IL QUEMADERO
Il 19 maggio scorso, dopo parecchi anni di assenza,
giunsi a Palermo di buon'ora. In attesa di un appuntamento, fissato per
il tardo pomeriggio, ne approfittai per girare il centro della città,
rinfrescando i miei ricordi storici di questa bellissima terra di
Sicilia. Dalla Cattedrale al Palazzo dei Normanni, dal Cimitero di S.
Orsola ai Quattro Canti, la Chiesa degli Eremiti, Via Vittorio Emanuele,
Piazza Marina. E qui nelle prime ore del pomeriggio, dopo un
lungo girovagare per le viuzze che costeggiano il corso, mi riposai
sedendomi su una panchina, all'ombra di quegli alberi meravigliosi. Di
fronte a me l'austero Palazzo Chiaramonte, il famigerato Steri,
teatro di tremendi misfatti consumatisi nelle sue segrete e nei suoi
cortili. Mentre assaporavo un delizioso gelato, osservando le fattezze
del palazzo, mi balzò in mente una parola, "Quemadero",
ed ebbi pace solo quando riuscii a ricordarne il significato. Confesso
di avere avuto un brivido al solo ricordo di ciò che rappresentava il
"Quemadero", nei tristi anni dell'Inquisizione in Sicilia.
Osservai l'angolo della piazza che porta verso il mare e solo allora
ricordai un episodio raccontato dagli storici siciliani Mortillaro e
Mongitore, un auto-da-fé avvenuto proprio in quel luogo, il 6 aprile
del 1724, mentre regnava il viceré Nicolò Pignatelli, duca di
Monteleone. L'autodafé o sermo generalis era una cerimonia
pubblica, appartenuta in particolare alla tradizione dell'Inquisizione
spagnola, in cui veniva eseguita la penitenza o condanna decretata
dall'Inquisizione (per eresia o altri reati). Il nome deriva dal
portoghese auto da fé, "atto di fede", ed era il
cerimoniale giuridico più impressionante usato dall'Inquisizione.
Quel giorno in piazza si erano stipate più di
ventimila persone, alla presenza di tutte le autorità civili ed
ecclesiastiche, della nobiltà primaria e del corpo diplomatico che
occupavano le tribune. I frati di san Domenico v'erano venuti in
processione il giorno prima, preceduti da un bianco stendardo, dai
commissari, dai protonotari e da tante altre persone addette al
tribunale dell'Inquisizione; e tutti colla croce del S. Uffizio in
ricamo di seta nera e bianca con poco argento di profilo, sopra le
cappe, o i mantelli, oltre a quella che portavano in petto. Dietro ad
essi si spiegava una pomposa bandiera di damasco, sulla quale stava
un'immagine in ricamo di S. Domenico di Gusman nato a Callaroga, nella
vecchia Castiglia, con a fianco una spada che s'incrociava con un ramo
d'ulivo, e sull'orlo il versetto: "Exurge Domine et judica causam
tuam" (Sorgi o Signore e giudica la tua causa). La bandiera era
seguita dai dignitari del Sant'Uffizio, uno dei quali portava la croce
verde coperta d'un velo nero, mentre un gran numero di soldatesche
chiudeva il corteo. La croce era stata collocata nell'altare eretto in
mezzo ad un ampio steccato, sul quale ardevano molte candele di colore
giallo; e sin dalla mezzanotte fino al far del giorno erano state
celebrate le messe per la conversione di coloro che dovevano essere
giustiziati. All'ora settima del mattino seguente usciva dal palazzo
dell'Inquisizione la croce della parrocchia coperta a lutto,
accompagnata dai chierici in cotta; seguivano fra la truppa e le guardie
del Sant'Uffizio i colpevoli. I primi erano i "convertiti ed i
penitenti" colla testa scoperta e un cero acceso nelle mani.
Venivano poi i "riconciliati", coperti del san Benito,
ch'era uno scapolare stretto quanto il corpo, tessuto di ruvida lana
gialla, sparso di croci rosse, e col capo coperto dalla "corosa",
ossia una mitra di cartone sulla quale erano dipinte varie piccole croci
a colori. Seguivano ultimi i "recidivi", condannabili
al fuoco, col san Benito e la corosa dipinte a fiamme, a serpenti e
mostruosi demoni.
