Introduzione
A conferma di quanto scrivevano gli antichi filosofi greci, che cioè "le vicende umane sono come racchiuse in un cerchio", la tragica morte, verso la fine degli anni sessanta, di donna Letizia
Caico, pone fine al casato di questa operosa ed intraprendente famiglia che sin dalla nascita di Montedoro, piccolo paese della provincia di
Caltanissetta, avvenuta intorno al 1635, aveva recitato un ruolo di primaria importanza nella sua storia: dal capostipite don Orazio, a don Giovanni, a Martino, a Franco, che aveva inserito la sua famiglia nella migliore borghesia dell'Isola. Per giungere finalmente, a metà del 1850, a don Cesare, l'uomo che fra tutti i Caico ha lasciato il segno della sua intelligenza, erudizione, intraprendenza e vivacità, non solo civile, in un'epoca di grande fermento culturale, politico e scientifico.
La famiglia Caico di Montedoro non vantava quindi origini illustri e blasonate, come si potrebbe pensare, ma divenne molto ricca e facoltosa col commercio e con la conduzione di feudi, imparentandosi con famiglie che vantavano un certo peso nel territorio, ed ebbe molta fortuna con l'apertura di alcune miniere di zolfo di cui abbondava il sottosuolo. I Caico ebbero invece pochi e sfortunati rapporti con la nobiltà dell'epoca, come la parentela col barone don Pietro Paruzzo che dovette dichiarare fallimento, e le liti col duca di
Serradifalco, Leonardo Lo Faso, che costrinsero don Martino Caico a riparare per ben tre anni nella Chiesa locale (esisteva allora il diritto d'asilo) per sfuggire alla cattura. Al pari delle famiglie nobili, però, la famiglia poté contare sull'aiuto di numerosi medici illustri e tanti preti, di cui uno persino eletto quale commissario della cosiddetta "Santa Inquisizione"; che poi tanto santa non era, ma solamente un'accozzaglia di elementi crudeli, sadici e maniaci che per secoli avevano sparso e continuavano a spargere sangue innocente, e comminato crudeli sevizie a povera gente, ignorante ancorché devota.
Della vita avventurosa e piena di fascino di don Cesare, ne parla con orgoglio Giovanni Petix nelle sue memorie storiche e nelle cronache del Paese. Il
Petix, che aveva appena 14 anni quando don Cesare moriva, dev'essere rimasto affascinato dai racconti dei suoi contemporanei e dai fratelli di costui (Eugenio, Federico e Giulia) che spesso cita, dicendo: "Mi raccontavano che don Cesare .…". Ma soprattutto dalla lettura dei documenti della famiglia, sui quali era riuscito "a mettere le mani" nei momenti del suo totale disfacimento, e che ebbe l'abilità di elaborare e riordinare, riuscendo ad incasellare molto bene le vicende prima esaltanti e poi tristi della famiglia.
Il possesso di numerose terre dentro e fuori il territorio di Montedoro, e soprattutto l'apertura delle nuove industrie, permisero a don Franco di costruire una fortuna veramente rilevante rispetto alla misera economia della zona prettamente agricola e pastorale.
Alla sua morte prematura, il figlio Cesare si dimostrò subito all'altezza del padre; abile e pieno di iniziative, portò la sua famiglia all'apice della ricchezza economica e della potenza politica, riuscendo a gestire la cosa pubblica per parecchi anni di seguito. E sarebbe sicuramente approdato nel Parlamento nazionale se, pare per modestia e timidezza, non si fosse tirato indietro alle sollecitazioni che in tal senso gli giungevano dai tanti suoi estimatori delle varie parti dell'Isola.
Ma chi era stato veramente questo don Cesare? Un personaggio di rilievo certamente, se a distanza di oltre un secolo é ancora vivo nella memoria e nella fantasia popolare.
Nonostante lo stretto ambito in cui si trovò ad operare, la sua figura é stata mitizzata ed é passata nella storia del nostro piccolo paese per il suo ingegno a volte bizzarro, per la sua vasta cultura e per la sua intraprendenza civile e politica.
Tra i suoi avi si possono annoverare personaggi illuminati, come suo padre don Franco, che nel 1848 fu presidente del comitato rivoluzionario, e signorotti volgari e prepotenti, come lo spregiudicato don Martino, ricchissimo, possessore di vari feudi, ma che per la sua immorale e violenta condotta divenne ben presto odiato e malvisto dalla cittadinanza.
