vorrei vederlo in faccia quell’animale. Dicono che abbia una barba bianca!", dissi con convinzione.
"Lo sai che il mese passato ho catturato una ticcia con un colpo di fionda? L’ho tenuta qualche giorno per curare la ferita che aveva all’ala destra, ma l’ho dovuta lasciare andare perché di notte gli altri animali venivano a cantare vicino alla gabbia, e non ci lasciavano dormire", disse Nino con orgoglio.
"Se catturiamo quel varvajanni me lo lasci portare via? Mio padre non vuole che si spari ad animali che non siano lepri, pernici o conigli".
"Certo che te lo regalo! Potresti farlo imbalsamare e tenerlo sulla scrivania per sempre. Sai che bella figura fanno gli animali imbalsamati? Mio padre ogni tanto li porta in paese per venderli", mi confidò.
"Va bene, allora stasera andiamo a caccia del barbuto rapace".
L’idea di tornare a casa con una preda tutta mia, che non fosse la solita lepre impallinata da un fucile, stuzzicava la mia fantasia, e già immaginavo l’invidia dei miei amici. Un varvajanni con la barba avrebbe attirato l’attenzione di chi mai aveva visto in faccia un animale così curioso. Mi avrebbero chiesto dove e come l’avevo catturato, ed allora avrei raccontato l’avventura di quella battuta di caccia a Raffi in tutti i minimi particolari.
"Hai mai visto una mammatessa?", mi chiese Nino con un sorriso che sembrava da presa in giro.
"No, cos'è questa mammatessa?", gli risposi.
"Aspetta e vedrai!".
Con un balzo felino si lanciò in avanti ed acchiappò al volo una libellula che, svolazzando tranquillamente di fronte ai nostri occhi, si dondolava librandosi con grazia sulle belle ali variegate.
"Vedi", mi disse tenendola stretta in un pugno semi aperto, attento a non schiacciarla e rovinarle le ali, "adesso è una libellula, ma fra poco diventerà una
mammatessa".
Il povero insetto, ridotto all'immobilità, nel tentativo di liberarsi trovava ancora la forza di svolazzare e sbattere fortemente le ali, costretta nel pugno di
Nino. Sembrava un condannato a morte che, cosciente della fine imminente, prova con tutte le forze rimaste a ribellarsi nel tentativo di riacquistare la libertà. Nino raccolse una spiga, ne tagliò il gambo e lo infilzò nel posteriore della povera libellula; quindi aprendo il pugno la lasciò libera di andarsene assecondandola al volo. La povera libellula, appesantita dal gambo di spiga, rimase immobile per un attimo, quindi mosse le ali e si librò lentamente nell'aria ondeggiando come ubriaca. Si sollevò di qualche metro, goffa ed impacciata dall'innaturale coda di paglia, quindi planò andandosi a posare sul tavolo addobbato per la cena, quasi volesse chiedere aiuto ai commensali.
"Sei il solito disgraziato!", urlò zì Pietro all'indirizzo di
Nino, accennando ad un ceffone. "Ti ho detto di non maltrattare così gli animali, spero sia l'ultima volta!".
Nino corse verso il tavolo ed acchiappata la libellula, ormai trasformata in
mammatessa, la lanciò lontano verso il prato, abbandonandola al suo triste destino.
Appena la brace fu pronta zi’ Pietro vi sistemò sopra una graticola, quindi vi adagiò parte dell’agnello ed il coniglio. Nel frattempo il sole era tramontato completamente ed il buio s’era impossessato della valle, della casa, di tutti noi. Solo due piccole
citalene a carburo rischiaravano la parte antistante la robba e la tavola imbandita per la cena proprio davanti al piccolo patio. Il silenzio regnava sovrano, rotto sempre dal canto triste e monotono dei rapaci e dalle nostre voci. Di tanto in tanto si sentivano i latrati dei cani che, girovagando per i campi, scovavano ed inseguivano qualche uccello.
"Tutti a tavola, la cena è pronta! La luce della citalena è poca, ma spero che riusciate a trovare la bocca!", scherzò zi’ Pietro intanto che con cura travasava la carne dalla graticola in una grande
spirlonga posta al centro della tavola.
"La luce sarà poca, ma la fame è tanta! Cani chi havi fami, mancia cipuddi, ma qui altro che cipolle!", gli fece eco zi’ Vicìanzu ridendo e fregandosi le mani.
"Una bella tavolata! Facciamo un brindisi a za’ Carmela ed a zi’ Pietro col vinello di don Giovanni", esclamò papà entusiasta.
Come buona e gustosa era la carne, il formaggio di pecora, i fichi ed i fichidindia, altrettanto briosa e frizzante fu l’atmosfera dei commensali, anche per merito del vino.
"Assaggiate i fichidindia muscaredda, che sono veramente gustosi", disse za’ Carmela.
"Anche i sanguigni non sono da meno, ma attenti c’attuppanu!", confermò zi’ Vicìanzu che non aveva atteso l’invito per mangiarne un paio assieme ad un pezzo di pane.
Alla fine i complimenti dei cacciatori andarono ai padroni di casa ed a Pina, per avere preparato con le sue mani il pane
caddiatu, odoroso di paparina e giurgiulena. Quelli dei padroni di casa ai cacciatori, per l’ottimo coniglio e per la loro gradita presenza in quella modesta casa.
"Fortunatamente è andato tutto bene, disse za’ Carmela, ma spesso quel forno fa brutti scherzi. Sapete come si dice: La massara cerni e ‘mpasta, e lu furnu conza e guasta. Continuo a ripetere a mio marito di sistemare quel forno, ma lui è sempre preso coi lavori nei campi e non ha mai tempo".
"Certo qui avete tutto", disse papà a zi’ Pietro. "Avete l’acqua, la terra da coltivare, le bestie, la selvaggina, e soprattutto una bella famiglia: non vi manca proprio niente. Il forno ve lo sistemerò io la prossima volta che veniamo a trovarvi. Il mese scorso ne ho costruito uno in campagna, usando il
pagnu, e vi assicuro che funziona alla perfezione".
"Stiamo bene in questo posto, anche se ci piacerebbe tornare frequentemente in paese. Non possiamo però lasciare incustoditi la casa e gli attrezzi per lunghi periodi, e vorremmo che gli amici venissero a trovarci più spesso. Lo sapete anche voi che:
si ‘ntra l’aria nun stai mentri si spagghia, sarai prestu riduttu a pani ed agghia", gli rispose zi’ Pietro con un detto contadino.
"Avete ragione, caro zi’ Pietro; ed è per questo che verremo sempre qui a caccia perché:
ogni amicu chi si perdi, è un scaluni chi si scinni", gli rispose zi’ Vicìanzu rivolto agli amici che annuivano divertiti.
Za’ Carmela e la figlia rimasero in casa a sparecchiare, intanto che papà chiamava i cani per dare loro gli avanzi e zi’ Vicìanzu controllava i muli per la notte.
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La pistola di Bussica
"Ecco il fucile riparato, ho dovuto rifare il calcio e sostituire i grilletti. Ma stia attento, zi’ Pietro, perché le canne non mi danno tanto affidamento!", disse papà porgendogli il vecchio fucile.
"Sarebbe ora di farmene uno nuovo, ma siccome non vado a caccia, tengo quell’attrezzo in casa solo come difesa. Con le teste calde che girano da queste parti non si sa mai", gli rispose zi’ Pietro ringraziandolo.
"E queste sono le forbici per tosare le pecore; ho dovuto farle nuove perché le vecchie non erano riparabili", disse papà porgendo le forbici a zì Pietro.
"Oh! Che meraviglia, persino le iniziali!", esclamò zì Pietro intanto che le ammirava e simulava una prova, facendo stridere le due lame che si sfioravano appena.
Le forbici per la tosatura consistevano in due lunghe lame, affilate ed appuntite, tenute insieme da una molla che fungeva da impugnatura. La molla, che con una forma a U faceva un tutt'uno con le lame, non era d'acciaio, contrariamente a quelle che si trovavano in commercio, ma era stata ricavata da un corno di capra, molto artistica e comoda da utilizzare, per la sensibilità che opponeva ad una semplice pressione della mano.
"Devo darle un’altra cosa", continuò papà, dicendomi di portargli la panara col furetto.
Io rimasi meravigliato al pensiero che volesse regalargli il furetto, dopo che zi’ Pietro aveva dichiarato che non andava a caccia. Presi la panara col furetto e gliela consegnai. Papà aprì il coperchio ed estrasse il furetto pregandomi di tenerlo. Quindi, sollevati alcuni stracci che facevano da giaciglio all’animale, dal fondo della panara estrasse la pistola col calcio di madreperla, luccicante alla luce della citalena, la stessa che gli avevo visto riparare in bottega all’inizio del mese.
"Ecco perché pesava tanto la panara stamattina!", mormorai sommessamente.
"Le precauzioni non sono mai tante, anche perché di questa pistola non conosco l’esatta provenienza. Me l’ha consegnata un suo conoscente, un certo Bussica, venditore di fiori e graste, con l’incarico di ripararla e di lasciarla qui da lei. Mi ha detto che quanto prima passerà a ritirarla".
A sentire quel nome zi’ Pietro cominciò ad agitarsi, e presa la pistola dalle mani di papà fece il gesto di volerla lanciare il più lontano possibile, nel buio della notte, se non fosse stato trattenuto.
"Ancora lui, quel disgraziato! Io non so e non voglio sapere cos’ha combinato, ma alcuni giorni fa sono venuti i carabinieri a cercarlo. Il suo camion guasto è rimasto sul vecchio stradale, a pochi chilometri da qui, ma di lui si sono perse le tracce. S’è dato alla macchia, insomma", disse zi’ Pietro agitato e preoccupato per questa nuova storia che andava ad aggiungersi agli altri fastidi che evidentemente Bussica gli aveva procurato.
"Il mio consiglio è di fare sparire subito questa pistola, nel caso quel pazzo l’abbia usata contro qualcuno", aggiunse, come preso da un triste presentimento.
"Non c’è da preoccuparsi, perché manca il numero di matricola ed ho dovuto modificare il percussore che ogni tanto s’inceppava", gli rispose papà.
E sembrava convinto di ciò che diceva. Puntiglioso e timoroso com’era in queste cose, più di nostro nonno, sarebbe stato il primo a fare sparire immediatamente quell’arma se avesse rappresentato un reale pericolo.
"Può tenerla tranquillamente in casa, nascosta da qualche parte. Se Bussica torna gliela restituisce, altrimenti fra qualche tempo la può denunciare ai carabinieri e tenerla come difesa personale al posto del fucile, di cui mi fido meno", lo rincuorò papà.
"Non ne voglio sapere! La tenga pure lei e ne faccia quello che vuole!", gli rispose gentile ma deciso zi’ Pietro.
Papà, che di quella pistola s’era quasi innamorato, la ripose sul fondo della panara e vi adagiò sopra il furetto, come fosse un feroce leone a guardia di un inestimabile tesoro. Una trovata fantasiosa che avrebbe messo in difficoltà qualsiasi detective di provata esperienza e che lasciò tutti a bocca aperta. Chi mai sarebbe andato a cercare una pistola sotto il culo d'un feroce furetto? Stavolta la fantasia di papà aveva eguagliato o superato quella del nonno, in relazione al famoso chiodo!
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A letto con la luna
"Tri uri dorminu li santi, cincu li studenti, setti li cumuni e novi li putruni! E’ ora di riposarsi un po’, perché domani sarà duro tornare in paese, dopo questa mangiata", mormorò zi’ Vicìanzu agli amici.
Sistemate le bisacce sopra uno spesso strato di paglia dell’aia, papà, zi’ Vicìanzu e zi’ Ciuzzu vi si adagiarono nel tentativo di prendere sonno sotto il cielo stellato. Io rimasi un po’ in disparte in attesa che venisse Nino per andare a cercare il varvajanni. Non era facile per zi’ Vicìanzu prendere sonno dopo l’abbondante bevuta. Si girava e rigirava provocando lo scricchiolio della paglia sotto la bisaccia ed infastidendo gli altri due.
"Vici’, perché non ci canti una delle tue nenie del venerdì santo?", lo stuzzicò papà.
"Lascialo perdere, Pitri’! Con tutto il vino che ha bevuto, altro che nenie!", gli rispose zi’ Ciuzzu.
