Il Delirio
di
Giovanni Piccillo
A Gabriella,
quel fiore che da lungo tempo cercavo,
che mi donò un amore vagheggiato
nelle tante ragazze immaginarie e nelle
descrizioni di questa storia, presto
rapita da un Destino crudele e
improvviso, troncando solo in vita un
amore che dura "anche dopo". A lei
un libro concepito in un Tempo di
speranze e di sole.
Gianni
Presentazione
Un racconto, un delirio, un balzo nel recente
passato. Un ricordo di vari episodi richiamati caoticamente nel
presente. Brevi fotografie di fatti accaduti. E’ un percorso già
vissuto, e quindi non suscettibile di cambiamenti. Quel che accade al
protagonista è vero, falso, possibile, verosimile, improbabile e ogni
particolare è sbattuto in faccia al lettore senza dargli la
possibilità di immaginarne, o conoscerne, il vero perché. Ciascuno
può credere quello che vuole, può vivere la vicenda in modo
completamente diverso da un altro, ma in ogni caso deve subire la
violenza di un testo senza spazi per riflettere al momento, come avviene
per Joe (protagonista del racconto), che soffre e basta. Per le varie
coscienze e le imposizioni di schemi immodificabili, se non con la
morte, e forse nemmeno allora, che la società gli piazza davanti in
ogni circostanza. Ma la società non è essa stessa un mondo senza
linfa, che aliena e ottunde la vita, seguendo delle leggi e delle forme
di volta in volta asservite al momento storico, ad un dato regime, ad
uno scopo prefisso, adoperando i mezzi più vari per celebrarne la
giustezza e l’attuazione?! Il vuoto (esistenziale di un’intera
generazione?) che avvolge il racconto non insegna nulla, ma mette in
evidenza la sofferenza che ciascun personaggio, o ciascun uomo, patisce,
a causa di una colpa. Colpa che è sempre preceduta dalla punizione
ineluttabile del Potere, che, dopo aver agito sempre contro l’individuo,
riesce a spiegarne la causa, e a giustificarsi in ogni caso. L’autore
va al di là di un pessimismo o di un nichilismo sostanziali. In questo
"oltre" s’intravede una tenue forma di "speranza"
soggettiva, che viene però amputata sul nascere anche dalla fatalità.
A che vale allora vivere, se la libertà è ceduta ad un meccanismo
contro il quale non si può lottare, che non lascia altra possibilità
di esistenza, se non quella predefinita e sterile, che determina ogni
passo di ogni succube schiavo della Comunità?!
Hai mai amato Qualcuno? Se hai trovato per la prima
volta nella tua vita qualcuno con cui condividere tutto, con cui
sognare, parlare, e finalmente vivere, e poi un mattino di un giorno
qualsiasi, alzarti, andare da lei e vederla per terra morta da ore,
senza una spiegazione, senza quella paura, pensando che la vita fosse
infinita, e scoprire che non è così, allora leggi questo libro. E se
tutto questo fosse per te solo un racconto o un incubo di uno in
particolare, allora non so che dirti.
L’autore è nato a San
Cataldo, in provincia di Caltanissetta. Ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza
a Montedoro, paese natio del padre, docente di lingua e letteratura
rumena a Catania. Ha studiato, dai quindici ai diciotto anni, alla
Scuola Militare della "Nunziatella" di Napoli, dove ha
conseguito la maturità classica. Nel 1995 Si è laureato in Lingue e
Letterature straniere nella facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università
di Catania.
"Chi non ha bisogno di entrare a far parte di
una comunità e basta a sé stesso, o è una belva o è un Dio"
Aristotele
Era ancora buio quando mi alzai. Alle sei e trenta
partiva il mezzo che il prete della parrocchia aveva prenotato per la
gita sulla neve. Avevo molta ansia.
Era una delle poche occasioni di divertimento in
quelle fredde colline e vallate della mia terra. Il periodo natalizio
volgeva al termine, ed io, come tanti miei compaesani, tenevo molto all’avvenimento.
La notte la passai a casa di mia nonna Concetta.
Alzatasi prima di me, preparò il latte, mentre nel
frattempo io mi lavavo e vestivo; poi, ultimati tutti i preparativi,
uscii per recarmi nel luogo prestabilito per la partenza.
Non tutti erano già giunti, ma gli altri arrivarono
dopo qualche minuto e comunque in orario. Fra gli ultimi c’era Anna,
una mia amica, soprannominata la "Quaglia", splendido animale
giovane. Ne ero invaghito, ma siccome era molto più matura, e più
grande di me di pochi anni, avevo una certa timidezza nel dichiararle il
mio affetto, però lei ne era a conoscenza, ugualmente. Tuttavia ancora
non se la sentiva di iniziare un rapporto con un ragazzo più immaturo e
bisognoso di essere guidato in tutti i meandri di una non facile
relazione. Io non la capivo, soffrivo, non potendo appagare quei
desideri, in quel tempo per me conosciuti poco e da poco. Ma questa
volta sentivo che un non so che di fatale avrebbe dato una svolta a ciò
che allora desideravo immensamente, e lei sarebbe stata mia, e dopo
tante attese inutili.
Il nostro attaccamento poteva essere ostacolato sia
dalle maldicenze della gente, in quanto lei aveva una cattiva fama, di
ragazza scapestrata e di dubbia reputazione, cosa che però non aveva un
valido riscontro effettivo; sia dalla mia famiglia, che reputava la sua
non adatta borghesemente ad una futura parentela. Per me, queste, erano
sciocchezze assurde, che offuscavano e nascondevano una realtà diversa;
fatto sta che tutta questa falsità sul suo conto, ossia le dicerie e la
non "nobiltà" del suo ceppo famigliare, benché irreale,
impediva il mio libero vivere.
Ci sedemmo vicini, io dalla parte del finestrino,
entrambi emozionati per questa semplice comunanza di posti. Il mio cuore
batteva come non mai, immerso in un sogno ad occhi aperti: finalmente
avevo la possibilità di dirle tutto ciò che provavo per lei, lontani
dagli accusatori infidi del paese. Anna cominciò a parlare della
giornata che avremmo passato insieme, da soli, spiegandoci chiaramente,
e dissipando ogni dubbio su quello che era il nostro sentire. Dovevamo
avere la forza di dichiarare a noi stessi il bene grande che ci
volevamo. Le assicurai che per lei ero disposto a tutto, e che senza la
sua presenza sarei stato vuoto ed inutile. Senza la sua dolce esistenza
la mia vita sarebbe stata senza senso (il tempo della pubertà…).
Certamente Anna era una brava ragazza, al di là di
ogni maldicenza, ma io la desideravo non solo per il suo lato spirituale,
buono, ma anche e soprattutto per la sua prestanza fisica, per l’armonia
delle forme e per il suo profumo là, un odore di fiori
ricercati. Era bionda, formosa, splendente nel viso. La sua bocca era
calda; le sue dita, con unghie lunghe e rosse, erano agili, anche se non
sottili, ed a volte inanellate. Era la realizzazione più perfetta della
donna.
Mi prese la mano, la incrociò con la sua, poi mi
solleticò la nuca e mi baciò, mentre con l’altra, lontani e nascosti
dagli sguardi sonnolenti dei compaesani, si muoveva tra i miei capelli,
accarezzandoli con un tocco spontaneo e naturale.
Il viaggio per giungere a destinazione era breve, di
poche ore, e con lei mi sentivo proiettato in un’atmosfera senza
tempo, come passeggiare in un bosco in cerca del buio, senza meta, soli
e gai.
Anna amava la vita in ogni sua forma, sapendo che la
gioia dell’esistenza sta racchiusa nelle singole piccolezze del giorno
e della natura; inoltre riteneva che bisognasse cercare nell’attimo
della fugacità la felicità ed il fine che tanti sognano in una
collocazione lontana e quasi irraggiungibile. Vivere nel presente quel
poco, e solamente quello, che la casualità porge. Non è facile
dimenticare lei, i suoi pensieri, le sue spiegazioni… purtroppo a
volte si è costretti a rompere definitivamente, e sino alla fine dei
giorni, con coloro che rappresentano in noi sia un punto fermo, anche se
ancorato nel passato, sia un malinconico struggimento del nostro cammino
tortuoso e di routine.
