UNO SGUARDO DAL MONTE

Fu una serata tutta particolare quella di fine gennaio quando, tornato in paese dopo parecchi anni, mi avviai con alcuni amici verso il monte Ottavio. Lasciato alle nostre spalle il calvario, con la mitica croce dove ogni anno viene crocefisso il Cristo tra lamenti e striduli suoni di tromba, cominciammo a salire verso la cima della piccola collina da dove lo sguardo domina l'orizzonte per ogni lato. Tirava un freddo vento di tramontana che, col passare del tempo, si faceva sempre più pungente a causa dell'abbigliamento poco adatto all'ora ed al luogo, dal momento che la giornata era stata piuttosto soleggiata e quasi primaverile, nonostante il calendario indicasse che si era ancora in pieno inverno. La lunga lontananza dai luoghi dell'infanzia aveva cancellato dalla memoria che di sera, soprattutto nei mesi estivi, dalle Madonie soffia quel vento freddo che fa da contrasto alla calura del giorno, inizialmente piacevole perché scaccia l'afa pomeridiana, ma fastidioso quando dura fino a tarda ora. Durante il lento incedere, né il freddo né le chiacchiere degli amici riuscivano a distogliere i miei pensieri dagli anni trascorsi in quei luoghi, dalle lunghe camminate ora in cerca di grotte, di cui è ricca tutta la collina, ora a caccia di conigli che in quelle pietre calcaree hanno tane e cunicoli profondi. Tane conosciute dai cacciatori ognuna col proprio nome caratteristico, o perché ricche di prede, o perché difficili da espugnare, o semplicemente per qualche triste ricordo come avere perso il furetto scomparso in qualche meandro e mai più tornato alla luce. Ricordi evocati quando, seduti in cerchio sul davanzale della casa, i cacciatori passavano in rassegna le mille avventure vissute in contrade lontane e poco conosciute. Allora era sufficiente una frase od un accenno ad una battuta di caccia per scatenare le fantasie degli astanti che, in fondo, s'erano riuniti non per parlare dei fatti della giornata ma delle avventure degli anni passati e mai sopite nella loro memoria. Passava compare Giovanni ed era invitato a sedersi, quindi compare Lillo che ingrossava la compagnia, poi Nico, poi Peppino, infine don Tatà. E intanto che comare Carmela portava un piatto di olive, comparivano i bicchieri, una "cannata" di vino rosso, qualche ciambella avanzata al battesimo del giorno prima. Si discuteva animatamente, arrivava come per incanto una seconda "cannata" di vino, elogiato per le sue qualità olfattive perché proveniente da una contrada particolarmente favorevole a quel tipo di coltura; intanto si univa alla comitiva qualche altro amico o conoscente che, capito l'oggetto della discussione, segnalava che il suo orto era bersagliato da un maledetto quanto fastidioso coniglio. A quel punto altri avevano da segnalare l'avvistamento di una grossa lepre, di uno "sbardo" di pernici o di una volpe che sorniona saltellava felice per i tratturi con al seguito i suoi cuccioli.

L'oscurità cominciava a sopravanzare la fioca luce della sera, ed il disco solare, rosso di fuoco fino a pochi minuti prima, rapidamente era sceso basso all'orizzonte dietro il monte san Paolino di Sutera, diventando una pallida sfera appena dorata. Incoronava quasi fosse un'aureola quella mitica prominenza visibile da mezza Sicilia, ricca di cavità naturali e di sepolture scavate nei ripiani della roccia in tempi remoti, abitata già seimila anni addietro dall'uomo paleolitico. In lontananza cominciava a delinearsi un panorama senza pari, man mano che salivamo verso la sommità da sempre chiamata "pupiddru", forse per la somiglianza ad un piccolo e caratteristico pupo, vista dal basso. Tanti puntini luminosi, chiazze di calda luce, spuntavano in ogni dove, che col calare della luce del giorno diventavano sempre più visibili e marcati, ad indicare i piccoli paesi adagiati alle colline circostanti. Intorno a noi un silenzio di tomba, rotto soltanto dalle nostre voci e dal leggero frusciare delle foglie degli alberi disseminati lungo la trazzera appena asfaltata che portava verso la sommità. Non un canto di uccello, non un frinire di cicala o di grillo, non una stridula e rauca voce di corvo, non un leggero battito di ali d'un falco che tornava al suo nido. Soltanto un leggero belato di pecora che proveniva dagli ovili sottostanti indicava che lì la natura non era del tutto morta e scomparsa, che ancora qualcosa di vivo resisteva all'insensata e dissennata opera di distruzione operata dall'uomo verso l'ambiente. Un tempo, quando mancando strade e viottoli dovevi inerpicarti verso la cima passando attraverso cardi pungenti e lupinella, erbe selvatiche ricche di fiori colorati, macchie di giaggiolo silvestre o pungitopo, finocchio odoroso o menta e timo, che macchiavano di giallo i suoi ripidi fianchi e ingentilivano quella magica collina, era un pullulare d'insetti che volteggiavano intorno e manifestavano la loro presenza col leggero e fastidioso fruscio delle ali in vorticoso e rapido movimento. Era uno svolazzare di calabroni neri, lucenti e sibilanti, lo strisciare di una biscia in veloce e contorto movimento, la presenza di una lucertola che immobile su una pietra, la testa all'insù, ti fissava con aria interrogativa, un ramarro sonnolente e distratto, il veloce battito di ali di un merlo o di un'allodola o di un gufo disturbato nel sonno, a notificare la presenza di vita. Adesso, tutt'intorno, se non morte, mancanza di vera vita.