"Se non ha bevuto abbastanza, Vicìanzu non può cantare. Cosa credi che facciano quando vagano da una via all’altra in paese? Bevono e cantano", disse papà.
"Non ho voglia di cantare, ma se volete vi posso recitare una poesia", brontolò zi’ Vicìanzu, poco convinto di quel che diceva.
"Fai quello che vuoi, l’importante che stia fermo su quella bisaccia!", lo rimbrottò ancora zi’ Ciuzzu.
"Allora vi reciterò una poesia in onore di quella timida mezzaluna che vedete in alto verso Sutera, e che fra poco sparirà dietro la montagna".
E cominciò:
"Un timido spicchio di luna compare
sotto un cielo stellato e lucente
di marzo, ventoso e un po’ pazzo.
Quel bimbo, curioso e impaziente,
la guarda con aria intrigante
sicuro che un giuoco infantile
si svolge nel cielo infinito e profondo.
La luna di notte compare, un po’ cresce,
scompare, cacciata dal sole accecante
del giorno nascente.
Insistente, ritorna, e da piccola falce
uno spicchio d’arancia diventa,
più sicura e contenta,
convinta che il raggio solare,
sconfitto e tremante,
debba lontano scappare,
ed errare,
puntino tra mille e più mille
lontanissime eterne lucerne.
Sconfitta e adirata, la luna
si gonfia, rotonda diventa,
e un sorriso di sfida rivolge
al cocciuto rivale di sempre.
Comincia a inondare di raggi argentati
le valli e i bei prati
che Aprile comincia a velare di verde,
felice di esser mirata da due innamorati.
Ma il sole, tenace da sempre,
invidioso e potente,
un spinta violenta e mortale le imprime,
e da tonda, grassoccia e gioconda
uno spicchio d’arancia diventa,
e poi falce e poi niente!
Forse é un giuoco, da sempre".
"Bravo, zi’ Vicìanzu!", dissi io entusiasta di quella poesia, che ben s’intonava con l’atmosfera di quella notte particolare.
"Non pensavo che oltre che cantante fossi pure poeta", disse zi’ Ciuzzu.
"Non è farina del suo sacco. Sicuramente gliel’avrà insegnata cugino Francischella", lo prese in giro papà.
"Il sonno vi fa parlare a sgangu. Buonanotte! E’ ora di dormire", tagliò corto zi’ Vicìanzu, mostrando di non gradire le prese in giro degli amici.
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Nella casa dei morti
Poco dopo giunse Nino e ce n’andammo per i campi alla ricerca del varvajanni che né cantava né dava più segni di vita. Solo il cuculo continuava ad emettere monotoni cu, cu, cu.
"Se non hai paura, ti porto nella casa dei morti", mi disse Nino annoiato di dare la caccia a quell’uccello che sembrava sparito nel nulla.
"Tu ci sei mai stato prima d’ora, in un cimitero di notte?", fu la mia domanda pregna di preoccupazione.
"Non è un cimitero. Sono le antiche rovine dei Greci. Ogni tanto ci vado con mio padre alla ricerca di resti antichi. L’altro giorno abbiamo trovato due lumere di terracotta", mi rispose con orgoglio.
"Ma tu ci sei mai stato di notte?", gli chiesi ancora più preoccupato di prima.
"No, ma conosco bene la strada. Vedrai che ci divertiremo a gironzolare tra le tombe".
Abbandonata la ricerca del varvajanni, tornammo sui nostri passi verso la casa di Nino per prendere una piccola torcia ed una scatola di fiammiferi, decisi a quell’avventura fuori programma. La timida luna di zi’ Vicìanzu se ne stava sempre sopra la montagna di Sutera, sufficientemente bianca per illuminare la piccola collina di Raffi e tutte le alture che la circondavano. Quindi c’incamminammo in silenzio seguendo un piccolo sentiero che portava verso le pendici della collina dei morti. La pace ed il silenzio regnavano sovrani in quell’atmosfera incantata. Persino i rapaci notturni non emettevano più i loro monotoni versi. Solo l’erba che calpestavamo al nostro passaggio rompeva l’aria con un lugubre fruscio, come dei singhiozzi sincopati, quasi venissero dalle anime antiche lì sepolte e calpestate dalle nostre scarpe. Nino avanzava sicuro, deviando ora a destra ora a manca, come se quelle trazzere le avesse percorse centinaia di volte. Un fremito mi percorse quando una calandra volò davanti a noi, con un forte battito di ali, per posarsi poco più avanti, quasi annoiata per essere stata disturbata nel cuore della notte.
"Siamo quasi arrivati, disse Nino, quel grosso buco che vedi a sinistra la chiamiamo la grotta degli spiriti. Dicono che sia abitata dalle anime degli antichi Sicani, e che di notte si riuniscono per pregare i loro dei. Un amico di mio padre che viene spesso qui di notte a cercare oggetti vecchi dice di averli sentiti parlare".
"Saranno lì anche stanotte?", gli chiesi con ansietà.
"E chi lo sa! Fermiamoci un po’ restando in silenzio. Se ci sono, sicuramente si faranno sentire".
Ci appiattimmo contro una parete che sembrava una nicchia fatta apposta per non farsi vedere, e restammo in silenzio per qualche minuto. Non succedeva nulla di strano ai nostri occhi che giravano alla ricerca di qualcosa di particolare. Solo silenzio e silenzio, rotto appena da qualche grillo che schizzava tra l’erba secca. Ad un tratto dall’imboccatura della grotta cominciò a luccicare qualcosa, dei piccoli punti quasi fosforescenti che si muovevano qua e là. Subito dopo sentimmo una voce stridula, quasi un singhiozzo interrotto a metà, provenire dall’apertura della grotta. Mi avvicinai a
Nino, Nino si avvicinò a me, timorosi che qualcosa stesse per succedere veramente. Uno, due, tre uccelli volarono via dalla grotta, girarono intorno e vi rientrarono, emettendo gli striduli versi sentiti in precedenza.
"Maledette taddarite, andate al diavolo! Andiamo", esclamò Nino uscendo rinfrancato dalla nicchia.
"Se sono questi gli spiriti che sente il cercatore di cose vecchie, io non ho paura", gli dissi mostrando sicurezza, anche se in cuor mio cominciavo a preoccuparmi. Sentivo che qualcosa sarebbe successo, ma non potevo tirarmi indietro, a questo punto.
Proseguimmo per quel sentiero fino a giungere in un pianoro disseminato di pietre di tutte le fogge, sistemate in un certo ordine. Erano le case degli antichi abitanti, le colonne dei templi ormai distrutti dal tempo, gli altari per innalzare lodi e sacrifici agli dei. Attraversammo, saltellando qua e là tra le pietre e le colonne, quella che sembrava la piazza principale e ci dirigemmo verso la parte più alta.
"Andiamo a casa di Sara", disse Nino che si mostrava sicuro di quel che faceva.
"Perché a casa di Sara? Chi è questa Sara?", gli chiesi con curiosità.
"Era una bella ragazza trovata morta anni addietro in quella grotta. Io la chiamo la casa di Sara. Vedi quei gradini? Sono quattordici e portano all’interno di quella casa. Se non hai paura, andiamo!".
Giunti ai piedi della piccola gradinata, intagliata nella roccia, cominciammo a salire lentamente, attenti a non scivolare per via dei gradini un po’ rovinati dalla pioggia. Nino avanti a me, accese la piccola torcia per fare luce una volta all’interno. Confesso che il cuore mi batteva forte, e che mai da solo mi sarei addentrato, per giunta di notte, in quella grotta. Cominciai a contare i gradini. Cinque, sei, sette. Abituato a saltellare come un grillo, adesso mi sentivo le gambe pesanti ed il cuore in gola. Mi sentivo come un ladro che, agendo nel buio della notte, stava per violare la casa degli antichi Greci e quella della povera Sara di cui mi parlava
Nino. Nino illuminò l’imboccatura della grotta.
"Va tutto bene, disse, attento al prossimo gradino rovinato del tutto".
Io continuavo a contare. Dieci, undici…
"Fermi dove siete, non muovetevi!", tuonò una voce tenebrosa dall’alto, intanto che un’ombra imponente e minacciosa compariva alla sommità della scaletta.
Illuminato dal basso verso l’alto dalla torcia di Nino sembrava un mostro, un fantasma, un vampiro, non saprei come descriverlo. Al panico subentrò il terrore.
"Via, scappiamo!", urlò Nino che a stento riuscì a liberarsi dalla presa del fantasma che aveva allungato una grossa mano.
Mi girai di scatto, e via per la scalinata. Sentivo Nino dietro le spalle che mi spingeva e m’incitava a fare in fretta. In pochi secondi fummo ai piedi della scaletta, dopo un salto dagli ultimi tre gradini. Corremmo con tutta la forza che avevamo in direzione del piazzale, alla ricerca del sentiero che portava verso la robba della salvezza.
"Se vi prendo! Ah! Se vi prendo!", continuava ad urlare quel fantasma spuntato improvvisamente dalla casa di Sara.
Nel trambusto della discesa dalla scalinata, Nino aveva perso la torcia che oramai non ci sarebbe più servita. Corremmo per un po’, temendo d’essere inseguiti, ma quando capimmo ch’eravamo soli e che nessuna ombra ci stava alle calcagna, ci fermammo a respirare a pieni polmoni.
"Tu ci credi ai fantasmi?", mormorai a Nino che respirava ancora con affanno.
"Ma che fantasmi! Quello sicuramente è un tombarolo che, vistosi scoperto, ci ha messo in fuga. Se scopro chi è gliela faccio pagare!", mi rispose
Nino, sicuro e convinto del brutto scherzo che ci aveva giocato quell’intruso che, disturbato nella sua azione truffaldina, s’era nascosto in quella grotta ritenuta sicura. E noi proprio lì dovevamo capitare?
"Venendo qui zi’ Vicìanzu ha scoperto un certo Buffetta che scavava una buca, e si è messo a correre verso Sutera. Non sarà lui ad essere tornato nella grotta dopo un lungo giro?".
"Può darsi, ma non credo sia lui, altrimenti me ne sarei accorto. Qui ci conosciamo tutti, quindi penso che sia un disgraziato venuto da fuori", fu la conclusione di
Nino.
Ripreso fiato, con calma proseguimmo verso casa, dove giungemmo in circa mezzora. Nino andò a riposare coi suoi, mentre io raggiunsi il mio letto di paglia, sotto le stelle. La timida luna era ormai
tramontata.
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Un sogno ad occhi aperti
Data la stanchezza accumulata in un giorno di cammino e le recenti emozioni vissute nella casa di Sara, non riuscivo a prendere sonno sdraiato su quella bisaccia a forma di letto che, per quanto ruvido e pieno di gibbosità sembrava di piume. Il silenzio finalmente regnava sovrano. Solo il
runfuliari di zi’ Ciuzzu a tratti echeggiava con ritmo affannoso, e zi’ Vicìanzu lo sgridava strattonandolo: "Ciù, chiùi ssà vucca e ssà nasca! Mi pari un carcarazzu". Zi’ Ciuzzu,
arrisintutu per essere stato svegliato in modo così poco cristiano, interrompeva l’emissione di quel monotono e fastidioso rumore per ricominciare dopo qualche minuto con più affanno e vigore di prima.