Tra baci, carezze, parole sussurrate, giochi
contenuti, tenerezze, pervenimmo sulle montagne ricoperte dalla soffice
ed immacolata neve. Scendemmo con gli altri, percorrendo insieme un
tratto di strada; poi noi due andammo al rifugio per posare i sacchi da
colazione. Affittammo una piccola slitta, ci dirigemmo verso la parte
alta della montagna, tra gli alberi del bosco, e dopo più di un’ora
la vetta fu nostra. Il paesaggio e la vista erano immensamente superbi:
il cielo azzurro e limpido, l’aria fresca e pungente. In quei momenti
mi sentivo padrone della terra, come se nella mia persona fosse nascosto
un potere occulto, che solo ora veniva alla luce, con la sua natura
distruttiva o creativa, con la sua forza indomabile. Ero troppo fuori di
me per aver avuto per la prima volta la donna che volevo. Prendersi tra
la fredda neve fu un’esperienza dolce ed inspiegabile; in effetti non
avevamo preventivato niente del genere, anche se il nostro intento era
chiaramente di allontanarci dalla comitiva, per parlare, progettare,
stare insieme, scambiarci effusioni. Ma quando si inizia a dar libero
sfogo ai propri sentimenti, non c’è più modo di arginarli nel loro
travolgente scorrere. Essi inondavano tutto l’essere, sfuggendo ad
ogni tipo di controllo posteriore.
Spesso, da casa mia osservavo Anna che nel vicino
campetto da tennis giocava con un cugino od un’amica. Restavo tutto il
tempo della partita ad ammirare la sua grazia giovanile, a sentire la
sua voce squillante ed ammaliante. Sì, la sentivo presente da sempre.
Ecco, lei era viva in me dalla primissima infanzia, quando i ricordi
involontari e le conoscenze non hanno una sistemazione precisa e tutto
è mischiato senza una linea di distinzione, ed i contorni appaiono
sfumati e lontani. Anna era "mia", e non poteva essermi
strappata da nessuno senza arrecarmi un dolore lacerantissimo. Il dolore
che ancora oggi mi annienta nei momenti in cui non sono distratto dal
lavoro, opprimente ed ottundente.
Ma, finalmente, dopo tante attese, tanti desideri
vagheggiati, Anna si abbandonava ormai all’appagamento dei suoi sensi,
scaraventando via tutti i veri o falsi ostacoli che sorgevano contro di
noi. Tuttavia, entrambi sapevamo che la nostra debolezza ci sarebbe
stata fatale. I nostri compaesani ci avevano visti "insieme",
e presto le voci di una nostra relazione, vera o falsa, si sarebbero
diffuse per il paese intero, con la conseguenza che la mia famiglia mi
avrebbe intimato di non frequentare più Anna, o peggio ancora, mi
avrebbe mandato da parenti abitanti in una località lontana dal paese,
senza più rivedere il mio amore, se non dopo moltissimo tempo, quando
la malinconia e la sofferenza avrebbero ammalato la mia voglia di lei.
Ma al momento di fare ritorno al rifugio, la slitta
imboccò la pista che da una parte costeggiava il bosco, dall’altra il
precipizio. Raggiunta una folle velocità, quando Anna aveva ormai
intravisto in quella corsa qualcosa di mostruoso, la slitta volò dal
dirupo, nel vuoto, e nella morte.
Passai dei mesi in ospedale, con vistose contusioni,
in preda a deliri vari, e con gran parte delle mie ossa rotte spezzate
dai rami di un albero sul quale ero inaspettatamente atterrato salvando
la mia vita, ma non quella della mia sfortunata amica. Al risveglio ero
praticamente ancora inconsapevole di ciò che in un attimo di assoluta
ebbrezza era accaduto. Era morta! La degenza, in quell’istituto
noioso, fu soffocante. Il tedio delle lunghissime ore, passate
ineluttabilmente a pensare, ripensare a quella morte, fu ben più atroce
di qualsiasi malanno. Soffrivo! La mia mente era assalita dal ricordo di
lei: dolce, sincera.
Risposi alle domande con perfetta estraneità, tutto
era surreale, ammesso che esista qualcosa di vero e profondo in questo
mondo, virtuale e costruito differentemente da ogni testa.
All’uscita dall’ospedale, mi recai a casa, al
paesello.
Dopo qualche giorno di riadattamento, notai che tanta
gente mi scartava, mi trattava freddamente.
Alle cinque mia madre mi buttò giù dal letto. Non
capii. Che succedeva? Dovevo partire, andare via e lontano. Venivo
spedito da un parente che abitava molto lontano dalla mia terra.
Il distacco dalla mia genitrice fu insopportabile.
Lacrime scesero impetuose, bagnandomi il viso, sino a giungere sul
collo, provocandomi una sensazione di formicolio fastidioso. Mio padre,
invece, fu inalterabile.
Non ricordo più se fosse una giornata di sole,
eppure la luce era tanta, tantissima, tuttavia ricordo benissimo quella
persona, ancora, purtroppo, presente come non mai. Era di carnagione
chiara, bel viso, dall’apparenza dolce ed indifesa. Rimasi a guardarla
come chi si vede per la prima volta e si cerca di conoscere – e
riconoscere - dai lineamenti della faccia, dal modo di agire, di
muoversi, di parlare, di gesticolare. Non era bellissima, però aveva un
non so che di strano, di ammaliante che la rendeva accattivante e nello
stesso tempo le conferiva una luce particolare, mai vista prima in
nessun’altra ragazza. Ancora non so bene se fui io ad invaghirmi per
primo di lei, o lei di me; sta di fatto che in noi nacque veloce un
sentimento strisciante che definirei come una travolgente attrazione.
Ci trovammo per caso su quello stesso treno che
doveva portarci in luoghi diversi sia per distanza che per natura;
però, a volte, la difficoltà e l’impossibilità avvicinano due che
si desiderano intensamente, non vedendo né barriere né ostacoli, anche
se la durata della relazione è per forza di cose destinata a naufragare
od a cessare prima che se ne abbia piena coscienza o che se ne veda
effettivamente la fine.
Il suo nome, forse, lo ricordo benissimo, ma un
appellativo vale solo in certi casi, anzi, ritengo che sia inutile
conoscerlo senza sapere alla fine chi è l’esistenza che individua. In
quello scompartimento eravamo solo in due: lei ed io. Mi presentai col
mio solito: "Ciao, io mi chiamo Joe." Mi rispose un freddo
"Salve." Tutto potevo pensare, eccetto il fatto che mi sarei
perso di lei (a distanza di anni ritengo che mi sia perso
sempre), così insignificante, così taciturna, così glaciale. Ma se il
vivere offre qualcosa di bello, è proprio nell’assurdo che bisogna
addentrarsi per trovarlo. Se ogni cosa fosse razionale ed individuabile,
perderemmo il gusto di proseguire in questo cammino senza meta. La
voglia di sapere cosa ci accadrà e come e quando, ci spinge a tenere
viva la nostra curiosità, che è la sete della conoscenza, e quindi la
molla della resistenza contro le avversità costanti, di un vivere che
spesso è destino, a volte coincidenza di azioni e cose a noi esterne, e
troppo spesso non si sa cosa è o cosa sia.
Ben presto il lungo convoglio diesel partì, forse in
anticipo, ma penso che la mia cognizione del tempo, in quel momento, non
dovesse essere precisa come sempre, altrimenti mi sarei accorto che era
quasi sera, ed io ero arrivato in città di pomeriggio. Da circa mezz’ora
costeggiavamo un litorale che sapevo verdeggiante e mirabile, ma che a
causa del buio serale non si poteva ammirare come di giorno; però le
luci vaghe della città e dei lampioni stradali permettevano di
percepirne ugualmente la bellezza.