Il padre di Cesare, don Franco, preso da amor patrio e molto impegnato civilmente, ebbe molte cariche nel circondario e lasciò un alone di grandezza al punto da essere definito il "padre del paese". A testimonianza di ciò, esiste una pergamena in latino, che riportiamo nelle lettere, rilasciata dal Convento dei Frati Cappuccini del convento di Sutera, che attesta come don Franco godesse della massima stima e fiducia. Dal padre Benedetto da Alcamo, nel settembre del 1832, veniva nominato
"Syndacus apostolicus et oeconomus" dello stesso convento. La Regola francescana proibiva infatti ai frati di ricevere e maneggiare denaro; ma aumentando i frati e i loro bisogni, si escogitò l'espediente di incaricare dei laici che riscuotessero piena fiducia, di svolgere a nome della Chiesa tutte le operazioni necessarie all'amministrazione dei beni per i frati stessi. Tali personaggi ebbero appellativi diversi, ed uno dei più usati era appunto "sindaco apostolico". Non si trattava quindi di semplici onorificenze, ma essi potevano ricevere beni mobili ed immobili, vendere, commutare, ecc.
Anche lui, come gli antenati, ebbe naturalmente la sua dose di debolezza con le donne: caratteristiche queste, donne e amor patrio, che ritroviamo nel nostro don Cesare.
Questi da giovane fu mandato a studiare a Girgenti, allora capoluogo di provincia del territorio di Montedoro e sede di un famoso seminario, e infervorato dalle idee patriottiche del padre venne arrestato perché fautore della liberazione della Sicilia dai
Borboni. Nel 1860, all’annuncio dello sbarco di Garibaldi, fu tra gli agitatori e i promotori di azioni contro il nemico che teneva in ostaggio l’Isola. La politica locale lo vide in primo piano, e fu eletto parecchie volte sindaco del paese e consigliere provinciale. Teneva carteggi con tutti i rivoluzionari dell’epoca e tra i suoi amici annoverava patrioti come Coriolato e Menotti Garibaldi, che ebbe ospiti in paese.
Quando nel 1867 scoppiò il colera, si adoperò per mitigare quell’infausto evento e insieme al Dott.
Migneco, medico omeopatico di Augusta, studiò un rimedio per mitigare quel malanno che infestava tutta l’Isola. La sua abnegazione e l’impegno pecuniario oltre che civile, gli valsero una medaglia d’oro da parte del Comune.
Ma viene ricordato soprattutto per l’impegno che pose nel volere fare passare dalle vicinanze del paese, la ferrovia che doveva congiungere Girgenti con Palermo, indispensabile per il trasporto dello zolfo. Sembrava ci fosse riuscito, anzi i lavori erano già iniziati quando, caduta la Destra storica e andato al potere il De
Pretis, la strada ferrata prese un’altra direzione. La sua intraprendenza e il suo accanimento fu tale da riuscire a portare persino il ministro Zanardelli a constatare di persona l’avanzamento dei lavori. E giacché questi si trovava in paese, fu naturalmente ospite nella sua casa.
Ed è sempre lui che si agita per gli affari di famiglia, e cerca di difendere gli interessi suoi e dei suoi conterranei che sembrano dormire, quando il Governo tenta di emanare un decreto contro gli interessi dei piccoli proprietari di miniera:
Così scrive Eugenio nel 1895 da Palermo alla sua
Loulou:
"Mia cara Loulou, qui siamo alquanto in agitazione pei provvedimenti invocati dal Governo da alcuni interessati a rovinare completamente tutti i piccoli produttori di
zolfi. Come avrai visto dai giornali, fu qui deliberato da un cosiddetto Comizio interprovinciale, di chiedere al Governo l'imposizione del Consorzio Forzato e la limitazione della lavorazione delle miniere. Spiegarti qui sarebbe troppo lungo quanto è insidiosa, liberticida e disastrosa cotesta proposta; ti basti sapere che un tale provvedimento sarebbe la rovina di tutti gl'interessati nell'industria dello zolfo, proprietari,
gabelloti, etc. che non sono potenti. Sarebbe insomma lo sfruttamento dei deboli in favore dei forti!
Cosicché Cesare è il solo che si agita come meglio può e cerca di dare l'allarme a tutti gl'interessati che sonnecchiano e non comprendono ciò che li aspetta. Ora vado a scrivere a Federico perché, appena ricevutolo, lanci un telegramma al Ministro in Roma per protestare la rappresentanza comunale di Montedoro contro quella proposta rovinosa appoggiata da disonesti interessati. Il telegramma l'ho compilato io, e Beniamino lo ha approvato.