Sopra la mia testa splendeva un mare di stelle, ancora più belle e luccicanti di quelle osservate la notte precedente in paese. Adesso sì che si potevano distinguere le costellazioni tanto osannate da Francischella! Carro grande e carro piccolo sembravano tenersi per mano, Cassiopea sembrava descrivere una W di evviva! brillante come quella che appariva nei fuochi d’artificio in onore della Madonna del Rosario, la corona boreale a forma di mezzaluna, Arturo, le Pleiadi, Orione. Veloci saette, una, due stelle cadenti solcarono il cielo. Era l’ora di sognare e di vagare in quei cieli infiniti. Pensai alla giornata appena trascorsa, ricordai le emozioni degli spari alle povere pernici finite nel carniere, a quella casetta immersa nel silenzio e lontana da ogni rumore paesano. Qui la vita sembrava assumere aspetti e dimensioni diverse, quasi surreali, rispetto al paese ed alla città. Il ritmo della vita, ineluttabile come in ogni altra parte della terra, prendeva cadenze lente e monotone, quasi arcaiche, perpetuando operazioni e gesti della gente che aveva abitato quei siti nei millenni passati. L’aratura della terra, la semina, il raccolto, la trebbiatura del grano, elemento primo per il loro sostentamento, e tutte le altre fasi regolate dal cielo e dalle stelle. Pioggia e vento costringevano quei contadini a starsene rintanati tra i muri domestici, ed allora era occasione per ripulire gli attrezzi, intessere ceste e panieri di vimini, filare il cotone coltivato nella piccola pianura ricca d’acqua. Ma appena il sole, facendo capolino tra le nubi diradate, inondava le piccole colline luccicanti di gesso, scoppiava la festa sopita da qualche giorno riempiendo di vita e di gioia ogni gesto quotidiano. Zi’ Pietro correva sui campi a controllare l’orto o la vigna, za’ Carmela stendeva il bucato o metteva i pomodori su una tavola ad asciugare, Nino spensierato scorrazzava per i prati rincorrendo farfalle e lucertole.
Ed intanto che la bella Pina, come da tradizione, aiutava la mamma nelle faccende domestiche, con un po’ di malinconia sognava un amore che solo il cielo e le stelle avrebbero potuto calare dall’alto, come in una tragedia greca. E non erano forse sicane e greche le sue ascendenze, vecchie di quattromila anni, insediatesi sulle dolci pendici di quella collina di Raffi, degradanti verso il fiume Salito, in una meravigliosa vista delle valli circostanti? Quante grotte, quanta ceramica, quanti sarcofagi formano documenti incancellabili della penetrazione dei Greci, amanti del bello e delle forme leggiadre che scaturiscono dai reperti venuti alla luce casualmente in seguito all’aratura della terra!
Vedevo la dolce Pina, ornata dai monili elaborati dalle sapienti mani d’artista dei suoi tempi, inquadrarsi benissimo in una di quelle case del tessuto urbano, venuto alla luce alle spalle della modesta casetta in cui eravamo ospiti. Oppure, il collo adornato da collane fiorite, offrire incenso a
Demetra, dea della fertilità dei campi, sull’altare rettangolare nella balza del pianoro che ospitava il santuario e la basilica
absidata. O, con in testa una brocca d’acqua in equilibrio instabile, salire ancheggiando con leggiadria i quattordici gradini di quella scaletta a chiocciola incassata nella roccia gessosa, che portavano al suo astraco ed alla sua stanza nuziale. Con un volo pindarico ed un po’ di fantasia, la immaginavo incastonata in un mondo in cui la vita scorreva leggera tra le faccende domestiche, tra offerte d’incenso e fiori alle dee ed agli dei, sovrani e padroni della vita, tra battute di caccia sui pianori e sugli acrocori di quella fantastica terra. Adesso, erede di una civiltà senza pari, quella gente se ne stava lì a perpetuare, con movenze e fattezze diverse, la pesante eredità lasciata dai loro avi.
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Il paese in rassegna
Era ora di dormire, ma non riuscivo a prendere sonno. Mi giravo e rigiravo, attento a non fare scricchiolare la paglia sotto la bisaccia, per non mettere a dura prova la suscettibilità di zi’ Ciuzzu e di zi’ Vicìanzu che finalmente erano caduti in un sonno profondo. Anche papà s’era addormentato in atteggiamento di protendere una mano verso la
panara col furetto, quasi volesse proteggere il prezioso contenuto in fondo ad essa. Il mio pensiero corse alla sera precedente, quando mamma mi aveva mandato in giro a fare delle compere. Avevo notato uno strano pomeriggio, in quel paese sempre pieno di gente in continuo andirivieni da una porta all’altra, dal macellaio al fruttivendolo, alla piazza. Poca gente in giro, e la voce di due altoparlanti che recitavano slogan in continuazione e cantavano inni come: "Bandiera rossa" e "O bianco fiore". Parlavano di elezioni imminenti, e gli animi sembravano più scaldati del solito. Nel dormiveglia, intanto che contavo le stelle in cielo, rifeci mentalmente il giro del paese, e quanto avevo visto, che adesso ricordavo alla perfezione, mi passava dinanzi agli occhi come in un film.
La grande piazza
Nella grande piazza del paese regnava una strana ed inopinata quiete, mai vista da quando, pochi mesi prima, la sua terra giallastra, sempre piena di pozzanghere nei mesi invernali e di polvere che, nei mesi estivi, rendeva l'aria irrespirabile, era stata ricoperta di grigie mattonelle, lisce e lucenti. Scaldate dai raggi del sole, emettevano strani vapori, come le sabbie del deserto che, saturando l'aria circostante, producono l'effetto del miraggio. E sì che quella terra e quella piazza, in modo particolare, avevano bisogno di miraggi! La piazza aveva acquistato certamente in bellezza e comodità, soprattutto per gli amanti del passeggio. Questi adesso non si stancavano d'andare avanti e indietro, da un capo all'altro, strisciando i tacchi e le punte delle scarpe, rivestite dalla mezzaluna di metallo per aumentarne la durata. Ma tanti si ostinavano ancora a decantarne la primitiva bellezza, quasi selvaggia, andata irrimediabilmente persa dopo l'espianto delle belle acacie che la circondavano e che, soprattutto d'estate, proiettavano un'ombra miracolosa e salutare. Allora, tra i vari crocchi di perditempo s'accendevano animate discussioni sul nuovo arredo urbano voluto dal
potente del paese, sul numero esatto di mattonelle posate, sui poveri vecchi alberi distrutti, sui numerosi passeri che erano dovuti migrare nel vicino pino secolare di Manazza che adesso si ritrovava, unico grande albero del paese, a dovere ospitare tanti piccoli volatili, vocianti dalla mattina alla sera.
Anche le vie principali del paese erano state lastricate con quadrate
balate di pietra lavica, che tutti ormai chiamavano "pietre di Catania", nere come l'inchiostro e più dure e resistenti dei muscoli di Chiochiò, un omone capace di sollevare e portare sulla schiena sacchi di cento chili e passa. Adesso, l'acqua che "calava dalle serre" in caso di pioggia non si fermava più in pozzanghere fastidiose davanti gli usci delle case, ma correva a
vaddùni verso la parte bassa del paese, portando via ogni rifiuto e sudiciume che incontrava nella sua vorticosa discesa.
Il piccolo paese aveva quasi cambiato fisionomia dopo questi ritocchi urbani, ed erano mutati i rumori caratteristici di una volta. Adesso s'udiva a distanza lo scalpitio dei cavalli su quelle pietre vulcaniche, e lo scintillio che il ferro degli zoccoli produceva al contatto con la lava nel buio della notte assomigliava a mille e mille piccole lucciole che, impazienti di prendere sonno, si dimenavano senza pace, saltellando senza sosta; come le pulci che infestavano il grosso cane del cacciatore Nardazzu che, con quell'occhio leggermente offeso, semichiuso ed un po' asimmetrico rispetto all'altro, assomigliava ad una di quelle maschere da tragedia greca che calcavano le scene del teatro di Siracusa. Ma erano i ragazzini, abituati a scorrazzare per le vie coperte di terra e polvere, a non essere contenti di questa nuova trovata del sindaco; essi infatti, dopo quell’evento, s'erano spostati in piazza per i loro giuochi, sicuri che una caduta non avrebbe procurato le escoriazioni che inevitabilmente producevano quelle ruvide e dure lastre di lava.
Il tempo non prometteva nulla di buono, in quel tardo pomeriggio. Il cielo s'era improvvisamente ricoperto di nuvole nere: a giudicare dai commenti del barbiere che, davanti al suo negozio nel bel mezzo della piazza, si affrettava ad insaponare uno dei suoi assidui clienti, di lì a poco avrebbero scatenato uno dei soliti temporali, di breve durata ma violenti, al punto da terrorizzare quanti temevano le accecanti saette che attraversavano il cielo, e che in più di un'occasione avevano scoperchiato alcune case, ferito più d'una persona ed ucciso capi di bestiame. Com’era capitato, qualche tempo prima, al povero Pietro Pace, colpito ad un piede da un fulmine mentre si riparava dalla pioggia sotto un albero. Il caldo del pomeriggio, infatti, a causa dell'umidità, s'era trasformato in afa insopportabile per gli abitanti, abituati ad un'alta temperatura, ma secca e poco fastidiosa. Il temporale in arrivo, se non altro, avrebbe rinfrescato l'aria e spazzato via un po’ di polvere dalle strade.
Il barbiere
Il barbiere, zi’ Birtinu, era uno dei più assidui lavoratori del paese; difficilmente si sarebbe assentato dal suo negozio, se non per qualche veloce commissione, come andare a ritirare i giornali in arrivo dalla Provincia con la corriera, o fare un salto al forno per ritirare il pane. In ogni caso a farne le veci ed a servire i clienti, pazientemente in attesa e spesso sonnecchianti per la stanchezza dovuta al duro lavoro nei campi, sarebbe rimasto un suo fratello coadiuvato da un solerte aiutante. Aveva perpetuato il mestiere degli avi ed era, come i barbieri d'una volta, capace di mille mestieri come il dermatologo o il cavadenti, conosciuto e stimato in tutto il circondario.
Il figlio Peppino raccontava spesso episodi, a volte tragici od esilaranti, che inevitabilmente avevano fatto parte del panorama dei rischi di quella "terribile" professione, dati gli esigui mezzi a disposizione. Il padre
Birtinu, una notte, durante un violento temporale, fu svegliato da un contadino proveniente da una lontana campagna a dorso di mulo, intabarrato in un nero mantello, ed inzuppato di pioggia all’inverosimile. Il poverino urlava come un lupo mannaro, e lo implorava a procedere all'estrazione immediata di quel maledetto dente che lo stava facendo impazzire di dolore. Armatosi di santa pazienza e svegliati due suoi amici, si recarono nel laboratorio sito nella piazza del paese, sotto un violento scroscio di pioggia attraverso stradine semi buie. Fatto accomodare il povero paziente sulla poltrona normalmente utilizzata dagli avventori per il taglio dei capelli, fu immobilizzato dai due amici intanto che il "mastro" provvedeva ad anestetizzare con semplice alcool la parte dolorante nel tentativo di procurare un po’ d’insensibilità contro l’inevitabile dolore. Afferrati i ferri del mestiere, uno strano strumento adunco che avrebbe potuto fare bella mostra in qualche museo di tortura medievale, l’introdusse nella bocca del paziente dopo una concitata discussione alla ricerca del dente dolorante: "E’ questo, no è quello accanto, no è l’altro a sinistra". A lume di candela, procedette quindi con decisione alla difficile estrazione di quel malefico dente che non voleva saperne di venire via, tra urla ed imprecazioni di dolore del poveraccio. Ma le urla e le imprecazioni di dolore del disgraziato contadino aumentarono a dismisura, al punto da fare accorrere i vicini svegliati in pieno sonno, quando s'accorse che al posto del dente malato gli era stato cavato un dente sano!
E neppure mancava di fantasia. Allevava, infatti, un certo numero di sanguisughe recuperate nell'abbeveratoio del paese e che teneva ben in mostra dentro un vaso di vetro. A chi gli chiedeva cosa fossero quelle bestiacce nere, dall'aspetto ripugnante, che si ostinava a conservare dentro quella
burnìa di vetro, spiegava che gli servivano per eseguire delicati interventi, per salassare un ammalato di edema polmonare o che avesse preso un colpo di calore. Allora entrava nei particolari, spiegava come si muovevano sulla pelle dei pazienti, e che avevano due ventose per attaccarsi al loro ospite e succhiare il sangue con le mascelle di cui era dotata la bocca. Succhiavano sangue e gonfiavano, succhiavano sangue infetto e gonfiavano fino quasi a scoppiare; finché, giunto il momento d'interrompere l'operazione, venivano staccate a forza dalla schiena dell'ammalato, tra urla ed imprecazioni di dolore di quest’ultimo. A questo punto l'interlocutore, che con un senso di ribrezzo se le vedeva attaccate al petto o alla schiena, disgustato, lo pregava di cambiare discorso.