Lei era lì, di fronte a me, che fumava una
sigaretta, guardando fuori inebetita, come per pensare a delle vicende
passate, dalle quali si sta fuggendo o dalle quali si tenta di fuggire,
storie lontane o vicine, ma che in fondo sono presenti sempre nella
nostra mente, ricordate da una memoria che non ci abbandona e non ci
lascia respirare, torturandoci ad ogni occasione con ricordi piacevoli,
quindi nostalgici, o con misfatti e delusioni di diversa essenza, quindi
oppressive.
Col passare delle ore, il silenzio, che ormai regnava
nello scompartimento, cominciò a venire meno, finché entrammo in piena
confidenza e parlammo di noi, dei nostri problemi, di lavoro, amicizia;
ci raccontammo dei nostri sogni, di progetti futuri, di speranze, di
gioie, di dolori, di tutto… e quello che più mi stupisce e che ancora
non riesco a capire è il fatto che, da semplici sconosciuti, diventammo
altro. E poi tutto il resto. Lei nella sua vita aveva commesso degli
errori imperdonabili e irrimediabili, e per questo ancora soffriva delle
pene enormi, non dormendo tranquilla, non vivendo che assediata da
incubi di difficile comprensione e di drammatica assuefazione. Ne
parlava, però, con distacco, sempre restando sul vago: io mi
incuriosivo sempre di più, ma non riuscivo a cogliere effettivamente
tutte le sfumature dei suoi racconti, anche se era evidente che lei
soffriva nel parlarne. Le facevo delle domande precise, ma le sue
risposte erano sfuggenti e reticenti, perciò alla fine capii che non
era più il caso di insistere, quindi passammo ad altri argomenti. Il
nostro colloquio fu interrotto dall’arrivo dell’impiegato del
servizio ristorante. Ordinai una bibita ed anche lei. Gliela passai ed
in quell’attimo le nostre dita si toccarono trasmettendoci un calore e
delle vibrazioni ansiose e vogliose. Ci sedemmo vicini e ci tenemmo per
mano, la sua sinistra incrociata con la mia destra, senza dire una sola
parola, senza guardarci, tanto l’emozione di quel semplice contatto innocente
ci bastava ed andava al di là delle nostre intenzioni e previsioni. La
forza che impiegavamo nello stringerci era così eccessiva, che ben
presto ci stancammo. Parlammo di futuro, di viaggi, di un nostro nido in
cui vivere lontani da tutti – pazzie ad occhi aperti durate una notte
o un anno. Progettammo tutto ciò che avremmo voluto fare; sognammo
parchi, prati in cui fare l’amore per ore ed ore senza mai stancarci,
immersi dentro l’erba alta, immersi nel vento. Ci desiderammo come non
mai. Quel rapporto era così stupendo, così completo, sincero,
che ancora non so perché sia finito o perché sia iniziato. Eppure io
la volevo, ma anche lei desiderava me. O forse questa era un’impressione:
un idealizzare ed ingigantire una storia perduta fugace e singolare.
Però ero talmente preso da tanto assurdo coinvolgimento, da non capire
più la differenza tra sesso ed attrazione.
Il corridoio era pieno di gente che andava da una
parte e dall’altra del vagone, pieno di curiosi che cercavano di
osservarci nelle nostre effusioni di affetto. Allora decidemmo di
continuare in un luogo che ci preservasse dall’ottusità di gente
tanto sconosciuta quanto inopportuna e squallida. Ma dove trovare un po’
di pace e di intimità?! Lei mi propose il bagno. E vi andammo.
Attraversando il corridoio, si notavano nella semioscurità del mezzo i
sorrisi ironici dei guardoni, degli impiccioni che fino a qualche attimo
prima ci scrutavano dagli spazi tra le tendine che chiudevano lo
scompartimento. Camminammo tranquilli cercando di non curarci delle loro
espressioni di ambiguità.
Il bagno era piccolo, puzzolente, rumoroso: invece di
ospitare delle persone, sembrava adibito all’andar di corpo delle
bestie, visto che tali siamo per uno Stato che in ogni epoca, in ogni
dove, ci stritola, e ci macella, appunto come bestie. Ma tutto sommato,
a noi andava bene così; l’importante era che ci nascondesse da tutti
quegli sguardi. L’aria era satura di odori sgradevoli, ed ancora mi
riesce difficile comprendere la forza che ci spinse a sopportare il
tutto. Così iniziò tutto ciò che sognavamo di fare insieme. Ci
spogliammo lentamente, guardandoci negli occhi ebbri, alla fine ci
abbracciammo. Desideravo il suo corpo come mai mi era accaduto in
precedenti occasioni. Ed ora, per la prima volta nella mia vita, mi
tuffavo in un baratro perdutamente per una che non conoscevo, se non da
qualche ora, ed il peggio è che credevo a tutte le fantasticherie che
in quella circostanza partorivo senza tregua.
Fummo interrotti all’improvviso da un rumore
metallico sulla porta. Si trattava del controllore che passava per
obliterare i biglietti. Ci "ordinò" di sbrigarci perché
doveva "lavorare." Io non seppi cosa replicare, anche perché
ero imbarazzato. Fu lei a rispondere, anzi aprì la porta del bagno, che
poi socchiuse, e mostrò candidamente un bel biglietto che estrasse in
quell’attimo dalla tasca della gonna che giaceva sul pavimento sozzo.
L’uomo andò via. Riprendemmo dal punto in cui ci aveva interrotto. Io
ero immerso non so dove, al di fuori di ogni logica realtà, e proprio
perciò navigavo con la mente lontano, non riuscendo a discernere la
materialità affettiva e momentanea dall’insensatezza che vivevo nelle
mie elucubrazioni. Il rumore del macchinario che scorreva veloce mi
stordiva e m’ipnotizzava, e l’adrenalina faceva il resto;
diversamente la mia compagna, che non subiva questa tortura, sebbene
pure lei si trovasse proiettata in una dimensione tutta sua,
particolare, in un tipo di estasi ambigua, o falsa. Era stupenda.
Parlammo di noi, tra baci e carezze.
Quante illusioni, quante speranze, quanto parlare
vano... la mia storia doveva finire presto e male, scontrandosi con lei,
essere calcolatore e privo di sentimenti, differentissimo da quello che
avevo conosciuto negli amplessi, e fino a qualche attimo prima della sua
rivelazione di soggetto perfido ed incomprensibile, almeno per me, che
ero stato sempre schietto e leale… Lei non mi desiderava come avevo
immaginato, o forse sì, ma i primi ostacoli le tolsero la maschera, o l’abbatterono
così seriamente, che non ebbe più il coraggio di resistere alle
"tempeste" che si riversarono su di noi. Ci rivestimmo,
uscimmo dal bagno e raggiungemmo il nostro scompartimento; nel corridoio
non c’era più gente. Tutti erano andati a dormire. Solo noi
vegliavamo, guardando dal finestrino le luci di poche stelle. Quella
donna non parlava, taceva, forse piangeva, senza lacrime. Non so a cosa
o a chi stesse pensando, di certo non a me. Forse non pensava; osservava
la notte profonda ed insondabile come le tortuosità del suo animo, e
nella notte si smarriva. Avevamo passato insieme delle ore intensissime,
lunghissime, ma come tutto era accaduto senza coscienza, repentinamente,
così finiva senza spiegazioni. Assurdamente. Restammo nel più completo
silenzio, odiandoci, facendoci delle smorfie puerili. Mi pentii di
averla ferita. Le dissi: "Come va... stai bene?! Facciamo
pace?!" Dopo un po’ mi rispose di sì. Sognammo ancora un poco,
ma l’alba stava per spuntare, per dissipare i nostri castelli in aria.
La nostra storia sarebbe continuata, così mi prometteva, ma doveva
pensarci su, riflettere sugli eventi, per diradare ogni perplessità.