Cesare ha fatto stampare un migliaio di opuscoletti sulla questione zolfifera di cui te ne sono stati spediti tre copie, credo. Ne sono state mandati moltissimi a Roma, oltreché individualmente anche al Presidente della Camera dei deputati ed a quello del Senato, per essere distribuiti ai membri del Parlamento. Altre proteste di proprietari interessati seguiranno, insomma ci agiteremo come meglio si potrà per far luce su cotesta manovra perversa e cercare d'impedire il danno immenso che ci sovrasta".
Fra le sue iniziative va ricordato di avere mandato il gonfalone del paese a Firenze in occasione del sesto centenario della nascita di Dante, di avere esposto a Vienna nel 1873 i prodotti della sua terra, di avere ottenuto un brevetto per un nuovo tipo di fucile.
Fu socio di molti circoli letterari, ebbe una ricca biblioteca e, si dice, abbia avuto a pranzo il famoso romanziere Dumas padre, di passaggio a
Caltanissetta.
A questo punto era facile passare al mito! Si racconta che, essendo approdata nel porto di Palermo la Squadra Navale Italiana, don Cesare, a sue spese, offrì il pranzo a tutto l’equipaggio!
Possessore di terre e miniere di zolfo, racconta il Petix nelle sue memorie, che in un anno di ottimo commercio dello zolfo, in occasione della festa patronale del SS. Rosario, pagò i suoi dipendenti con monete d’oro!
Infine, Vincenzo De Castro, nel 1872, fece pubblicare a sue spese un opuscolo che doveva magnificare il nostro don Cesare, ma che, a giudicare dal contenuto, riuscì soltanto a fare sfoggio della sua compassata eloquenza (vedi nota finale).
E le donne? Pare che, anche se timido, ne abbia avute proprio tante!".
Intorno agli anni settanta dell'ottocento, però, la famiglia Caico subisce un colpo tremendo per un fatto che in breve tempo decreterà la sua fine, e non solo economica.
Così ci ricorda sempre il Petix la tragica vicenda del fallimento di don Federico, notoriamente ateo ed anticlericale, se il prete di Caltanissetta Giovanni Rizzo (in seguito divenuto vescovo) sente il dovere di tentare per lettera la sua conversione.
"Nel 1874, un lombardo, certo Luigi Monga, da Isola della Scala, che si era infiltrato nell'animo di Federico, fratello di Cesare, e della sua famiglia, fino a disporre della loro immensa fortuna, scomparve lasciando a Federico Caico e a tutta la famiglia, un vuoto di quattrocento mila lire, somma allora enorme; Federico Caico fu dichiarato fallito (1879). La famiglia gli fu solidale e cercò di salvarlo. Cesare Caico fece dei miracoli di astuzia e di perizia, sino a che venne concordato con tutti i creditori del fratello, tra i quali gli stessi fratelli per quasi un quarto della somma dell'intero fallimento (1890). Fu la valanga che calò sulla famiglia
Caico. Una gran quantità di liti si scatenarono sui Caico di Franco. Chi soffiava di più era l'irriducibile loro avversario, Dott. Paolino Guarino, che valendosi della carica di amministratore dei
Pignatelli, fece maturare la devoluzione della zolfara Lenza Talamo, che il
Monga, per interposta persona, aveva comprato con i denari e per conto di Federico
Caico. La lite civile tra i Caico e i Pignatelli per la miniera Lenza Talamo durò 52 anni, dal 1881 al 1933, e fu vinta dagli eredi di Cesare
Caico. Ma quella lite, in concomitanza con cento altre, finì con l'impoverire i
Caico, che furono costretti a cercare prestiti per sostenerle".
Poco invece ci racconta il Petix dei suoi fratelli Federico, Giulia, ed Eugenio (di questo dice soltanto che "fu negato alla politica anche se venne eletto quattro volte consigliere comunale, ma fu sempre un signore di vecchio stampo, di gran cuore e di generosità umana") e soprattutto dei figli di quest'ultimo, come se il casato dei Caico fosse finito con la morte di don Cesare; o non avesse afferrato appieno quanta umanità, cultura e tragicità insieme albergassero nei cuori di don Eugenio, di sua moglie Louise
Hamilton, e dei suoi figli Lina e Letizia. Cosicché, dopo l'ultima guerra, la famiglia
Caico, al di fuori della figura eterea, quasi fuori luogo e fuori tempo, di donna Letizia che vagava per il paese come un fantasma col suo ombrellino colorato (in una lettera scriveva: "…i paesani mi prendono per pazza…"), sembrava non solo scomparsa dalla scena, ma dissolta nel nulla, come se non fosse mai esistita.