Il salone di zi' Birtinu era il salotto del paese. Lì, infatti, arrivavano le poche copie del Giornale di Sicilia, e chi non aveva voglia di comprarlo, perché magari era alla ricerca di una notizia particolare o voleva semplicemente curiosare, ne chiedeva una copia in prestito, la sfogliava alla ricerca della nuova, e quindi la restituiva piegata così come l'aveva ricevuta: pronta naturalmente per essere venduta o ridata in prestito a qualche altro avventore. Cosicché le copie effettivamente vendute si potevano contare con le dita di una sola mano. Ed intanto che insaponava, tagliava capelli o immergeva la testa del cliente, tutto riverso all'indietro, dentro un catino colmo d'acqua, sentiva le chiacchiere più disparate, si erudiva su semine e raccolti, ascoltava con attenzione le ultime novità in fatto di comizi della campagna elettorale in corso.
"Mihh!, diceva Turiddu Papaluni, domani arriva l'onorevole Volpe dalla Provincia, e gliela farà vedere brutta a tutti quei
comunistazzi amici dei russi. Già una prima volta abbiamo vinto le elezioni, e sicuramente vinceremo ancora stavolta. Vero, zi' Birtì?".
"Vero un corno!", gli rispondeva Ustinuzzu che nel frattempo era entrato silenziosamente in punta di piedi, e silenzioso era rimasto seduto sulla panca, come suo solito, e che Turiddu, sotto il rasoio di zi'
Birtinu, non s'era accorto del suo arrivo. "Per noi parlerà l'onorevole
Colajanni, e vedrete che fine farà il vostro dottorino onorevole separatista della prima ora, che s'è poi vestito di
biancofiore. E non costringetemi a parlare perché oggi non voglio dire altro. O volete che vi parli di mafia, di Torretta, di Tanu ed altro".
"In Russia dovrebbero mandarvi a lavorare, visto che siete così affezionati a quei rossi mangiacristiani".
"I rossi, mangiacristiani? Se non fosse stato per quei rossi che disprezzate tanto, saremmo ancora sotto le grinfie dei vostri amici fascisti!", gli rispondeva Ustinuzzu che a questo punto tirava in ballo la legge truffa di De
Gasperi, mentre il primo gli rispondeva per le rime, elencando i misfatti di Stalin.
E così le chiacchiere continuavano, le discussioni si animavano e spesso degeneravano in violenti alterchi. Ci voleva tutta la flemma ed il buonsenso di zi' Birtinu per riportare la calma nel locale, magari donando in omaggio ai contendenti un profumato calendario dal fiocchetto di seta rossa, con le immagini di opere classiche come Traviata o Nabucco, poiché manteneva inalterata una certa cultura di antiche tradizioni. Al contrario dei suoi colleghi che, magari praticando tagli moderni e sentendosi al passo coi tempi, omaggiavano calendari pieni di donnette provocanti e scandalose, che sotto una mutandina di pizzo colorato lasciavano intravedere le parti erotiche e mandavano in ebollizione il sangue di quanti con cupidigia e voluttà penetravano quell'immagine.
"Sapete come si dice da queste parti? "Chiàcchiri e tabaccheri di
lignu, lu Munti di Pietà nun ni piglia in pignu!". Quindi piuttosto che litigare, datevi da fare per pagare la tariffa annuale che mi dovete!", li ammoniva zi' Birtinu che teneva a mente tutta la sua contabilità. Quelli rispondevano che avrebbero già provveduto se non fosse stato per la brutta annata, e che avrebbe dovuto attendere ancora il nuovo raccolto per quel benedetto tumulo di frumento. Un tumulo di frumento, infatti, era sufficiente per pagare i servizi del barbiere per tutti i componenti maschi della famiglia: per l'intero anno solare, naturalmente!
L’Ave Maria
I rintocchi dell'Ave Maria erano risuonati da un pezzo, ed i contadini, tornati dalla campagna, erano già tra i muri domestici a rifocillarsi dopo una lunga ed estenuante giornata di lavoro nei campi. Anche gli artigiani avevano chiuso la loro bottega, e, contrariamente alle loro abitudini, avevano tirato dentro casa banchetti ed attrezzi prima del solito. Neppure le stradine del paese risuonavano del vocio delle comari, né i soliti venditori reclamizzavano i loro miseri prodotti esposti davanti l'uscio di casa, sopra una vecchia sedia sfilacciata, che non veniva impagliata da chissà quanti anni. Cocomeri e melanzane, pomodori, cucuzzeddi, e ortaggi in genere, che davano un po’ di colore a quelle stradine e stuzzicavano le narici dei passanti, contribuivano ad alleviare il misero bilancio di chi possedeva un orto in una contrada, resa meno arida da una piccola sorgente o dalla vicinanza del fiume.
Quanti non avevano la fortuna di possedere un pezzo di terra, sia pur misero, s'industriavano a raccogliere erbe ed aromi, come salvia, rosmarino ed origano che abbondavano nelle aride
serre intorno al paese, normalmente mete di cacciatori. Legati a piccoli mazzi pendevano intorno all'uscio di casa, appesi ad un chiodo, in attesa di un acquirente.
L’orologio
In un cortile vicino la Chiesa si svolgeva una scena che, come una cerimonia religiosa programmata ad un orario fisso, non era mai stata né anticipata né postergata nel corso degli anni. Mastro Federico era sempre puntuale a salire sul campanile della Chiesa, per tirare su le
mazzare dell’orologio e dare così la carica a quello strumento delicato ed importante allo stesso tempo per la comunità del paese. Alle cinque della sera saliva i numerosi gradini che portavano sulla piccola torre, e dopo mezz’ora faceva capolino nel cortile per incontrarsi con Caliddu, anche lui puntuale e preciso come il fratello, pronti ad iniziare una pratica vitale per un povero somaro rinchiuso in un piccolo locale. Erano affezionati a quella povera bestia, ed erano ricambiati con un sonoro raglio non appena i due si avvicinavano a passi felpati alla porta per infilare la grossa chiave e tirare fuori il piccolo asino. Quella era l’ora per somministrare il pasto della giornata e fare prendere una boccata d’aria a quell’animale trattato quasi fosse un attrezzo della loro officina. Solo di tanto in tanto infatti lo utilizzavano per andare in campagna per trasportare un po’ di legna od un paniere di pere.
La scena esilarante si svolgeva nel chiuso del cortile, ma spesso i vicini di casa da dietro le imposte socchiuse godevano e ridevano. L’asinello, tirato fuori della stalla, veniva legato all’anello piantato nel muro. Dopo essere stato strigliato ed accarezzato, mastro Federico tirava fuori della tasca del gilet una manciata di fave, rigorosamente dieci e non più, che poneva nel palmo della mano. Il somaro s’avvicinava e cominciava il lauto pasto. Quindi era la volta di Caliddu, che con rigorosa sequenza ripeteva i gesti del fratello. In tutto venti fave e non più per evitare fastidiose indigestioni a quell’animale, da tutti definito come "il somaro dell’Apocalisse". L’accostamento poteva sembrare sacrilego, perché quello era un cavallo, ma la similitudine andava bene lo stesso. Era così magro e malandato che a stento riusciva a recarsi nelle contrade prossime al paese, e spesso dovevano aiutarlo e sospingerlo nell’attraversamento di qualche ripida trazzera. La domenica e le feste comandate, però, erano giorni di festa anche per il povero
somaro: la razione di fave raddoppiava!
Il venditore di latte
Una scena inusuale, data l'ora, si stava svolgendo davanti l'uscio di comare Concetta. Inusuale soltanto per l'ora e non per il contenuto che, in verità, come una rappresentazione teatrale, avveniva regolarmente tutte le mattine. Attori principali erano il capraio "lu
Dispratu", sordomuto dalla nascita, e le sue clienti alle quali forniva il latte delle sue capre. Il nomignolo la diceva lunga, avendo generato ben ventiquattro figli, alcuni morti, altri sordi e muti. Lu
Dispratu, sicuramente più furbo che muto e sordo, faceva il giro del paese con alcune caprette, ed accovacciato sul selciato davanti l'uscio di casa, piegato su una gamba, mungeva il loro latte direttamente dentro le scodelle che le acquirenti gli fornivano al momento, valutandone ad occhio la quantità. Scodelle dalle fogge più strane, come
picchiu, tegame o pentola, ma dalla capienza ben conosciuta dai proprietari che pretendevano di ricevere la quantità di latte pagato. Lu
Dispratu, afferrate le tette della sua bestia, cominciava a mungere con forza il latte dentro la scodella facendo montare una schiuma così alta da sopravanzare la tacca ideale della quantità di latte richiesta e pagata, ma in buona sostanza sicuramente inferiore a quella pattuita. A questo punto iniziavano le lamentele di comare Concetta, spalleggiata dalla vicina di casa che da lì a poco sarebbe stata la prossima acquirente. Tra gesti incomprensibili e mugugni, il capraio voleva fare capire che la quantità era quella giusta e che la schiuma era un di più oltre la misura pattuita. Iniziava quindi una piccola lite, a suon di rimbrotti e taglienti battute, sedata soltanto, dopo batti e ribatti, da un paio di ulteriori spruzzi di latte sulla schiuma che stava velocemente scemando e che presto avrebbe messo in evidenza che il latte munto si trovava sotto la tacca della giusta misura. La piccola aggiunta lasciava soddisfatta la comare e visibilmente amareggiato il capraio: in cuor suo, però, contento d'essere riuscito, con quell'ultima spruzzata, a gabbare ugualmente l'acquirente.
Questa era la norma, ma spesso accadeva l'imprevisto ad infiammare gli animi, come in quello strano pomeriggio. Durante la mungitura del latte, la capretta stressata ed eccitata dall'armeggiare delle mani poco delicate del capraio sulle sue tette gonfie a dismisura, lasciava cadere nella scodella i suoi escrementi, un grappolo di palline nere, che si depositavano velocemente sul fondo. Il capraio lo sapeva benissimo che poteva succedere e quindi stava in allerta, pronto a spostare la scodella per l'evenienza. Quella volta però, distratto da un venditore ambulante, gli era andata male, e comare Concetta, alla quale non sfuggiva una virgola di tutta quella complicata operazione, giustamente pretendeva che quel latte, condito con le palline nere della capra, andasse buttato per strada ed iniziasse una nuova mungitura dopo avere ripulito la scodella.
"I ceci li cucino con l'acqua e quando voglio io!", urlava in faccia al capraio che, per tutta risposta, con abile gesto della mano, aveva fatto sparire dalla scodella quelle palline nere e pretendeva così d'avere sistemato ogni cosa. La comare rifiutava quel latte, mentre il capraio gesticolava per dire: "E chi
minna, cummari Cuncè! Tutti ssì storii pi quattru cicirìaddi nìuri!". Quindi, per tutta risposta, s'era alzato dalla scomoda posizione ed afferrata per le corna la sua capra, faceva cenno d'andarsene bofonchiando qualcosa d'incomprensibile quando, comare Concetta, rossa di rabbia, afferrata la scodella piena di latte la vuotò, con quanta forza aveva in corpo, addosso al capraio che si ritrovò
assuppàtu di latte dalla testa ai piedi, mentre una di quelle palline nere gli restava appiccicata alla barba non rasata da qualche giorno.
"Mangiatele le tue palline nere!", urlò comare Concetta, mentre la vicina di casa sbottò a ridere per il neo comparso in faccia al capraio, e che lo faceva assomigliare ad un buffo personaggio da fumetto. Avesse questi avuto il dono della parola, tutto il quartiere avrebbe sentito il suo urlo che si tramutò invece in un grugnito bestiale, necessariamente sincopato; rosso di rabbia per l'affronto, afferrò comare Concetta per le spalle e la sollevò per aria tre volte prima di lasciarla cadere a terra. Quindi, soddisfatto per la lezione impartita, fece un eloquente gesto, incrociando gli indici delle mani a forma di croce, per significare che la comare non avrebbe più avuto il suo latte. Afferrata la sua capretta per le corna, sparì nel vicolo adiacente, piantando in asso la vicina di casa che, con la scodella in mano, aspettava il suo turno.