Insomma, voleva del tempo per esaminare freddamente quel che era
successo tra noi, e non era una cosa semplice, lo riconosco anche io,
adesso. A volte il tempo sembra non passare mai, dei momenti ci appaiono
un’eternità e viceversa. Ecco, quel viaggio fu una vita intera, capii
cose che fino ad allora non mi erano passate per la mente nemmeno
lontanamente: ero stravolto. Eppure ero contento di vivere, apprezzavo
il mondo in modo.
Eravamo quasi giunti nella città in cui dovevo
scendere. Le dissi "Piccola, fra poco io devo andare via... non so
quando ci rivedremo, ma sono sicuro che ci terremo in contatto, perché
io ti voglio ed anche tu. Adesso devi darmi l’ultima prova del tuo
sentire, devi dirmi cosa vuoi fare seriamente, perché tutto dipende da
te; io da parte mia farò tutto il possibile, o meglio, l’impossibile
per noi, ma devo avere la certezza che tu sei mia. Sei ad un bivio e
devi scegliere, se continuare per la tua strada, nella tua vita di
sempre, che io sconosco o quasi, o se seguire me: anche se non so quando
staremo finalmente e per sempre insieme. Pensaci velocemente e
rapidamente dammi una risposta. I nostri momenti più belli non possono
essere cancellati con una semplice separazione". Il viso mi si
riempì di lacrime. Lei mi sorrise, mi fece una carezza sulla gota
destra e mi rispose: "Joe, io voglio stare per sempre con te, non
ti abbandonerò. Farò tutto ciò che tu vorrai, tutto, proprio tutto.
Ho già scelto, ma ho solo bisogno di tempo; sai, non è facile mollare
e tagliare immediatamente col mio passato, che è ancora un presente
pauroso e difficile. Devi capirmi, ti chiedo solo questo! Non forzarmi
la mano, non tirare troppo questo filo, perché si può rompere. Lo sai
che ti voglio bene, che voglio stare per sempre con te, ma se tu mi
imponi di sconquassare il mio presente, mi distruggerai e così
terminerai la nostra storia. Abbi solo un po’ di pazienza ed
aspettami, poiché io verrò da te". La baciai per l’ultima
volta, piangendo ancora, credendo che da quel momento nessun impedimento
ci avrebbe danneggiato. E mi ritornano in mente ancora quelle sue
parole.
A distanza di anni mi accorgo di come le sue
promesse, i suoi giuramenti siano stati fatti in sogno; tuttavia ammetto
che fu un’esperienza traviante, ma bella, che mai si ripeterà per mia
volontà, perché non voglio più soffrire come nei giorni dopo il
nostro distacco. E se esiste la possibilità di riprovare le stesse
emozioni, l’allontanerò. Continuerò a vedere nella donna solo il
piacere, ne cercherò il corpo come un animale, ma non andrò oltre; non
vorrò provare sentimenti in cui tuffarmi alla cieca.. Preferisco vivere
senza affanni soffocanti, lontano da pericoli troppo profondi ed
imprevedibili. O forse un giorno incontrerò un’altra donna che mi
farà impazzire e sbaglierò ancora, e già so che ci cascherò di
nuovo.
Arrivai nella stazione in cui dovevo scendere. Presi
i bagagli, li deposi fuori dallo scompartimento. Quando le chiesi il suo
indirizzo ed il numero di telefono, me li diede, però, per il momento,
avrei potuto intrattenermi con lei solo amichevolmente. Non era più
quella che si era rivelata la notte passata... Era meglio troncare tutto
o lasciare sistemare al tempo i nostri futuri rapporti?! Quello che
avevamo passato insieme, era stato bello anche per lei, ma ora doveva
estromettermi e dedicarsi ad una persona che per me aveva tradito, e
ferito nell’animo ferocemente. Io non capii e rimasi a sentire come un
ebete. Perché mi aveva mentito fino all’ultimo istante, perché aveva
promesso cose che immediatamente si dovevano rivelare false; chi era
veramente?! Scendemmo, percorremmo una decina di metri, in silenzio,
distanti, soli, come esseri indifferenti. Lei guardò avanti, cercando
con lo sguardo qualcuno. Poi, rivolgendosi a me disse: "Joe, mi
dispiace, è stato bello... ma tra noi adesso tutto è finito!" Un
uomo l’abbracciò, si baciarono. Prese la valigia di pelle della
piccola e s’allontanarono. Li seguii con lo sguardo, come uno stupido.
Lei si volse indietro, mi guardò, sorrise e mi schiacciò l’occhio.
Chinai la testa e me ne andai…come una pecora - grazie per avermi
trasformato, non sono più così.
Ripresi gli studi classici, che avevo interrotto per
qualche tempo (?). Mio padre mi fece frequentare da esterno la
scuola del seminario vescovile della città capoluogo di provincia che
avrebbe dovuto ospitarmi per due lunghi anni.
In quell’istituto aveva insegnato un fratello di
mia nonna, un prete, lo zio Salvatore, chiamato da me appunto "lo
zio prete". In portineria papà mi salutò, poi fui accompagnato
dal rettore del seminario. Padre Norma era speciale, un vecchio dalla
barba bianca, senza capelli, dalla voce cavernosa. Si occupava del
convento da più di trent’anni. Mi invitò con una calma serafica ad
entrare nel suo ufficio. Mi fece accomodare su una sedia con i
braccioli. Poi mi fece questo discorso: "Joe, tu starai in questo
luogo per due anni. Con me mangerai, studierai, dormirai, defecherai. Io
sarò la tua vita. Per due anni non ti farò uscire, e resterai a mia
disposizione completa. Prima di divenire sacerdote, credevo in Dio; ma
attraverso lo studio dei testi sacri, attraverso il tempo ho capito che
quel Dio non esiste. Il vostro Dio è ciò che un essere
inferiore chiama il Nulla. Nel corso della mia vita ho visto troppe
nefandezze, troppe atrocità. Uomini patire la fame, altri uccidersi per
avidità. E come può un qualsiasi Dio permettere le aggressioni brutali
a danno di un intero popolo, di una società, di un singolo individuo?!
No, non può esistere Dio, quell’entità che dovrebbe prendersi cura
degli innocenti, rinsavire i pazzi, capire i cattivi, perdonare gli
errori, guarire i morti. La verità è che non esiste verità
alcuna, né del divino né dell’umano, non esista la verità assoluta.
Ciascuno di noi è Dio, Destino, Morte e Creatore degli altri. Se io in
questo momento decido di ucciderti, divengo la tua morte, se decido di
riversare il mio affetto in quel corpo, contenitore della tua vita,
divengo il tuo protettore. Ciascuno di noi agisce, perché altri
agiscono per noi. Ogni uomo è legato con una corda al collo di un
altro, a tutti gli altri. Proprio in questo attimo, mentre io ti parlo,
l’alito delle mie parole smuove degli atomi e questi degli altri,
causando una reazione a catena lunga infinitamente, che diverrà una
tromba d’aria in America, vento favorevole per le vele dei pescatori
delle Indie, energia che spinge un gattino dal corpo della madre verso
la vita. Ma per te non è altro che il fiato, il fetore di un vecchio
pazzo. No, non esiste quel Dio. Iddio sono io! E come tale devo essere
venerato ed ubbidito dalle mie creature ossequiose. Essendo Esso, ho
ogni potere sui tuoi compagni; e ciecamente tu, anche tu sei mio! Non
riceverai visite da parte di nessuno, non scriverai a nessuno. Anzi,
voglio essere sconvolgentemente buono. Ti do il permesso di avere
corrispondenze epistolari. L’unico destinatario delle tue missive
sarò io. Scriverai a me, usando la dicitura Deus. Non avrai
spiegazioni di alcun tipo sugli ordini impartiti. Prima di coricarti
dovrai recitare la preghiera della buona notte, che è questa: "Non
esiste al mondo altra divinità, fuorché quella che mi protegge e mi
conduce in queste tenebre diurne, Deus, assistimi!" Adesso sai già
abbastanza. I tuoi compagni ti istruiranno. Puoi uscire." Per tutta
la durata del discorso non riuscii a capire niente. Avevo a che fare di
sicuro con un folle. Un pugno mi colpì sul naso. Qualche ora dopo mi
ritrovai in infermeria. Un compagno mi aveva colpito perché avevo,
già, disubbidito agli ordini del Deus. Ma in cosa consisteva questa
insubordinazione? Non l’ho mai saputo.