La famiglia Caico non seppe più risollevarsi dai debiti accumulati in seguito a quel fallimento; e ciò anche a causa della crisi dello zolfo, che aveva perso buona parte del suo valore commerciale, al suo apice, invece, fino a qualche decennio prima. I Caico persero tutte le proprietà ed ogni prestigio, e condussero una vita grama tra Palermo, Caltanissetta e Montedoro.
A distanza di circa un secolo scopriamo invece la bellissima opera di Louise
Hamilton, di origine inglese e moglie di don Eugenio, "Sicilian ways and days", tradotta in "Vicende e costumi siciliani", e la stupenda storia di "Lucciola", la rivista itinerante manoscritta che, ad opera delle sue figlie Lina e Letizia, viaggiò dal 1908 al 1926 per tutta l'Italia.
L'ultima scoperta (anche se non di scoperta si può parlare, ma semplicemente di una sorta di "presa di coscienza"), riguarda il presente lavoro, la lettura cioè di tante lettere di Eugenio,
Louise, Lina e Letizia ed altri, che aprono uno squarcio significativo sulla vita e sulle vicende di questa famiglia dal 1880 in avanti, e che potrebbero riscrivere parte della loro storia. Non fosse stata dispersa la fornitissima biblioteca e l'enorme mole di documenti della famiglia, potremmo avere una visione completa delle loro tristi vicissitudini a cavallo del novecento. Tutto invece è andato venduto, disperso in mille rivoli, distrutto, contro ogni volere di don Cesare che asseriva: "Io non vendo nulla, anzi acquisto!", come nel famoso caso del libro "Sicilia antiqua" del
Cluverius, che un tale gli aveva chiesto di vendere. Ma le vicende, cui accennavo in precedenza, non hanno permesso che la sua volontà potesse essere rispettata fino in fondo.
La lettura ed il commento di queste lettere personali, che Eugenio dal suo "esilio" di Palermo spediva alla sua moglie Louise che amorevolmente chiama
Loulou, non vuole assolutamente essere dissacrante della sua memoria, né vuole mettere alla berlina un personaggio simpatico e traboccante di signorilità; al contrario, grazie alle curiose e dettagliate notizie in esse contenute, vorremmo capire la tragica situazione in cui erano precipitati i Caico in seguito al fallimento e, di riflesso, i costumi e le abitudini della famiglia che Louise Hamilton poco ci racconta nel suo
"Sicilian ways and days". Le tristi vicissitudini di Eugenio, le sue ristrettezze economiche che rasentano la miseria e che stridono e sono in forte contrasto coi tempi migliori, la preoccupante crisi dello zolfo palpabile nelle parole di don Cesare, la famiglia visitata nel suo intimo, ci fanno capire molte cose anche dei fratelli, Cesare e Federico, e della loro sorella donna Giulia, l'unica donna, che Louise chiama "la padrona di casa", e che come tale tutti rispettano e circondano d'affetto, dai fratelli, ai cugini, ai parenti in genere. Anche Eugenio, benché adirato e prostrato dal suo strano comportamento, le gira intorno come una mosca, sperando in un colloquio chiarificatore, e fa ala al corteo dei parenti che, alle quattro del mattino a Palermo, accompagnano donna Giulia al treno in partenza per Montedoro.
Le lettere di Eugenio sono scorrevoli e piacevoli quando racconta un viaggio o un episodio che lo ha impressionato, si sofferma sui particolari e sulle curiosità, come quando descrive le camicie dei siciliani di Palermo o il ricevimento in occasione del fidanzamento della cugina Adelina.
Sentiamo cosa ha da dire a proposito delle camicie:
"…. In ogni modo, ho trovato Palermo più pulita ed in qualche modo migliorata. Quello che più di tutto mi ha colpito è la grande nitidezza ed il gran gusto nel vestire degli uomini specialmente. In questo momento regnano qui certe mode bellissime ed indovinate. Alla mattina vedi tutti con camicie dal solo petto color rosa, ma il colletto ed i polsini bianchi, li vedi senza gilè con una larga fascia di seta nera per cintura, cravatta a fiocco orizzontale per lo più nera, colletto diritto alto con le punte leggermente incurvate, i petti delle camicie o rosa o bianchi hanno certe pieghe o altre righe provenienti dal tessuto stesso, e se a questi colori aggiungi la perfezione del taglio e dell'esecuzione te ne lascio immaginare che risultato debba ottenersene. O che colletti, o che polsini, o che petti! Per quanto io avessi una grande opinione sull'eccellenza della fattura e stiratura di coteste cose, quello che vedo questa volta supera quanto avevo già veduto e dico con tutta l'enfasi dettatami dalla profonda convinzione che né Milano, né Parigi, né altre città del mondo possono superare Palermo per questo lato. Se tu vedessi che candidezza di colletti e polsini siano calandré o matti, ma più belli e più distinti questi ultimi, se tu vedessi con tali camicie, con tali cravatte e con i costumi che portano come sembrano tutti così lindi, ma di una lindezza maschia, come sembrano spigliati e baldi; in una parola non si può essere più smart nel modo di vestire degli uomini che sono venuto a trovare qui.