Il macellaio
Il macellaio La Vampa, che tutte le sere invitava i paesani all'acquisto del
sangunazzu callu, sembrava ammutolito; solo una luce fioca fuoriusciva dalla porta appena socchiusa del suo negozio, normalmente frequentato da tanti avventori che, nel loro andirivieni, facevano sobbalzare e tintinnare i molti fili metallici che, come una zanzariera, pendevano dall'alto dello stipite per impedire l'ingresso alle mosche. Per entrare od uscire, ogni avventore doveva aprirsi un varco, quasi a mani giunte, per non restare impigliato in quei fili spesso taglienti: finalmente entrava, e con lui il nugolo di mosche che, quasi stessero in agguato, si portava appresso, e che, attratte dall'odore della carne esposta dietro il bancone, andavano ad ingrossare lo sciame delle loro compagne che freneticamente saltellavano dalla trippa, al cosciotto di maiale, alla salsiccia. Un ronzio assordante riempiva la piccola stanza, ed invano il macellaio, di tanto in tanto, si ostinava a scacciare quei fastidiosi animaletti, neri e petulanti, con uno straccio sporco di sangue ed arrotolato alla bisogna; quelli schizzavano via, giravano per il locale, quindi in picchiata tornavano al loro pasto con più accanimento di prima.
"Calù!", lo esortava di tanto in tanto la moglie disperata, "prendi il flit ed ammazza quelle maledette mosche che stanno divorando tutta la nostra carne!".
Il macellaio allora, sempre più stizzito ed avvilito, apriva un armadio e, impugnato quell'attrezzo a forma di pompa da bicicletta con all'estremità un piccolo cilindro pieno d'insetticida, quasi volesse mitragliare un esercito di tedeschi, cominciava a pompare con sempre più forza e velocità, fino a diventare paonazzo, riempiendo la stanza di una nuvola di DDT che immediatamente si depositava sui mobili, sulla carne e sulle persone con effetti devastanti.
"Minna, Calù, talìa comu càdunu!", gridava raggiante di gioia, per come quelle bestie fastidiose cadevano a grappolo, sul bancone, sul pavimento e sulla carne, naturalmente.
Ma col passare del tempo, quasi si fossero abituate a quella medicina che per loro doveva essere velenosa ma che oramai sembrava miele di
"sudda", non solo non cadevano stecchite come prima, ma diventavano sempre più noiose e petulanti. Erano poche invece le mosche che cadevano nella trappola delle carte moschicide, lunghe strisce di carta marrone a forma elicoidale, imbevute di sostanze per attirarle, come zucchero e miele, e che pendevano dal tetto; toccata la carta, queste vi restavano attaccate per sempre. Col passare dei giorni, quella carta pendula, piccolo museo di cadaveri imbalsamati, che qualcuno faceva rassomigliare agli scheletri esposti nelle catacombe dei Cappuccini di Palermo, diventava sempre più nera, prima d'essere sostituita con un'altra destinata ad annerirsi in fretta.
I giuochi
In quell'atmosfera quasi surreale che avvolgeva il paese, pochi erano i segni di vita persino nella grande piazza. Alcuni bambini giocavano alla
marrèdda, saltellando dentro alcuni piccoli quadrati numerati che avevano disegnato sulle piastrelle con un gessetto bianco, sottratto furtivamente dalla loro aula. Erano forse i soli che, nella loro innocenza, non potevano avvertire i presagi di un'imminente resa dei conti. Avrebbero però sicuramente dovuto vedersela, l'indomani, col bidello don Annibale, alla cui contabilità non sarebbe sfuggito neanche quel piccolo e innocente furterello.
Altri giocavano a spirlicchiu lanciando pezzi di legno il più lontano possibile, altri scambiavano figurine o lanciavano monetine contro un muro: vinceva chi si avvicinava di più alla parete.
Un gruppo di ragazzi sulla quindicina stava assediando, nella piazzetta antistante il pino di Manazza, un grosso camion il cui autista era intento a scaricare le bombole di gas. Decine e decine di bombole accatastate le une sulle altre, separate tra loro da due robusti elastici, a guarnizione della grossa pancia, per non farle sbattere durante il trasporto. L'oggetto del contendere erano proprio quegli elastici adatti a costruire robuste fionde, chiamate
filecce, con le quali dare la caccia ai passeri, lanciando proiettili a notevole distanza.
Dei ragazzi, invece, approfittando del nuovo arredo della piazza, si divertivano a scivolare avanti e indietro su certi attrezzi che chiamavano
carrùazzu, una specie di minuscola macchina formata da una piattaforma sostenuta da tre o quattro grossi cuscinetti a sfera, con un piccolo sedile ed uno sterzo. E mentre uno sedeva al posto di guida, un altro spingeva fino a diventare paonazzo finché, impressa una certa velocità alla macchina, saltava sul predellino ed insieme si lasciavano trasportare per centinaia e centinaia di metri, inebriati da quella folle corsa, a volte per alcuni chilometri lungo la ripida discesa che portava al
ponte grande sul fiume Gallodoro.
Poco distante risuonavano le note stridule che uscivano dallo zufolo di compare Francischella. Questi era da poco tornato dalla contrada Lavatore con un mazzo di canne e, seduto all'angolo della piazza, si stava industriando ad accordare alcuni strumenti, lavorati ed intagliati con un affilato coltello, di cui faceva un piccolo commercio. Di tanto in tanto a quelle note stridule intervallava il suono grave e monotono del suo
marranzanu che, quasi fossero i rintocchi di una vecchia campana che annunciava un imminente funerale, rendeva bene l'idea dell'aria che si respirava.
"Gangalarruni e viulinu ti diverti a lu matinu", lo canzonò zi' Ciccu, il dotto ciabattino che, ritirato il giornale dal barbiere, s'affrettava verso casa.
"Ognunu sona lu sò strummentu, a vu' lu trincìattu vi renni cuntentu", gli rispose con prontezza ed arguzia compare Francischella che, raccattati i suoi attrezzi, al pari di zi' Ciccu si diresse verso casa, come pure i bambini che stavano giocando nei pressi.
Marasanta
Una figura altera stava attraversando la piazza. Era Marasanta che tornava dalla vicina fontana e portava sul capo, sopra una piccola
spara, una quartara piena d'acqua, in perfetto equilibrio, avanzando con le mani ai fianchi, quasi volesse dire: "Guardatemi come sono brava, si faccia avanti chi è capace di fare lo stesso!". Presa da questi pensieri, non si stupì nel vedere la piazza deserta, sicura che, come sempre succedeva, occhi indiscreti, celati da qualche persiana, la stessero osservando; perciò non affrettò i suoi passi, ma continuò per la sua strada con civetteria e con la calma serafica che la caratterizzava. Nel suo incedere si
annacava dolcemente, mantenendo il busto perfettamente eretto, simile ad una cariatide ateniese. Ad osservarla con attenzione sembrava una novella Pandora, e che in quell'arnese di creta dal sapore arabo, ben tappato e gelosamente custodito, vi fossero racchiusi tutti i malanni del mondo. Mali e malanni che invece, usciti da quella
quartara, circolavano liberamente, e s'annidavano nel profondo degli animi di tanta gente all'apparenza pia e rispettosa delle idee e della libertà dei propri simili.
Strani paesani
"Curri, Calù, curri cchiù forti!", gridava Carmela al marito che si affannava davanti alla moglie, nel tentativo di sfidare la legge di gravità. Aveva percorso appena pochi metri dall'uscio della sua abitazione, ma già grondava sudore da tutte le parti nel tentativo di raggiungere l'abitazione del medico prima della moglie. Questa, col figlioletto in braccio che urlava come una cagnetta alla quale è stata pestata una zampa, strepitava più del figlio, ora per incitare il marito a correre più velocemente, ora imprecando contro quella maledetta naca che ancora una volta aveva scaraventato a terra quel povero cristo d'un bambino.
"Chi fu, Carmè! Chi successi?", si mise a gridare la vicina che a stento tratteneva il riso nel vedere quella scena a dir poco buffa: il marito che si dimenava come un bufalo in un improbabile tentativo di corsa e la moglie, altrettanto grassa e tarchiata, che arrancava sbraitando come forsennata.
"La naca, Turì! La naca, fu! Curri, Calù, curri! Ancora tanticchia e murìa ddu mischinu!", urlava in risposta alla vicina di casa ed al marito per incitarlo ad accelerare il passo.
"E chi minna, Carmè! Ancora la naca! La corda avìti a canciàri!", rispondeva la comare Turìdda, che oramai a quella scena era abituata da tempo. Non passava settimana, infatti, che quella benedetta naca facesse precipitare il piccolo sul pavimento, ora perché si rompeva la corda, ora perché il fratellino, nel tentativo di dondolarlo, ma anche per gioco, strattonava la naca con tale veemenza da fare ribaltare quel rudimentale attrezzo sospeso a più di due metri in un angolo della piccola camera. A subirne le conseguenze era sempre il moccioso, vicino ai sette mesi, che si ritrovava pieno di lividi.
"No, Turì! Nun fu la corda: stavòta si ruppi lu chiùavu!", rispose Carmela che nel tentativo di zittire il figlio gli poggiò la mano sulla bocca, rischiando di soffocarlo.
Nel frattempo si erano affacciate le altre vicine di casa, la notizia della caduta dalla naca del figlio di Turìdda per colpa del chiodo era volata di bocca in bocca più veloce della corsa dei due che, girato l'angolo e sbucati sulla piazza, si ritrovarono il medico che andava loro incontro, pronto ad applicare l'ennesimo punto di sutura.
Sarravìddu
"Anninè, torna subito a casa perché passa Sarravìddu!", urlava una signora affacciata alla finestra.
La bimba che stava giocando con un amico, al solo nome di Sarravìddu lo lasciò in asso e corse ad infilarsi nel portone di casa. Sarravìddu, che era appena uscito dalla bettola di zì Carminu, la pancia gonfia di vino rosso e di quant'altro poteva offrire quella bottega, avanzava barcollando come un portatore di
vara nel venerdì santo. Si reggeva in piedi perché, le mani in avanti, giocava a rimpiattino coi muri dello stretto vicolo, sbattendo ora di qua ora di là. Finché, cozzando contro lo stipite di una porta, cadeva pesantemente a terra per il duro colpo ricevuto dall'imprevisto ostacolo. Rialzandosi a fatica ricominciava la dolorosa via crucis momentaneamente interrotta. Il ragazzino si divertiva a girargli intorno gridando:
"Sarravìddu, Sarravìddu, ca camìni comu un griddu; si fa un ragliu di
pudditru, ti rigalu nautru litru". Sarravìddu, sentendosi schernito dal moccioso del quale intravedeva soltanto l'ombra, gli si lanciava contro nel tentativo di afferrarlo; ma il piccolo lo schivava con destrezza e Sarravìddu rovinava nuovamente a terra, rotolando tra la polvere come una botte vuota. Il poco edificante giuoco finiva quando qualche massaia, mossa a compassione dopo avere sgridato inutilmente il moccioso, affacciandosi alla finestra, lanciava sul povero ubriaco un secchio d'acqua fredda per farlo rinsavire e consentirgli di tornare a casa. Ma Sarravìddu, fatto il giro della piazza, si ritrovava poco dopo sulla panca di zì Carminu con una
cannata di vino a fargli compagnia.
Pajaru
Persino Pajaru aveva chiuso le imposte del suo ufficio, che dava direttamente sulla piazza, dirimpetto al bar di zi' Michele. Quello era l'unico ufficio pubblico oltre al Comune e quindi di una certa importanza.
Pajaru, un personaggio tarchiato e paffutello, dall'aria un po' intrigante, era il responsabile della riscossione delle imposte
(I.G.E); tale imposta, entrata in vigore nel gennaio del '40, colpiva tutte le operazioni di scambio, ed era pagabile con l'acquisto di marche di valore adeguato. Ma in quel piccolo paese era più il frastuono che producevano i suoi timbri battuti e ribattuti sulle marche di poche lire applicate alla gran quantità di scartoffie, che le imposte che effettivamente riusciva a riscuotere. Nei momenti di silenzio, infatti, si capiva che i suoi grossi timbri a cadenza fissa battevano sul tampone dell'inchiostro e quindi due, tre, quattro volte sulle marche, e risuonavano per tutto il paese. Il commento di tanti era:
"Scrusciu assà e cubàita nenti", come dire tanto rumore per nulla!