L’infermeria era situata al terzo piano del
palazzo. Dalle finestre si osservava uno splendido giardino, pieno di
alberi di ogni tipo. Tra l’edificio ed il muro esterno ci stava il
cortile. Alcuni ragazzi vi passeggiavano, altri giocavano a rincorrersi,
altri ancora facevano il giro del piazzale in ginocchio. Probabilmente
pagavano per qualche marachella. Il prete infermiere era straniero,
forse tedesco, forse svizzero, giacché non riuscii a capire una sola
parola di quelle che diceva. Fui dimesso. Uscendo dall’infermeria,
scesi giù per le scale all’interno della Torre che portava abbasso.
Nessuna finestra, nessuna luce illuminavano il mio percorso (forse
adesso…sì, ma è durata un attimo). Tutto era oscuramente invisibile.
Camminavo già da mezz’ora, ma non arrivavo mai. Continuavo a scendere
all’infinito. Avevo persino perso cognizione del tempo, perché
vagavo, vagavo finché non inciampai in qualcosa che mi intralciò il
cammino. Mi chinai, tastai e nello stesso tempo odorai. La puzza era
insopportabile. Proseguii, fin quando un muro non mi fermò. La Torre
non aveva via d’uscita (per Pattyangel era un labirinto, quello del
suo angelo cieco). Tastando tra le pietre, alla ricerca di un qualsiasi
congegno magari costruito per l’apertura di una possibile porta,
trovai un tubo. Da lì gocciolava dell’acqua. Avevo sete. Bevvi. Era
buona. Un piccola apertura mi permise di inserirvi una mano, un braccio.
Qualcosa di carnoso, una specie di budello rigido, venne afferrato nella
mia ricerca. Allentai la presa e strinsi, ma non capii. Il tatto non mi
rivelava niente. Sconfitto dall’inutile esplorazione, dal non trovare
un passaggio, risalii.
Il sole brillava come non mai, ed il campo di grano
splendeva immensamente. Anna era sdraiata al mio fianco, gli occhi
chiusi, i capelli sparsi sul suo petto. Ripensai a quel sogno che un
anno fa mi aveva sprofondato per alcuni giorni nella tristezza di un
animale braccato dai cani. Non fu facile riacquistare la gaiezza perduta
a causa di una notte maledetta; un’intera, folle insania che ottenebra
chi incatena. Ancora mi tormento per quello che avrei perduto se tutto
fosse stato vero. Ma l’onirica deviazione sensoriale, mentale, è
capace di modificare la realtà in tutte le dimensioni possibili. Per
fortuna era stato solo un pezzo di esistenza non vissuto veramente, ma
vissuto come vero. Adesso però Anna era accanto a me. Avremmo passato
insieme ogni attimo, avremmo goduto felicemente i frutti di un’esistenza
senza frontiere, che aveva attraversato un periodo buio, solo nel mio
incubo, ma che proprio per siffatta causa aveva acquistato nuova forza,
trionfando finalmente nella giusta meta (altari, abiti bianchi,
fotografi, e gente che ti butta il riso… per fortuna era un incubo).
Il fiume Gallo Aureo scorreva silenzioso ai nostri
piedi, e gli uccellini volavano a stormi per i cieli, all’intorno. Da
ogni parte il mondo mostrava l’allegra natura ridente, in quel vallone
silente e immerso nel sole della mia campagna siciliana.
Non so perché, ma qualcosa di strangolante mi
annebbiò la vista. Persi i sensi.
Padre Norma mi aveva trovato svenuto nella Torre.
Sì, stavo ancora vivendo quel sogno! Mi ero davvero sbagliato, ed ora
mi trovavo in pieno sbigottimento, senza possibilità di sfuggire ad
altre complicazioni labirintiche della mia fantasia, di quel mio passato
fittizio, di questo presente disperato, che non mi davano tregua.
Francesco, Ludovico e Piervito mi accompagnarono in
camerata. Il mio posto letto era nella terza fila della colonna degli
eroi. I miei compagni erano vestiti di verde, come se indossassero una
tuta mimetica, da combattimento, di quelle che si usano nell’esercito.
Feci una domanda ad uno di loro. Mi rispose: "Ma come, Joe, sei
qua, con noi, In accademia! Il colpo alla testa che hai ricevuto cadendo
giù per le scale, ti ha rincoglionito?" "Ma che cazzo
succede, dov’è padre Norma? E chi siete voi, io non vi conosco."
Mi rispose Ludovico "Joe, ma sei sicuro di star bene, o ci prendi
per il culo?" Non sapevo cosa rispondere, cosa pensare. Forse stavo
rivivendo, in quei sogni, tutte le vite possibili che avevo vissuto, o
che avrei potuto vivere. Ogni possibile combinazione, ogni biforcazione,
ogni diramazione della mia esistenza (o di quella di altri), io l’avrei
imboccata. La sovrapposizione delle altre vite, che si intersecano a
nostra insaputa, si ficcava nella mia consapevolezza… O forse stavo
ancora sognando?!
La Scuola era stata fondata circa duecento anni
addietro – se v’interessa, nel 1787. Illustri combattenti vi erano
stati formati e addestrati. Eroi ed uomini comuni che avevano reso
splendida la patria coi loro meriti. Per entrare a far parte della
Scuola, bisognava sostenere degli esami di cultura generale, delle prove
psicoattitudinali, dei saggi ginnici.
Arrivai in città con mio padre alla fine di
settembre. L’ardente sole del meridione rendeva la città ancora calda
ed addirittura soffocante. Il mare era cosparso a perdita d’occhio da
battelli e natanti. Bagnanti si divertivano a giocare tra le onde,
ragazzini correvano sulla spiaggia. Bambine si strappavano i capelli.
Donne ed uomini prendevano il sole, e il sole prendeva loro. Io li
osservavo dall’unica finestra della pensione in cui alloggiavo.
Di primo mattino, era lunedì, ci recammo in Via
Generale Parisi. Davanti al portone della scuola stavano già altri
figli ed altri padri. Tutti i ragazzi dovevano sostenere come me degli
esami, che si distribuivano in tre giorni.
Mi ero preparato per circa tre mesi, studiando e
ristudiando tutti i testi sui quali sarei stato interrogato. Alle ore
nove i militari fecero entrare solo noi aspiranti allievi, mentre i
genitori furono fatti accomodare nel parlatorio. Ovunque c’erano
cannoni d’altri tempi, obici, alabarde, spade, sciabole, medaglioni e
trofei e coppe che adornavano delle teche. Mitragliatrici e fucili
moderni stavano in armeria, dove era custodito anche tutto l’altro
materiale bellico moderno. Molte le divise indossate da manichini, che
testimoniavano l’evoluzione dell’abbigliamento da libera uscita, da
combattimento, da tempo di pace, da occasioni particolari che nel corso
dei duecento anni di vita della Scuola, aveva caratterizzato essa e l’esercito
sotto i vari regni, regimi, forme diverse di governo. L’evoluzione:
quel processo che permette ad un uomo di sopprimere, un tempo con la
spada, un tempo col fucile, un tempo col totale controllo di ogni
esistenza, e poi, niente più.