Il vento, freddoso e pungente, continuava ad infastidire gli occhi ed a disturbare la visione di ciò che restava di bello in quel luogo ancora selvatico e mitico nei ricordi infantili. Quasi volesse impedire l'ascesa verso il punto sublime, dove i sensi avrebbero potuto assaporare momenti di sfrenata concupiscenza alla vista di un panorama incantevole. Invidia, forse? No, forse vendetta, pensai; vendetta e ripicca verso chi da lungo tempo s'era allontanato dalla sua terra, dalla sua casa, dal suo atavico panorama, allora ignorato, quasi sprezzato, ed ora desiderato anzi agognato come un bimbo anela ad una caramella o ad palloncino colorato. Pensai che forse aveva ragione quel vento che ululava alle mie orecchie come un lupo in richiamo d'amore, mi rinfacciava un senso d'ingratitudine verso quella natura che mi aveva visto crescere, mi aveva cullato e coccolato nei momenti felici e spensierati, mi aveva accompagnato nella crescita, nelle scampagnate tra amici, nelle interminabili battute di caccia tra sudore e fatica. Pensai allora ad una giustificazione, inventai mille motivi, il lavoro, la famiglia, i nuovi affetti, la necessità quindi d'andare lontano, lontano da quel monte, da quella natura speciale, col cuore a pezzi per il distacco e le lacrime agli occhi. Ma lui ululando più forte e più freddo di prima, quasi leggesse nei miei pensieri, non voleva ragioni, non spiegazioni, ma pretendeva che allora a prevalere su ogni decisione fossero le ragioni del cuore, dell'attaccamento alla propria terra, alla casa, agli affetti. Poi, quasi commosso delle mie considerazioni, come avesse ascoltato i miei sentimenti sinceri, cominciò ad assopirsi, a calmarsi, a darmi il benvenuto in quella terra arida sì, ma sempre ricca d'amore e di storia. E quasi spingendomi dolcemente alle spalle, a perdono del suo iniziale rancore, mi condusse fin verso alla cima, verso quella sagoma di pupo un tempo sicuro riparo per pastori e briganti.

Che meraviglia lassù, sull'arida collina! Il cielo diventato blu era punteggiato da una miriade di stelle; Venere, splendente come mai sopra Milocca, quasi in picchiata seguiva a ruota il Sole ormai tramontato dietro Sutera, più in alto Giove maestoso e lucente, i Carri, Cassiopea, Orione, Arturo, Bellatrix, tutti insieme sorridevano felici della pace appena conclusa con la ritrovata natura.

Dall'alto dei bastioni dell'osservatorio lo spettacolo era inimmaginabile. Da sinistra a destra, in un giro d'orizzonte, le luci calde e quasi dorate che illuminavano i paesi sembravano delle macchie colorate disegnate su un quadro da un pittore, e di fronte ai nostri occhi esterrefatti, come un maestro d'orchestra vede i musicanti nella buca sotto i suoi piedi, giaceva il nostro paesello, beato e tranquillo, quasi addormentato sotto la protezione di quel monte da sempre amico. Da lì, con un po' di fantasia rivolta ai vecchi tempi, potevi scorgere i crocchi di cacciatori intenti a raccontare le loro avventure, i paesani che passeggiavano per la grande piazza, davanti le porte di casa le sedie colme di ortaggi, il macellaio che esponeva un secchio fumante di "sangunazzu callu", le comari intente a discutere i fatti del giorno o il contadino che preparava gli attrezzi per la campagna.

Finalmente mi sentivo in pace con me stesso, con la mia coscienza, risollevato dai rimorsi della forzata lontananza. Un ultimo sguardo, un lungo respiro e via per la ripida discesa verso casa. Quel venticello fastidioso che s'era appena calmato, adesso ricominciava a soffiare ed a sospingermi verso il calvario. Mi aveva perdonato dimenticanze e manchevolezze ma, nel congedarsi, col suo leggero mugugno voleva ricordarmi quanto avevo promesso: di tornare. Allora mi avrebbe accolto con la benevolenza e la cordialità tipica di quella terra.