Zi' Luigi il ciabattino
Per la piazza stava passando zi’ Luigi, di ritorno da un battesimo, con la sua brava truscia di biscotti. Sempre presente, a battesimi e matrimoni, invitato o no, ormai la sua presenza era diventata un'istituzione. Ciabattino per necessità di vita, era inchiodato su una sedia, poiché paralitico dalla nascita. Quello stato non gli impediva di andare in giro per il paese o magari prendere la corriera per la Provincia.
Vederlo "camminare" su quella sedia di legno, a quattro zampe, era uno spettacolo. Aiutandosi con un bastone, le povere gambe attorcigliate tra le sbarre, avanzava a saltelli facendo perno, a colpi di schiena, sulla gamba anteriore destra della sedia sollevando le altre tre e spingendole in avanti con una torsione verso destra. Quindi, poggiata a terra la gamba anteriore sinistra della sedia, sollevava le altre tre con una torsione a sinistra, e così via. Borbottando imprecazioni irripetibili, avanzava come un gambero tra la gente che ormai era abituata al modo d’incedere del singolare personaggio, sempre accompagnato dalla moglie che lo accudiva ed aiutava in tutte le sue necessità.
"Luvi'!", diceva Annina rivolta al marito seduto al suo banchetto da ciabattino ed intento a battere un pezzo di cuoio, "vedi di sistemare il paio di scarpe che ho poggiato su quella sedia: sono di Don Giovanni e quello, lo sai bene, è l'unico a pagare qualche soldo in contanti".
"Hai detto bene, Anninè, qualche soldo: perché in questo maledetto paese solo qualche soldo si riesce ad incassare, quando va bene", rispose Luigi battendo più forte su quell'attrezzo di ferro, sputandoci sopra con quanta forza gli restava in corpo per meglio ammorbidire il duro pezzo di cuoio, che non voleva saperne di farsi appiattire a dovere.
"Non lamentarti sempre Luvi'" gli rispondeva paziente la moglie, "vedrai che quanto prima le cose si sistemeranno e potrai avere quel posto che ti è stato promesso".
"Quel posto, eh! Sono anni che vediamo la fame nell’attesa di quel posto che non verrà mai. Credi che quel Don Calò non dorma la notte pensando al posto che mi ha promesso solo perché ho sistemato scarpe a tutta la sua famiglia, per anni, e per poche lire? Quello, il posto lo darà a chi gli ha fatto favori d'altro genere, altro che ad un povero ciabattino, comunista per giunta! Ed intanto andiamo avanti a mangiare i fogli di quella ‘libretta’ con le poche lire di credito che non riusciamo ad incassare?".
Quando s’infervorava, diventava rosso in faccia, gli si rizzavano i pochi capelli rimastigli ancora in testa, si sollevava facendo forza sulle braccia sul suo banchetto mezzo sgangherato con quanta forza gli restava in corpo e lanciava in aria uno sputo, il più in alto possibile.
"Per colpire chi so io" diceva. Sputo che lanciato in verticale spesso ricadeva sul banchetto con gli attrezzi ed allora la sua rabbia raddoppiava, e banchetto ed attrezzi rovinavano a terra.
"Calmati, Luvi'" andava ripetendo Annina costretta a mettere a posto gli attrezzi, "che ci guadagni a farti venire il nervoso?".
Allora Luigi, messo da parte quel pezzo di cuoio che aveva martoriato, per la rabbia, più del necessario, prendeva le scarpe di Don Giovanni e ne cominciava la riparazione.
Quella sera però Luigi se ne tornava a casa allegro ed euforico, come mai nessuno lo aveva visto prima. Finalmente, la sedia a rotelle promessa da tanto tempo era in arrivo. Dopo qualche anno cominciò a scorrazzare per le vie del paese con una sedia a motore, incutendo timore ai pedoni che al suo passaggio s'affrettavano a trovare riparo sul marciapiede!
'Nfilati a spitu
I due fratelli Spilunconi, che sembravano due Cristi
'nfilati a spitu, tant'erano lunghi e diritti come un fuso, non avevano tempo da perdere. Erano in azione sin dal primo mattino, poiché dovevano approfittare della stagione propizia se volevano far valere tutta la loro valentia in fatto di cernita di cereali. Chi possedeva frumento da setacciare, per pulirlo delle piccole impurità rimaste dopo la spagliatura grossolana fatta nell'aia e poterlo portare al mulino per la macina, non aveva che da chiamarli; e loro correvano fino in casa per espletare il loro mestiere.
Appeso il loro crivu dall'enorme circonferenza ad un grosso chiodo per mezzo di tre corde, o facendolo penzolare al centro di tre lunghi pali piantati a terra, era una vera attrazione vederli all'opera. Dopo avere versato un sacco di frumento, si sistemavano ai due lati opposti del setaccio e davano inizio al vorticoso carosello che faceva girare la testa ai curiosi che si soffermavano ad assistere a quel raro spettacolo. Facendo roteare l'enorme attrezzo ora a destra ora a manca, con inversioni repentine, facevano raccogliere al centro dell'attrezzo le eventuali impurità del frumento. Quindi fermandosi di botto eliminavano quanto estraneo al frumento e, con scatto sincronizzato, frutto d'anni d'esperienza, spingendo in alto il setaccio e ritraendolo da una parte, lasciavano cadere il frumento, ripulito da ogni impurità, su una coperta stesa per terra alla bisogna. E mentre un inserviente con un tumulo provvedeva a travasare in un sacco il frumento pulito, i due avevano già ripreso a roteare l'enorme setaccio per un nuovo giro.
Quasi tutti i terreni del circondario erano coltivati a mandorlo, e quanti avevano effettuato la raccolta di quei preziosi frutti erano all'opera per la loro pulitura. Le mandorle andavano
scrucchialati, pulite cioè della scorza esterna per poterle esporre al sole e farle asciugare. Intere famiglie, sedute davanti alla propria porta intorno ad un piccolo tavolo, picchiavano il frutto con delle piccole pietre o martelli, attenti a non schiacciarlo e farlo aprire completamente e a non schiacciarsi un dito! Era un lavoro lento e monotono, e quasi tutti i vicoli risuonavano di quel ritmato ticchettio caratteristico che indicava il buon andamento della stagione. L'arrivo degli attrezzi meccanici, nel giro di pochi anni fece sparire dai vicoli quel colorito spaccato di vita paesana. Che fine facevano le scorze? Venivano bruciate, e la loro cenere diventava un buon detersivo per mani e panni: la
scerba! Per celia s'usava dire ad uno: "Sei scerba di mìannula amara", come dire: sei un nulla, sei cenere e per giunta di mandorla amara!
Dottore e farmacista
L'unico negozio che ritardava la chiusura era la farmacia: sia perché doveva rispettare l'orario stabilito per legge, sia perché il dottor Nardu, il farmacista che sembrava squadrarti dall'alto in basso, aggrottando le ciglia per via dell'occhio sinistro appena offeso, ed il fratello Vito, medico condotto, nulla avevano da temere. I due fratelli, medico e farmacista, erano l'Istituzione del paese, a loro era delegata la salute delle persone di quella piccola comunità. E costituivano un sodalizio indissolubile dal momento che Vito visitava i pazienti e scriveva le ricette in base alla disponibilità dei farmaci di Nardu, mentre questi vendeva i farmaci ordinati dal fratello. Meglio di così! Erano, come suole dirsi,
"culo e camicia", rispettabili e rispettati e di una riservatezza incredibile. Giunto
con le pezze al sedere da un paese dell'agrigentino, della cui parlata conservava distintamente l'accento e la cadenza, benché alle prime armi, Vito non aveva trovato difficoltà ad inserirsi in quella realtà contadina, professando con bravura e discrezione quel mestiere che gli avrebbe dispensato soddisfazioni e gratificazioni oltre ogni misura.
Ma mentre Nardu era rimasto scapolo fino a tarda età, Vito aveva sposato una nobildonna della famiglia Guarino; il nuovo status nobiliare e la riservatezza innata avevano portato la famiglia ad isolarsi dal resto del paese, plebeo e contadino, ed a condurre una vita molto ritirata, in un'atmosfera ovattata di misteri e dicerie d'ogni sorta. E mentre medico e farmacista erano costretti, per la loro professione, a mostrarsi ed avere rapporti con la gente, anche se con tanto di distacco, la loro famiglia invece viveva esiliata nella bella casa di mattoni rossi ai bordi della piazza, protetta da un'inferriata; e invano i curiosi, nei loro interminabili passeggi, scrutavano finestre e persiane alla ricerca di un volto o di un segno di vita.
Misteriosa era la nobildonna, avvistata in rarissime occasioni a qualche mattutina funzione religiosa, imbellettata e protetta da una veletta di seta finemente ricamata; misterioso era il personaggio, l'avvocato don Peppino, zio della nobildonna, che tutto zucchero e miele, dal colore di un frutto di
martorana e simile ad una delicata statuina di porcellana cinese, ogni tanto compariva e scompariva alla vista dei curiosi come una visione eterea; ed altrettanto misteriose ed eteree erano le due giovani figlie. Invano i giovani (e meno giovani) studenti perditempo del paese si ostinavano alla ricerca dei loro bei volti osservati in eccezionali occasioni. Allora i loro occhi, sospinti ed aiutati da una sfrenata fantasia, varcavano gli interstizi di quelle persiane, perennemente abbassate, per indagare ed immaginare quanto succedeva all'interno ed alimentare interminabili discorsi nei lunghi e monotoni andirivieni da un capo all'altro della piazza. Questi a loro volta si sentivano indagati ed osservati, e si struggevano ed ansimavano all'idea di potersi trovare un giorno o l'altro al loro cospetto. Ma quelle, insensibili a quei silenziosi e struggenti richiami, e volutamente ignare di tanti voluttuosi desideri, varcavano la soglia di casa solo per infilarsi nella loro auto, una daufine grigia, e partire verso Palermo, per mostrarsi ad un mondo più consono alle aspettative di gente perbene, al quale evidentemente credevano d'appartenere.
Quei cinque gradini che le separavano dalla macchina erano il loro salvagente, un ombelico provvidenziale che le risucchiava da quella casa prigione e le depositava sui lidi della capitale, a contatto con gente di altra estrazione sociale.
Il circolo dei civili
Proprio sulla piazza, in una posizione di grande prestigio, ben riparate da un sopralzo e da una inferriata, si aprivano due grandi finestre fornite di persiane per meglio ovattare i locali da sguardi indiscreti. Era il locale dell'unica associazione del paese, il cosiddetto "Circolo dei civili". Era frequentato dalle persone più abbienti, come professionisti, commercianti, insegnanti, ben selezionate in base ad un codice mai scritto ed incomprensibile, poiché non era sufficiente pagare la quota annuale per potervi aderire; del resto il nomignolo che la gente aveva coniato risultava appropriato. Non erano ammessi estranei né minorenni, ma solo in via eccezionale alcuni bambini, parenti degli iscritti, per la sola durata del programma
Carosello, di cui andavano matti.
La sala interna, infatti, in cui era stato sistemato uno dei primi televisori giunti in paese, si riempiva di curiosi che osservavano a bocca aperta quei mini film simpatici ed accattivanti che finivano col reclamizzare un prodotto. I soci del circolo passavano il tempo parlando di politica, giocando a carte o semplicemente oziando sul piccolo terrazzo quando, a metà pomeriggio, il sole scompariva dietro le alte e vecchie scuole elementari e finalmente si poteva godere in santa pace un po' di frescura e refrigerio.
Seduti intorno ad un tavolo posto sul terrazzo, il Colonnello, arrogante e sempre in vena di prevaricazioni, che già incuteva timore solo a guardarlo per via del suo monocolo, ed il Cavaliere, stavano giocando a carte. Questi aveva appena puntato cinquecento lire sul tavolo, quando un antipatico quanto inopportuno alito di vento fece volare la moneta cartacea sul pavimento dove se ne stava, sdraiato ed annoiato, "Lilli", il bastardino del Colonnello. Il cagnetto bianco e peloso, sempre coccolato e vezzeggiato dal suo padrone, pensò bene d'ingoiare quel foglietto che, caduto dal cielo come una colorata farfalla, gli si era adagiato proprio davanti alla bocca. A nulla erano valse le rimostranze del Cavaliere che, avendo onorato la puntata, pretendeva, a ragione, che fosse il Colonnello a rispondere del danno subito in quanto padrone del cane. Questi invece sosteneva che non era responsabile del fatto perché non poteva essere vero quanto asserito dal Cavaliere, in quanto il suo cagnetto era aduso a mangiare ben altro che pezzi di carta colorata; in ogni caso era stato molto incauto a fare cadere dal tavolo la moneta, e se quella lurida cartaccia fosse veramente finita nel pancino del suo Lilli, sarebbe stato lui a rispondere dei danni arrecati al povero animale. La discussione era diventata molto animata, erano intervenuti gli amici dell'uno e dell'altro, e s'erano create due fazioni che giudicavano il fatto in modo diametralmente opposto. Batti e ribatti, la discussione s'era presto tramutata in una lite che sembrava non avere sbocco: il Cavaliere si sentiva offeso perché accusato di falso, il Colonnello non intendeva essere preso per i "fondelli".