Superai discretamente le prove della giornata. I
professori del concorso erano stati gentili nei confronti di tutti gli
aspiranti. Però tanti furono scartati ugualmente. La maggior parte di
coloro che avevano fatto domanda per il concorso era stata decimata alle
visite mediche preliminari. Ritornai in albergo. Ero esausto ma
contento. Di sera con mio padre andammo a mangiare in una locanda del
quartiere. Una cameriera cogli occhi a mandorla, mi chiese: "Ma tu
sei Joe, vero?" "Sì, sono io... tu come fai a
conoscermi?" "Mi chiamo Osanna e sono la sorella di Ludovico,
oggi vi siete conosciuti durante le prove orali. Io ero là. Ludo è qui
in cucina che sta studiando, ora te lo chiamo subito." Questi venne
da noi; lo presentai a mio padre, poi si sedette al nostro tavolo e
mangiammo insieme. Da quel giorno diventammo amici. Dopo cena ritornammo
nella pensione. Ma non trovammo più l’edificio. La fogna sottostante
aveva ingoiato ogni mattone di quella costruzione. La padrona e i suoi
ospiti giacevano ormai tra la melma e i ratti, come i miei vestiti.
Passammo la notte nella galleria parallela alla cavità che aveva
inghiottito la casa. Da lì i pompieri scavavano per recuperare i morti
e i nostri indumenti. Martedì sostenni altri esami. Passai anche
quelli. Finalmente arrivò il terzo ed ultimo giorno, quello decisivo.
Fui ammesso in accademia con un punteggio abbastanza alto. Fra tanti
aspiranti, mi ero classificato ventunesimo nel mio corso.
Forse non ho provato, durante la mia giovane vita,
gioia più grande, di quando lessi il mio nome fra i vincitori. Mio
padre era contentissimo (il suo superometto di quindici anni, la sua
creatura extraordinaria… Ero perfetto). Tornammo al paese. Presto la
notizia fu di dominio pubblico. Tutti i miei conoscenti, gli amici, i
parenti si congratularono con me. Ero felice. Non vedevo l’ora di
rimettermi in viaggio, di entrare a far parte, gloriosamente, della
Scuola. Stetti in ansia sino al giorno della mia partenza definitiva.
Il commiato dagli amici fu molto sofferto. Al porto
mi accompagnarono mia madre, mia sorella e i parenti più stretti. Non
mio padre, che in quel periodo si trovava in Romania. Alle otto di sera
la motonave partiva; mi imbarcai. Dal ponte guardavo le piccole figure
che aspettavano sul molo. Pian piano, salpammo. Salutai per l’ultima
volta i parenti. Lacrime bagnarono ancora il mio viso di fanciullo. Mio
cugino Franco, un ragazzo morto a ventisei anni, qualche mese dopo che
ero entrato in quella Scuola, si prese cura di me per tutto il viaggio,
sino all’arrivo a Napoli, dove sbarcammo con la sua sempre viva Fiat
500 arancione. Capii cos’è la morte quando appresi della sua
prematura scomparsa. Lui era un ragazzo buono e tranquillo e non pensavo
potesse morire. Per me allora morivano solo i cattivi (avevo quindici
anni… adesso invece penso che prima muoiano i buoni!). In quel
punto cominciò a vacillare il mio credere qualcosa giusto o ingiusto,
bene o male. Lì capii che ciò che accadeva era sottratto alla bontà,
o agli uomini. Morì la mia fanciullezza.
L’indomani, alle ore sei e trentasette la nave
entrava in porto. Ero arrivato. Andammo in direzione della Scuola. Al
portone d’ingresso, Franco mi lasciò e se ne andò. Lo rividi dopo un
mese, per l’ultima volta, quando mi portò gli ultimi dolci che
mangiai con Ludovico. Attraversai il cancello che dopo il portone
centrale apriva la via all’interno. Un ragazzo di circa diciotto anni
mi condusse nella mia camerata. Mi diede del "lei" ordinandomi
di stare in attesa lì. Avevamo superato il concorso in centodieci,
divisi in due tronconi: settore umanistico e settore scientifico. La
sveglia era alle sei e trenta, tranne la domenica, in cui ci si poteva
alzare alle ore otto. Mezz’ora prima era vietato levarsi dal letto
anche per andare in bagno. Ed in ogni caso non ci si poteva preparare
prima dello squillo della tromba. La giornata era così suddivisa: ore
sette studio obbligatorio in classe; ore otto adunata in piazza d’armi
per l’alzabandiera. Alle otto e cinque c’era la colazione, alle otto
e quindici l’inizio delle lezioni, che duravano per tutto il mattino
sino alle ore tredici. Alle tredici e cinque il pranzo, sino alle
tredici e quarantacinque. Poi c’era l’addestramento particolare, ma
alle ore sedici e quarantacinque si ritornava in aula a studiare. Alle
diciannove e quarantacinque c’era l’ammainabandiera in cortile, poi
sino alle ore venti e venticinque la cena. Dopo cena ci si poteva recare
in sala-convegno, oppure in aula, per lo studio libero. In quello
obbligatorio si dovevano studiare i testi scolastici; in quello libero
si poteva leggere dell’altro; o scrivere lettere, ecc. Insieme con i
miei camerati o compagni di corso, fui sottoposto all’apprendimento
della disciplina. Imparai a marciare, sparare, ubbidire.
La Scuola divideva i cadetti per anzianità: quelli
che frequentavano il primo anno (cioè le reclute), quelli del secondo
anno, e quelli del terzo, cioè gli "Anziani." Il rapporto che
si instaurò fra noi del primo corso e quelli del secondo fu pessimo,
però dovevamo rispettarli in quanto più anziani di noi. Il comandante
di squadra era chiamato "istruttore" (la squadra costituiva l’unione
di circa dieci, undici persone) e di solito era un allievo del secondo o
terzo anno; lo "scelto" comandava il plotone, formato da tre o
quattro squadre, ed era unicamente del terzo anno; la compagnia era
comandata da un "caposcelto" del terzo anno. Ciascun
caposcelto, tre in tutto, eseguiva gli ordini del caposcelto di
battaglione, formato da tre sole compagnie: la Prima, la Seconda e la
Terza, ciascuna corrispondente inversamente al grado di anzianità. I
militari del terzo anno erano i nostri veri padroni; ogni volta che ci
si rivolgeva a ciascuno di questi, bisognava specificarne: il nome, il
cognome, premettendo: "Lei è il Divinissimo Anziano Maturando,
allievo..." E posponendo: "Del Gloriosissimo nonché
Carismatico", poi seguiva l’anno di studi e la sezione del Corso.