Sui gradini dell'altare in basso si collocarono i
recidivi, in mezzo i riconciliati ed in alto i penitenti. Sopra un
pulpito rivestito di damasco violaceo, trinato d'argento, fu pronunciato
un pomposo discorso dal padre Antonio Majorana, allusivo a quel funebre
apparato. Di rimpetto a lui, su una sedia di velluto cremisi con ricche
frange d'oro, sopra una predella coperta da un tappeto di seta, sedeva
il segretario dell'Inquisizione, don Tommaso de Laredo, con davanti un
tavolino d'osso di tartaruga a piè dorato. Adempiute varie formalità
di rito, i rei (ultimi dei quali suora Geltrude Maria di Gesù
terziaria dell'ordine di S. Benedetto, al secolo appellata Filippa
Cordoana, e fra' Romualdo laico degli agostiniani scalzi, che
aveva nome Ignazio Barberi, tutti e due di Caltanissetta e
sui sessant'anni), furono obbligati a passare davanti i componenti il
tribunale del Sant'Uffizio, nei cui petti splendeva la croce in oro
tempestata di brillanti e rubini. Nel seggio più elevato s'adagiava il
grande inquisitore don Giovanni Ferrer.
Furono lette le sentenze pronunziate da un certo Baldassare Nasolli,
principe d'Aragona capitano giustiziere, e da un Francesco Cumbo, un
Tommaso Gioeni ed un Pietro Portuleva, giudici, colla norma d'un codice
speciale, in cui l'arbitrio costituiva il fondo della crudele
giurisprudenza. E per esse si scrisse, sotto il nome venerando di
Cristo, maestro divino e modello di mansuetudine: "Jesus …..
condemnamus ut ipse Ignatius Barberi vivus carburatur …. ut ipsa
Philippa Maria Corduana viva carburatur …. donec in cinerem
convertatur, cinis vero dispergatur …", (li condanniamo ad
essere bruciati vivi, finché non siano ridotti in cenere che sarà
sparsa…) perché "eransi con specialità pazzamente creduti
impeccabili, e avevano ripetuto ostinati come mentecatti delirii ed
eresia, tollerando la tortura, il flagello ed i più acerbi martirii".
(I due erano stati per venticinque anni nelle carceri sin dal 1699,
quindi non essendo morti per le torture subite dovevano essere bruciati
vivi!).
Fatti uscire da quel convegno i condannati, furono
posti dal carnefice sopra due carri, tirati da buoi, e stretti al
rispettivo palo già preparato; e scendendo lungo il Cassero, furono
condotti per la via dei Genturinari, piegarono a manca per la strada
dell'Alloro, uscirono per la porta dei Greci, e di là giunsero
all'imbrunire del giorno sulla piazza di S. Erasmo, "quemadero",
ossia luogo del fuoco destinato all'espiazione della pena. (Il
"Quemadero" era una piattaforma di pietra, cava all'interno,
farcita di legna da ardere, con due sbocchi laterali che fungevono da
fornace, sulla quale poggiavano quattro statue, quelle dei profeti
biblici (Isaia, Geremia, Ezechiele e Daniele). Le statue erano cave, il
loro compito atroce: dovevano contenere i corpi vivi dei condannati, che
vi morivano lentamente. Una specie di "carcaruni" utilizzato
in Sicilia per fondere lo zolfo).
Così scriveva il Tasso: "Composto è lor
d'intorno il rogo ormai, e già le fiamme il mantice v'incita!".
Accompagnati a siffatto apparato di barbarica morte,
presso cui su un alto piedistallo s'ergeva la croce bianca, fecero loro
nuove esortazioni a pentirsi, onde ottenere la grazia d'essere
strangolati anziché vivi sbalzati sull'ardente pira. La qual cosa
riuscita infruttuosa, furono prima alla donna bruciati i capelli, indi
la sopravveste, e poi fu dato fuoco alla catasta di legna, nella quale
piombò e si consumò. Uguale martirio fu ripetuto sul frate che soffrì
strazio e prolungati dolori. Le loro ceneri furono disperse al vento al
cospetto d'un popolo lieto insieme e lacrimevole, che esercitava l'animo
al terrore ed alla compassione, assistendo ad una specie di tripudio
selvaggio.
Intanto nella piazza del Duomo per i riconciliati e
per i penitenti seguiva l'auto-da-fè, che aveva fine con l'abiura, con
l'assoluzione, ed infine col rito della frusta, su vili giumente e con
la mitra in testa.
Che tremendi ricordi nasconde quella bella piazza,
adornata da enormi alberi secolari!