I presenti che dovevano fare da pacieri, conoscendo bene i due personaggi, a parole sembrava volessero adoperarsi per chiarire l'accaduto, ma nei fatti fomentavano ed aizzavano i contendenti l'uno contro l'altro, ora con uno sguardo ora con mezze parole che valevano più d'un discorso. La diatriba tra i due avrebbe sicuramente rotto la monotonia di quelle giornate, ed il divertimento poteva dirsi assicurato. Vista l'ora tarda, i due litiganti decisero che era il caso di tornarsene alle loro case, e che la discussione, se chiarificazione doveva esserci, sarebbe stata ripresa l'indomani. Il Colonnello prese affettuosamente Lilli tra le braccia, accarezzandoselo amorevolmente, mentre il Cavaliere gli voltava le spalle bofonchiando epiteti a dir poco sconvenienti.
Il venditore di olio
A dimostrazione che oramai la giornata volgeva al termine,
l'ugliaru di Racarmutu, pronto a tornarsene a casa dopo una giornata di pesante lavoro, cominciò a rassettare il suo carretto. Con estrema cura legò con uno spago il collo degli otri che ancora contenevano dell'olio rimasto invenduto e li affrancò alle pareti del carretto per evitare un eventuale rovesciamento durante il viaggio di ritorno al paese lungo le trazzere, accidentate e piene di piccoli fossi, che facevano sobbalzare il carico. Sbatté per terra le due ceste che, colme di olive al mattino, erano rimaste sporche di foglie e di qualche rametto e le impilò l'una sull'altra. Quindi, portando le mani dietro la schiena, slegò il fiocchetto che tratteneva il pesante grembiule di pelle contro il quale poggiava gli otri pieni d'olio per riempire litri e decalitri di rame; grembiule che intriso d'olio aveva assunto un colore violaceo ed emanava un odore acre e piccante. Con mossa repentina sfilò il cappio che tratteneva la parte superiore del grembiule intorno al collo, piegò lo stesso in quattro e lo depose in una delle ceste che incastrò in un angolo del carretto. Estrasse dalla tasca posteriore dei pantaloni un piccolo pettine col quale tentò di ordinare i pochi capelli che ancora gli rimanevano in zucca, quindi con un balzo sedette su una delle sbarre laterali del carretto vivacemente dipinto con storie siciliane e tirando le briglie incitò il mulo a muoversi verso casa, dove sarebbe arrivato dopo un paio d'ore di lento e tortuoso cammino.
"Salutammu!", urlò con voce rauca e profonda l’ugliaru a Buzzichinu che, in sella al suo mulo, tornava a casa dopo una giornata di duro lavoro sui campi. Per il venditore d’olio urlare era come parlare, dopo un’intera giornata di strilli per il paese per reclamizzare l’olio puro delle sue contrade.
"Salutammu!", rispose Buzzichinu, accompagnando il saluto con un gesto della mano.
L’eco di quel saluto s’era sparsa per tutta la via, ed un bimbo s’era affacciato sulla strada dicendo ad alta voce: "Mamma, mamma, passa Buzzichinu, quello che balla quando cammina!".
"Zitto!" l’apostrofò la mamma, "torna a mangiare e non disturbare i passanti che tornano a casa dal lavoro".
I venditori
Le vie del piccolo paese rimbombavano dalla mattina alla sera del suono spesso melodico, ma a volte noioso e penetrante, dei venditori che si avvicendavano secondo un accordo mai scritto. Per lo più erano i forestieri ad invadere le strade, percorrendo fino alla noia la via dei Santi, provenienti da Racalmuto o da Canicattì. I venditori paesani si scatenavano quando si sentivano minacciati da un loro diretto concorrente, altrimenti se ne stavano tranquilli nelle loro botteghe ad aspettare i clienti.
Tanu era forse il venditore più assiduo e conosciuto dalle massaie, dal momento che tutte le mattine portava frutta e verdura. Aveva iniziato a vendere i suoi ortaggi caricati sul dorso di un povero asino, per poi giungere in paese con un bel carretto tutto dipinto di storie siciliane. Il passo successivo fu l'utilizzo di un piccolo motore "ape", per concludere la carriera con un grosso camion.
Il venditore di pesce che giungeva da Porto Empedocle, invece, lo ricordo sempre a cavallo di una lambretta, con due casse di pesce legate dietro il sedile: sempre la stessa qualità di pesce, fetente oltre ogni dire. Seguito da un nugolo di vespe e mosche petulanti, urlava:
"haiu lu pisci friscu, haiu li sardi, haiu ùvari e picareddi!". Girava il paese abbassando il prezzo di qualche lira ad ogni passaggio fino ad esaurimento della merce.
Il venditore di sale giungeva dalla vicina Racalmuto con un grosso camion carico di sacchi. Il bianco e prezioso minerale, data l'abbondanza per la vicina miniera, non era venduto a peso ma a volume, in genere a quarti e
munnedda, pari a circa 4 litri. Con voce argentina, come il suo prodotto urlava:
"Biancu e finu haiu lu sali! Accattativi lu sali!".
Poi in venditore di calze che urlava: "Cuasètti per uomo, cuasètti per donna! Accattativi li cuasètti, o fimmini!". Quindi un altro che aggiustava le sedie: "Attenzione ca passa lu siggiàru!".
Zà Crucidda, invece, un gran paniere in testa ed unica voce femminile, vendeva le uova:
"Ova frischi di la Crucifìa!".
Quando poi giungeva il venditore d'olio, il paesano Callarùni s'affacciava al suo negozio e gridava come un ossesso, per farsi sentire dal suo diretto concorrente:
"Haiu l'ùagliu bùanu, accattàtivi l'ùagliu
paisanu!".
All'imbrunire il macellaio La Vampa, a chiudere il carosello di voci che s'erano alternate per tutto il giorno, pubblicizzava il suo prodotto ancora caldo:
"Sangunazzu càudu, sangunazzu càudu!".
Un improbabile turista capitato lì per caso avrebbe facilmente scambiato, e a ragione, per Arabia quel lembo di Sicilia. Ché, in fondo, d'Arabia profumava in tutti gli aspetti della vita quotidiana: dal parlare, al pensare, all'agire, tanto forti erano stati gli influssi della vicina terra d'oriente!
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Finalmente il sonno
Le orecchie che ancora mi rimbombavano di tutti quei suoni e gli occhi a
pampinedda sempre rivolti al cielo, quasi volessi emulare il tolemaico Francischella alla ricerca di nuovi sistemi celesti, tentai di contare gli innumerevoli puntini, come fossero pecore al pascolo. Anche per me, come stavano facendo i miei compagni d’avventura, era giunto il momento di riposare, anche se era veramente difficile rassegnarsi a perdere quello spettacolo stupendo. La sconfinata volta celeste, composta da tutti quei mostri informi di cui mi aveva parlato zì Vicìanzu prima della partenza, si muoveva lentamente verso chissà quale meta sempre in perfetto ordine. Il Carro grande sembrava portare al traino il Piccolo, la W di Cassiopea era sempre lì più evidente che mai, le Pleiadi luccicavano come piccoli diamanti incastonati da abili mani in un oggetto reso ancora più prezioso. Solo qualche puntino, di tanto in tanto, con luccichio sfavillante, disobbedendo agli ordini imposti, si staccava dagli altri, precipitando a capofitto verso di me con una piccola coda, quindi una lunga scia di fuoco, poi nulla. Allora chiudevo gli occhi pregando che cambiasse direzione all’ultimo momento e non venisse a schiantarsi proprio su quell'aia. Riaperti gli occhi, nel tentativo di scoprire da quale parte del cielo quel puntino s'era staccato, ripassavo in rassegna le costellazioni a me note e controllavo che le figure stampate sulla volta celeste non fossero mutate. La stanchezza era tanta, dopo un’intera giornata di girovagare, e quel letto di paglia non aiutava a conciliare l’arrivo di un sonno ristoratore che ormai diventava sempre più necessario. Dovetti perciò consolarmi al pensiero che fra poco sarebbero apparsi i primi chiarori ed avrei potuto assaporare la dolce alba di Raffi, sognata da lungo tempo. Il movimento delle palpebre divenne sempre più lento e pesante finché finalmente velarono gli occhi ed inevitabilmente, a dispetto della mia eroica volontà di resistere, caddi in un sonno profondo.
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Sulla via del ritorno
Le prime luci dell’alba ci videro in piedi e pronti per il viaggio di ritorno verso il paese. Giunse l’ora dei saluti e dei tanti convenevoli, con la promessa di ritornare a Raffi appena possibile, senza aspettare ancora per un paio d’anni l’occasione di un’altra battuta di caccia. Lasciai quella casa con l’emozione di chi vive un sogno, e con dispiacere torna alla realtà quotidiana.
Superata una piccola dorsale, davanti a noi si apriva una pianura, priva di alberi ma costellata di ciuffi d’erba ed arbusti. Alcuni tratti di terra a forma di rettangolo, coltivati a cotone, si staccavano dal monotono colore marrone, e risaltavano per il verde delle piantine e dei batuffoli bianchi che ondeggiavano per la brezza fresca che arrivava alle nostre spalle. Sulla destra una collinetta, di calcari con tanti massi disposti in modo disordinato, tempestata di erbe selvatiche e qua e là macchie di capperi i cui rametti estremi, pieni di lumache bianche, brillavano ai raggi di un timido sole che s’era appena levato all’orizzonte. Questo panorama brullo e selvaggio contrastava con quello che si estendeva al di là del fiume, ricco di eucalipti e qualche ontano solitario, che svettava verso il cielo, con tante foglie verdi.
Un pipituni s’alzò in volo al nostro passaggio, con un lento battito di ali, elegantissimo per quel ciuffo di penne rosate da sembrare una corona regale. "Pipituni saluta lu re!", gridai ricordandomi dei giuochi e degli scherzi che facevo cogli amici del paese. Incurante della minacciosa presenza di estranei, volteggiò sulle nostre teste con aria sonnolenta, quasi di sfida, scocciato d’essere stato disturbato a quell’ora, e si posò poco più avanti sullo stelo di un finocchiastro.
"Fermiamoci una mezzora. Abbiamo ancora parecchie cartucce, ma vorrei prepararne un paio con la nuova polvere che mi ha mandato mio cugino dalla provincia. Dicono che la
rotwell faccia miracoli", disse papà.
Posti tutti gli attrezzi sulla solita bisaccia, che il giorno prima era servita da tovaglia per il pranzo e la notte da lenzuolo sulla paglia, cominciò a trafficare con misurini, polvere e piombo. Presa una cartuccia vuota v’inserì la polvere dosata col misurino, quindi vi pressò sopra una borra, aggiunse i pallini di piombo, sigillò il tutto con un tappo di cartone. Quindi piegò l’orlo della cartuccia con una macchinetta che sembrava un cavatappi. Dopo alcuni minuti la cartuccia di prova era pronta, ed individuata una pietra di
carcinaru, liscia e rotonda, mi disse di sistemarla alla distanza di circa venti metri.
"Vediamo se sei capace di centrare la merca, mi disse papà. Ti raccomando solo due cose: non romperti il muso, come stava succedendo l’altra volta, e non dire niente a tua madre!".
"Stai tranquillo, andrà tutto bene", gli dissi.
Piantai bene i piedi per terra, e preso il fucile caricai il cane di destra. Mirai alla pietra e bum! Il botto fu assordante come il rinculo sulla spalla, ma tutto era andato per il meglio se dopo il botto udii:
"Bravo, così va bene. Vai a prendere la pietra e vediamo di cosa sei stato capace!".