Schiaffarsi sull’attenti e dire: "Comandi", come avviene del
resto nell’esercito. Ciascuno di loro poteva fare della nostra persona
quel che gli passava per la testa, naturalmente nei limiti del legale,
ed a volte dell’illegale. L’assoluto rispetto dovuto era parte
integrante del trattamento inumano, cui la nostra domata volontà era
sottoposta. In sala convegno ci si plasmava alla resistenza passiva,
creandoci automi pronti ad eseguire gli ordini ciecamente. Naturalmente,
gli ufficiali addetti alla nostra formazione generale, fingevano di non
sapere niente di tutto ciò che avveniva di nascosto. Questi, d’altronde,
si servivano dei cadetti più anziani per impartire ordini e
disposizioni legali, ragion per cui il "Cappellonaggio" era
dichiarato od occultato come inesistente, o, in ogni caso,
ridimensionato. Il "Cappellonaggio" era la preparazione
occulta, la dipendenza gerarchica, la forza di corpo, il rispetto delle
regole esoteriche, dettati e messi in atto tra Anziani ed allievi del
primo anno. Infrangere queste regole significava essere considerati
indegni, spie del sistema militare legale. La spia veniva isolata da
tutti, soprattutto dai compagni di corso, considerata vile, costretta ad
abbandonare la Scuola. Gli anziani la ritenevano persona "non
esistente", maltrattata e sottoposta a soprusi regolamentari dagli
istruttori e dagli scelti, capi effettivi e leciti del militare della
squadra o del plotone, o della compagnia in questione. La sua vita: un
inferno nell’inferno. La soluzione: chiedere il nullaosta per
abbandonare con tutto il disonore la scuola. Resistere significava
vincere. Vincere, significava essere veri uomini. Dopo alcuni mesi di
frequenza, resistenze fisiche e mentali, torture, acquistai in quel
regime, duro ed esasperato, una vigoria mai avuta prima. Una sera,
mentre stavo sistemando i miei capi d’abbigliamento nell’armadietto,
secondo uno stereotipo affisso in bacheca, un anziano venne e mi disfece
i capi piegati, per pura spavalderia. Io gli dissi: "Ma in questo
modo mi mette in difficoltà col tenente che passerà per il
contrappello. Vedendo i vestiti non piegati perfettamente (per la qual
cosa impiegai un’ora), mi punirà ed io non potrò andare in libera
uscita." Quello mi rispose: "Lei è un coglione! Si schiaffi
sull’attenti quando parla con me, alzi la testa, divarichi le punte
dei piedi, tenda le braccia." Strillava come un esasperato; poi mi
ordinò la "corsa sul posto." Obbedii per circa mezz’ora,
poi stanco dissi di non farcela più e mi fermai. Non l’avessi mai
fatto… dovevo essere pronto a quei trattamenti che erano normali a
tutte le ore del giorno. La mia ribellione fu considerata grave. Due
anziani mi si avvicinarono. Uno di loro mi pose una domanda: "Lei
vuol fare l’eroe o il comunista forse?" "No", risposi
io, "Però trovo ingiuste tutte queste assurdità." Quello che
mi aveva disfatto l’armadietto gridò: "Io le spacco il culo
terrone." Gli risposi: "Lei mi provoca solo un’eiaculazione."
Pugni mi colpirono da tutte le parti, fui calpestato come un verme. Alla
fine mi ruppero la testa contro l’armadietto. Ecco, adesso ricordavo,
i miei compagni avevano giustificato le ferite alla testa ed al corpo,
dicendo che ero caduto per le scale. Avevo passato quei due giorni all’infermeria.
Appena tutto mi fu chiaro, ritornai a condurre la vita di sempre. Marce,
adunate, lezioni, regolamenti di disciplina militare, ecc. Durante lo
studio, Massimo, di nascosto, mi disse di andare in cappella perché lì
mi aspettava un compagno. Con una scusa dovevo uscire. Chiesi al
professore di potermi recare in bagno, perché avevo mal di pancia.
Acconsentì. Uscii, mi recai verso la cappella.
Padre Norma, che si trovava nel corridoio volle
sapere dove stessi andando. Gli risposi "in cappella" per
pregare Dio, cioè lui, di aiutarmi, di intercedere per un’interrogazione.
La costruzione sacra non era che una sala qualsiasi all’interno del
seminario, con tanti bei dipinti ed alcune statue. Due file di panche
erano sistemate in perfetto allineamento coi muri. Nella parte centrale
dell’altare la croce con una scultura riproducente padre Norma, si
stagliava imponente. La porta della sacrestia si aprì ed io entrai. Si
richiuse, ed una mano, nell’oscurità, prese la mia. La sua aveva
delle dita sottili, le unghie lunghe e curate, una pelle liscia, come
una donna. Gli chiesi: "Chi sei?" La persona non mi rispose,
ma mi accarezzò la guancia sinistra, poi la fronte. Alla fine ci
baciammo e continuammo per un po’. Però, era bello, od almeno mi
piaceva. Placato nei miei istinti di pulsione sessuale, ritornai in
classe. Prima di rientrare mi accorsi che Teresa usciva dalla cappella,
si imbatteva in padre Norma, e veniva aspramente rimproverata. Lei non
aveva il permesso di entrare in chiesa, come tutti d’altronde, senza l’autorizzazione
del professore. Quella sera ricevette dieci frustate in più. Alle
ventidue, prima di ritornare nelle nostre cellette, passammo dal
frustatoio, una camera che si trovava negli scantinati. Ci svestimmo, ed
ad uno ad uno ci facemmo frustare. Dopo quella punizione, andammo nelle
nostre camerette. Il corridoio del quarto piano, che portava alle scale
per accedere al quinto, era illuminato da candele poste in dei
candelabri di ferro battuto, ciascuno a dieci metri dall’altro. Salita
la scaletta, fummo a destinazione. Teresa dormiva nella cameretta
attigua alla mia, cioè a destra della finestra centrale. Ogni notte, io
l’andavo a trovare e parlavamo del mondo libero, della morte, di
musica. Lei aveva avuto una storia con un ragazzo del suo quartiere. Lo
amava. Si chiamava Eugenio. Il loro sentimento era nato molto tempo fa,
quando erano ancora bambini. Giocavano, stavano insieme tutto il giorno;
come compagni di scuola frequentavano lo stesso istituto. Insomma, erano
in piena sintonia; differentemente da quanto avveniva tra i loro padri,
che si disprezzavano ipocritamente. Da giovinetti, quando i sentimenti
evidenti fra i due giovani stavano per causare qualcosa di irreparabile,
la famiglia di Teresa decise di prendere una decisione sul da farsi
immediato. Ma l’animo della piccola era oramai tutto votato alla
persona del suo amante. La vita e la morte erano per i due la medesima
cosa. Niente infatti li avrebbe separati. Solo una formazione
particolarmente dura avrebbe potuto modificare il carattere ed i
sentimenti della dolce ed influenzabile ragazza, e il tempo avrebbe
avuto senz’altro un effetto di lontananza e dimenticanza sull’indole.
Arrivò in seminario due giorni dopo di me. Era molto fragile, timida ed
indifesa. Padre Norma la trattò fin dal primo colloquio con estrema
crudeltà. Il vecchio infatti non aveva pietà per nessuno. Era di
pietra, insensibile e apatico, preso solo dal culto della sua persona,
della sua fantomatica divinità. Povera Teresa, non sarebbe sicuramente
sopravvissuta ai tormenti fisici e psicologici di quell’infame sistema
schiavizzante; per cui, solo la solidarietà, l’amicizia di noi
confratelli riuscì a sostenerla nel suo cammino ignobile. Inoltre il
nostro rapporto fraterno, che divampò ben presto in qualcosa d’altro,
valse a darle un coraggio inaspettato. Dimenticò persino il suo vecchio
amico, al quale però fece pervenire di nascosto l’ultima lettera, l’ultimo
segno di ciò che era esistito fra di loro. Epilogo amaro per una storia
che avrebbe avuto un altro esito, se le tristi vicende dei rapporti
interpersonali non subissero ogni giorno, e sempre costantemente, delle
contrapposizioni e delle ingerenze dettate dalla morale, dall’interesse,
e da ogni egoistica sopraffazione. Io ebbi la possibilità di leggere
questa lettera. "Caro Eugenio, ti sto scrivendo dopo lunghi mesi,
lunghi tormenti indescrivibili. Di tutto ciò che mi è accaduto, non ti
farò alcuna menzione, anche perché ti sembrerebbe falso e
inattendibile. Se solo ti parlassi chiaramente, senza nasconderti nulla,
se solo ti dicessi delle punizioni sarei presa per pazza, mentre è la
pura e semplice realtà. E, credimi, in questo caso la Verità non è
molteplice, non è soggettiva, perché la punizione è tale, anche se
per me è vissuta come sofferenza e per altri come piacere. Si tratta
sempre di un’imposizione! La mia famiglia ha ritenuto che il nostro
sentire degenere, e tu sai di cosa parlo, non sarebbe stato compreso.
Questa gente dedita unicamente alle apparenze è proprio incapace di
valutare il non ordinario. Lo straordinario. Forse è stato un bene,
forse no. Di sicuro, ho la sensazione che saremmo finiti male. Qualcuno
da qualche parte avrebbe scoperto qualcosa e ci avrebbero ammazzati.