I petti delle camicie rimanendo scoperti hanno due soli occhielli a cui quasi tutti applicano certi bottoni di argento a righe o abbrunito che ornano stupendamente, i bottoni d'oro non si usano più. Ti assicuro che tale maniera di vestire è assai bella e conferisce alla persona un'apparenza linda, maschia e punto sdolcinata, perché è una ricercatezza di forme, di linee e di colori che non vuol parere. Insomma, nulla di più veramente distinti di come vestono qui gli uomini attualmente….".
Ma quando parla della sua disperazione e delle liti coi fratelli, diventa come un vulcano in eruzione e le sue parole sembrano colate di lava bollente; allora Eugenio ignora i punti e le virgole, per esprimere il suo stato d'animo esagitato e giungere in fretta alla fine del discorso. E non lesina aggettivi coloriti per inveire contro i fratelli che, a suo dire, lo vogliono rovinare: "….non mancherò d'investire tutti con energia per l'agire loro punto riguardoso, verso di me, ingiusto, sleale, sconcio e rovinoso all'estremo!".
Ed in mezzo a questo turbinio di tristi eventi compaiono le loro quattro creature, "Lina la buona, Giulia la ribelle, Federico il vivace e Letizia la pasticciona cara", ancora in tenerissima età, ignari dei gravi pensieri e preoccupazioni che annebbiano la mente di Eugenio, ed alle quali sono sempre rivolte le sue ansie ed i suoi tormenti dall'esilio isolano: "Se sono qui a soffrire le pene dell'inferno, è per dare un avvenire a quelle povere nostre creature", scrive con amarezza a
Loulou.
Non abbiamo a disposizione le risposte di Loulou alle concitate e spesso drammatiche lettere del marito, ma dal tono ora contrariato, ora accondiscendente di Eugenio, s'intuiscono le parole di
Loulou, spesso sarcastiche e per nulla remissive. Anzi, spesso non risponde alle richieste a volte estrose del marito che se ne rammarica e chiese spiegazione. Su una cosa vanno pienamente d'accordo: sulla condanna dello scorretto comportamento del padre di
Loulou, Federico Hamilton, che li ossessiona in continuazione per il pagamento dell'affitto del villino, ben sapendo le difficoltà economiche in cui versano in quel momento. Allora figlia e genero complottano insieme e preparano le lettere da mandare in risposta alle sue esose richieste da usuraio, mettendo in evidenza il fatto che, quando era stato Eugenio a dovergli prestare dei soldi, questi aveva applicato un tasso d'interesse risibile. Eugenio è anche contrariato dal fatto che il suocero si permette di criticarlo perché spreca i pochi soldi di cui dispone, per esempio andando ogni tanto in carrozza, piuttosto che pensare seriamente a pagare gli arretrati della pigione. Eugenio indispettito, così scrive a
Loulou:
"Un'idea prima che mi sfugga. Se mammà tornasse con te a far la critica del mio modo di spendere, tu dovresti chiuderle la bocca con questo solo argomento; e cioè che quando io diedi le 42000 lire a Papà non gli chiesi affatto in che modo aveva sperperato tanto denaro per essere costretto a ricorrere a prestiti di tale entità. E più tardi, quando in seguito all'affare di
Bauni, egli, tuo padre, venne a me per chiedermi un novello aiuto, non mi arrogai affatto il diritto di criticare la sua balordaggine nell'essersi fatto mettere dentro da quel grossolano e volgare cavaliere d'industria, ed avere con ciò rovinato un'altra rispettabile somma, sebbene avrei avuto, in certo qual modo, se non il diritto una ragione legittima per fargli delle osservazioni in quell'occasione. Io addivenni ai suoi desideri senz'altro, felice di poterlo togliere d'imbarazzo! Ecco quello che dovresti ricordare a mammà ed a papà, se te ne senti il coraggio, quando l'occasione si presentasse!".