Sulla pietra era rimasta stampata una bella rosa di pallini neri, schiacciati e liquefatti, segno che con quel dosaggio la forza impressa dalla polvere era buona.
"Con questa cartuccia a doppia carica neanche un toro l’avrebbe fatta franca", disse con soddisfazione.
Caricate alcune cartucce con la stessa dose di polvere e piombo, fummo pronti per iniziare la caccia alla lepre.
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La volpe
"Stiamo attenti, disse papà, da quei cespugli potrebbe saltare una lepre. L’anno scorso ne abbiamo catturate due in mezzo alle piante di cotone. E tu stammi dietro, mai davanti alle canne del fucile!".
Mi sistemai alcuni metri dietro papà, mentre zi’ Vicìanzu e zi’ Ciuzzu stavano all’estrema sinistra, distanti una ventina di metri l’uno dall’altro. I cani, aizzati a dovere, cominciarono a correre tra i cespugli, rovistando tra le piantine di cotone ed annusando il terreno alla ricerca di tracce di animali. Man mano che i cani avanzavano li seguivamo a passi lenti, controllando ogni loro mossa ed ogni atteggiamento che potesse segnalare la presenza di una possibile preda. Un
carcarazzu, intento a mangiare da una macchia di capperi, si alzò con un volo lento ed un gracchio rauco e monotono, verso la collinetta alla nostra destra.
"Attento Pitri’, attento alla volpe, là sulla pietra", urlò zi’ Ciuzzu a papà, indicandogli la posizione con un cenno della mano.
Tutti ci girammo verso la collinetta, alla ricerca della volpe che, evidentemente, con un salto s’era nascosta dietro un grosso masso. Dopo un istante comparve poco più avanti, bellissima, un muso aguzzo, un pelo rossiccio e luccicante, una lunga coda che s’agitava quasi volesse trasmettere qualche messaggio. Papà, che si trovava in ottima posizione per il tiro, alzò il fucile, prese la mira, e… Ma quella furbacchiona, odorato il pericolo, con un salto sparì dietro un altro sasso. Intanto zi’ Ciuzzu e zi’ Vicìanzu continuavano ad urlare: "Pitri’, spara, spara!".
"A che minchia sparo, se non vedo nessuna volpe!", disse papà infastidito.
Tutt’a un tratto, saltellando allegramente, comparvero tre piccoli e dietro a loro la madre che, quasi volesse proteggerli, interponendosi tra loro ed i cacciatori, li sospingeva in avanti per un’improbabile fuga.
Uno spettacolo bellissimo e tragico allo stesso tempo. Un’allegra famiglia, che se n’andava a spasso per assaporare i primi tiepidi raggi di sole, stava per essere impallinata e distrutta per sempre.
Papà prese la mira, e seguì il movimento della volpe che scodinzolando s’allontanava sempre più sulla destra, intanto che gli amici, lontani per un buon tiro, continuavano a gridare: spara, spara!
Papà continuò a seguire sotto tiro quelle quattro bestiole che s’allontanavano sempre più, quindi lentamente abbassò l’arma in segno di resa.
"Chi minchia fa, Pitri’! Perché non spari?", urlava zi’ Vicìanzu.
"La cartuccia a doppia carica ha fatto cilecca", rispose papà, mostrando evidenti segni di rabbia. Ed aperto il fucile, a dimostrazione di quanto asseriva, estrasse la cartuccia dalla culatta di destra e la lanciò nella direzione delle volpi che, saltellando ed incuranti del pericolo, nel frattempo erano sparite di là dai folti cespugli.
"Vulpi vecchia nun ‘ncappa a lu lazzu!", disse zi’ Vicìanzu dispiaciuto.
Io, che mi trovavo a due metri da lui, non avevo sentito il clic del percussore che si scarica sul detonatore, segno che papà non aveva schiacciato il grilletto, credo volontariamente. Altro che cilecca!
"Perché non hai sparato?", gli mormorai timidamente, quasi non volessi farmi sentire dagli amici e non volessi mortificarlo ulteriormente.
"Non hai visto che aveva con sé tre vurpacchiuna?", mi rispose, quasi a giustificarsi di avere lasciato in vita quella piccola famiglia.
"E’ meglio che quella volpe sia andata via. Abbiamo tanti conigli, lepri e pernici da mangiare per una settimana", si consolò papà.
Mi parve commosso, anche se non lo dette ad intendere agli amici, anzi insistette per quella maledetta cartuccia a doppia carica difettosa. Raramente un cacciatore rinunzia ad una preda, e quella volpe poteva essere un raro trofeo di caccia da imbalsamare, perché nessuno di loro avrebbe mangiato quella carne ritenuta dura e puzzolente.
In cuor mio pensai che aveva fatto bene papà a non sparare ed uccidere quelle bestiole, buone solo a far bella figura su una scrivania, come mi aveva detto Nino riguardo al varvajanni. Anche quello, furbo come la nostra volpe, s’era nascosto per non fare una brutta fine, lasciandoci con tre palmi di naso.
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L’ultima salita
Come veloce era stata la discesa verso il fiume, col favore del fresco della notte, altrettanto faticosa si presentava l’ultima salita per fare ritorno a casa. Sorgendo il Paese all’estremità di una dorsale ad un’altezza di circa quattrocento metri, per tre lati la sua periferia presenta un notevole dislivello. E mentre la strada s’inerpica verso Racalmuto, nelle altre direzioni degrada velocemente verso valle. Il fiume Gallodoro, per lo più a secco nel periodo estivo, quasi lo circonda con un lungo e sinuoso semicerchio. Attraversato quindi, per l’ennesima volta in due giorni, il piccolo fiume, ci fermammo al limitare di un orto per una piccola colazione. Per dare modo alle bestie di riposare e rifocillarsi con la verde lupinella, zi’ Vicìanzu le liberò d’ogni soma e le lasciò libere al pascolo.
Stesa la solita bisaccia per terra, ci sedemmo tutt’intorno per consumare pane e formaggio ed alcune uova sode che zi’ Pietro s’era premurato di fare preparare a za’ Carmela. E quel po’ di vino che avanzava nei fiaschi di zi’ Vicìanzu.
"Non è andata male, disse papà. Ma se ve la sentite potremmo allungare verso Cozzo Marrùabbiu alla ricerca delle pernici, e quindi salire in paese".
"Nun ti stanchi mai di iri firriànnu, gli rispose zi’ Ciuzzu, ma per me si può fare".
"Vici’, oh Vici’! Il mulo!".
Quel richiamo proveniva da un uomo che gesticolava sulla riva destra del fiume, alle nostre spalle.
Zi’ Vicìanzu si alzò, dopo avere trangugiato l’ultimo sorso di vino, e si diresse verso l’uomo che continuava a gesticolare e gridare: "Il mulo, il mulo!".
"Sarà scappato il mulo, commentò papà, andiamo anche noi a vedere di che si tratta".
I muli pascolando in libertà s’erano spinti verso l’ansa del fiume ed erano spariti alla nostra vista.
"Un mulo s’è accasciato a terra e non riesce più a rialzarsi", disse l’uomo a zi’ Vicìanzu, appena giunto sul posto.
Giaceva infatti riverso in mezzo all’erba, immobile; le gambe rigide e la testa penzoloni, non dava segni di vita. Zi’ Vicìanzu tentò di sollevargli la testa, lo strattonò per le redini che ancora portava intorno al collo, lo accarezzò come se volesse dargli l’ultimo saluto. Quello, quasi avesse sentito la carezza del padrone, mosse appena gli occhi e li richiuse per sempre. Aveva preferito morire al pascolo piuttosto che essere buttato giù dallo
sbalanzu, come aveva pronosticato zi’ Vicìanzu.
"Pazienza, domani verrò a seppellirlo da qualche parte.
Li muli vecchi morinu a casa di li pazzi, ma io non ho voluto disfarmene prima perché mi ero affezionato. L’avevo comperato ch’era ancora
mulacciuni", mormorò zi’ Vicìanzu con un filo di voce.
Dispiacere e disappunto gli si potevano leggere in viso, per avere perso un fidato compagno di lavoro che l’aveva seguito per tanti anni per i campi e le trazzere di numerose contrade. Un triste evento che il suo padrone aveva previsto, ma non così presto e nei modi con cui s’era verificato.
Ripresosi dall'emozione, zì Vicìanzu andò alla ricerca degli altri due muli, ma con sua grande meraviglia s'accorse che ne mancava uno, il terzo che non era di sua proprietà ma l'aveva avuto in prestito. Cominciò a gridare:
"Pitrì, Ciù, è scappato il mulo, e chi lo sente a Peppi
testa di peddi! Dove sarà andato a finire quel disgraziato?", continuava ad inveire, con rabbia e sconforto.
"Questa è la giornata dei muli, uno muore, l'altro scappa, speriamo che almeno il terzo ci porti a casa i conigli", andava ripetendo zì Ciuzzu.
"Ho visto che prendeva quel viottolo, quello che porta verso
Bompensiere", urlò il contadino che ci aveva avvisato in precedenza.
"Maledetto mulo! E chi lo va a catacògliri adesso?", imprecò zì Vicìanzu.
"Sarà tornato a casa sua", ridacchiò il contadino.
"Come sarebbe a dire, a casa sua. A Montedoro si va per l'altro viottolo", l'apostrofò zì Vicìanzu.
"Sì, a casa sua, a Bompensiere. Fino a poco tempo fa quel mulo era di proprietà di
Surcìddu lu nadurisi. Conosceva bene la strada e sarà tornato dal vecchio padrone", continuò il contadino.
"Lo dicevo io che dovevamo proseguire verso Cozzo Marrùabbiu", andava ridendo papà.
"Vado subito a cercarlo, prima che gli succeda qualcosa e sparisca definitivamente. Ci vediamo più tardi in paese", disse zì Vicìanzu con rassegnazione, avviandosi per il sentiero che portava a casa di Surcìddu lu
nadurisi.
"Uno è morto, l'altro è scappato, speriamo che il terzo, per farci un dispetto, non schiatti durante la ripida salita", commentò zì Ciuzzu.
Recuperata la seconda bestia che continuava a pascolare tranquillamente, ignara di quanto era accaduto ai suoi compagni, tornammo al piccolo accampamento. Caricate le prede sul mulo, lasciando sul posto il resto che sarebbe venuto a recuperare zì Vicìanzu, con un velo di mestizia ci avviammo verso casa abbandonando momentaneamente l’idea di dare la caccia alle pernici al Cozzo Marrùabbiu. Lì saremmo andati un altro giorno, e a piedi!
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Conclusione
"Ecco perché quella pistola rimase alla putìa per tanto tempo! Ma papà che in queste faccende si mostrava sempre cauto e
scantatu, come mai decise di conservare quell’arma che riteneva assai pericolosa? I carabinieri, cercando Bussica, potevano risalire a chi gliel’aveva riparata!", obiettò mia sorella, interessata alla conclusione della storia.
"Giusta la tua osservazione, ma neanch’io so darmi una spiegazione convincente. Ricorda però che, quando una cosa piace, e papà era un vero amante di queste armi, si può anche rischiare. In un primo momento era effettivamente molto preoccupato che Bussica potesse tornare per chiedere indietro la sua arma, mettendolo in seria difficoltà. Si tranquillizzò solo quando seppe che costui era stato arrestato e condannato per non so quale delitto. La fine di quella pistola dal calcio di madreperla per me rimane sempre un mistero. Né papà ne ha mai più parlato. La mia convinzione è che con ogni probabilità sarà finita in fondo all’inghiottitoio di Piano del pozzo, come tante altre armi che la gente vi gettò nel dopo guerra".
"Povero Bussica! Se non altro ci resta la sua bella grasta!", fu il commento di mia sorella, incredula e dispiaciuta della fine di quel povero diavolo.
"Quanto prima provvederò a restaurare quella grasta, e sarà nostro dovere ripiantarvi il basilicò della mamma", conclusi con un pizzico di malinconia. Contento di avere raccontato la storia di quella grasta, rimasta lì abbandonata per anni, e di quella memorabile battuta di caccia in contrade ricche di storia e di ricordi, dove l’orologio della Storia sembrava essersi fermato al tempo degli antichi Sicani.
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