Inoltre qui, dove tutto è possibile nelle eterne notti, nelle oscure
segrete, nelle silenziose stanze, ho la facoltà di vivere immensamente,
per sempre protetta dalla comunanza di idee ed affetti che ciascuno di
noi nutre per il proprio compagno. La vita ristretta crea dei sentimenti
che anche tu, anche tu che sei stato mio non riusciresti pienamente a
condividere, se non di presenza. L’amore è un dono del destino. Un
giorno forse ci incontreremo, forse no. Sicuramente so che la vita senza
di te è bella ugualmente, è la mia vita, ed è incantevole anche qui,
che è il luogo più lurido di questa terra. Fra noi poveri amici regna
la complicità, e ciò mi basta e mi ripaga di tutte le pene lunghe in
cui quasi soccombo. Joe è il ragazzo che mi sta accanto, che mi aiuta,
e del quale mi sono innamorata. Sì, adesso penso di dedicare ogni
attimo, ogni memoria, ogni pensiero, alla straziante e piacevole
sensazione che questa creatura provoca in me. Sarò per sempre sua e mai
l’abbandonerò, dovessi immolarmi per lei, dovessi uccidere per lei,
dovessi sopprimermi per lei. La adoro pazzescamente e non so staccarmi
da questa gioia immensa neanche per un solo attimo. La morte, cos’è
la morte, al pensiero di essere vissuta veramente, di avere amato, di
essere stata una delle poche conoscitrici di un mondo così diverso da
quello che mi ospitava un tempo?! Sai, c’è stata un’epoca in cui il
mio attaccamento alla vita è stato grande. Adesso però si è
accresciuto, perché vivo soprattutto per il mio amante. La notte, e il
giorno, parliamo per ore ed ore, sogniamo, pensiamo insieme, guardiamo
la luna che illumina il nostro mondo solitario e invisibile agli altri.
Quelli che conoscono, conoscono solo ciò che gli è concesso conoscere.
A volte andiamo sui tetti, e nel freddo dell’inverno
ci spogliamo e ci riscaldiamo, stretti come due animali in simbiosi. Ed
il cielo, luccicante di stelle, o nero come il dolore, avvolge il nostro
amplesso, nascondendoci da losche presenze che si aggirano silenziose,
spiandoci, imitandoci. Non riceverai più da me alcuno scritto, e questa
considerala una lettera d’addio. D’altra parte, sarebbe impensabile
un nostro futuro rapporto. Io, appartengo adesso ad un altro! Ti ho
amato, sei stato il fedele compagno della mia fanciullezza e della mia
prima giovinezza. Ma circostanze imprevedibili e ineluttabili hanno
modificato le mie scelte iniziali, distogliendomi da tutte le esperienze
passate, slegandomi da tutte le corde che mi tenevano legata ai ricordi.
Un giorno capirai... forse non ce ne sarà bisogno. Però sappi che,
vuoi che io sia ancora nel tuo cuore, vuoi che non vi sia più, io ti ho
amato! Perdonami! Vivi la tua vita, come io vivo la mia. Ciascuno
appartiene a chi ama. Addio, Teresa."
Eugène non ricevette mai la sua lettera. Era partito
due mesi dopo l’allontanamento di Teresa dal paese. Dove scappò,
nessuno lo sa. D’altronde la famiglia lo cercò invano lontano. Poi
chi avrebbe dovuto interessarsene?! Teresa lo ha lasciato, e gli amici
abbandonano sempre dopo qualche tempo dal lutto o dalle ultime
separazioni. Siamo soli, e lo sappiamo. Fingiamo di non essere tali,
perché, il giorno in cui ci abbandonassimo a quel destino che attimo
dopo attimo ci accompagna da soli alla morte, prenderemmo coscienza che
la vita è una pura illusione del presente. E c’impiccheremmo.
Morti i veri cari (ma il grande amore esiste!), tutti
gli altri sono portati via dalle disgrazie e dalla morte. Chi penserà a
noi? Un ospizio che ci rimbambisce, un parente che ci sopporta, un amico
che ha ipocrisizzato per tanto tempo, uno Stato che ci mantiene
miseramente?
Io che ora so d’essere vivo e amato, so che ora
sono inesistente. Guardo una porta davanti a me. E’ chiusa la stanza.
Al di dentro io esisto perché io mi vedo. Al di fuori non sono, perché
nessuno mi vede.
Finita la scuola, nei primi giorni di giugno mi
recavo ogni mattina da lei. Insieme stavamo tantissimo. Se io, adesso,
volessi fare un’analisi delle nostre discussioni e dei suoi
ammaestramenti - era più grande di me di ventiquattro mesi anagrafici,
quindi l’aria e la disinvoltura affettate di una donna nei riguardi di
uno più giovane - non saprei cosa risolvevano veramente, anche se mi
davano una certa sicurezza davanti alla mia inesperienza. I miei dubbi
erano a lei confessati e da lei risolti senza un mutamento della
sostanza.
La semplice ammissione di un fatto, di un
comportamento, di una confidenza, bastava a muovere delle connessioni di
accadimenti che conosceva, ma che solo ora ricostruiva in un contesto
più chiaro. Lei così capiva e sorrideva. Sebbene i suoi denti e la sua
bocca non fossero modellati come avremmo desiderato, a me mostrava
ugualmente quell’apertura ad altri non concessa. Pochi potevano
affermare di averla vista socchiudere le labbra, se non quel tanto che
bastava alla voce per uscire. Io ben presto vidi anche dell’altro.
Dall’abbaino della mia mansarda, in certe ore
pomeridiane da noi concordate, salivo sul tetto rosso di casa e mi
mettevo in una posizione favorevole, stando attento a non scivolare
nella terrazza che si allargava sotto. Con un vecchio binocolo rumeno,
di ottone o rame, recuperato da mio padre in chissà quale circostanza
da quella terra remota (ero bambino) durante uno dei suoi tanti viaggi,
iniziavo a perlustrare il cielo poi le case all’intorno. Quindi
dirigevo l’attrezzo in direzione della villa di Brina, che a circa
duecento metri s’innalzava su uno spiazzo a metà tra uno più alto e
uno più basso. Dalla strada maestra del paese si vedeva questa
costruzione che, circondata da un recinto in muratura, costringeva un
passante non distratto a guardarla. E la sua riflessione: "Chissà
quanto sarà costata?!" Appena lei si accorgeva di me, posava il
suo binocolo sulla scrivania della stanza, che era visibile anche a
occhio nudo dal punto in cui stavo, apriva la porta del balcone e
socchiudeva la persiana sinistra, spegneva ogni luce, girava la chiave
nella toppa della serratura della porta interna della camera, e creava
quel giusto spiraglio adatto solo alla visibilità di un cannocchiale.
Il mio. Allora si scioglieva i capelli neri dietro la schiena e iniziava
a liberarsi dei tre bottoni della solita camicetta color di fragola,
indossata come rituale del nostro rituale pomeridiano. Di quei
bottoni un giorno ne strappai uno, affinché l’amica fosse più veloce
nel togliersela. La buttava a terra, si toglieva le calze e a piedi nudi
vi ri-posava. Adesso era il turno dei pantaloni che toglieva flettendo
il busto in avanti, abbassandoli. Si piegava, si sedeva e nuda restava
sulla camicia di fragola. I miei occhi sebbene stanchi e grondanti di
sudore resistevano a fatica a quella figura che si muoveva lentamente,
che si girava e ondulava. Brina iniziava una danza scolpita in ogni
sequenza da un movimento impercettibile, così che non mi accorgevo del
passaggio da una figura alla successiva. Il mattino seguente ero di
nuovo da lei. Approfittavamo dell’assenza dei suoi, che andavano a
lavorare, per vivere delle ore agognate, diversamente da come nella
conoscenza dei familiari erano credute. Poteva esistere un’amicizia
tra due giovani che hanno bisogno di altro che di casti scambi di
intimità orali? Potevano due vite avide di sapori appagarsi solo dell’odore
che si sente nella primavera che è la giovinezza, quando tutte le
fragranze sembrano appartenere ad un unico fiore? Fu lei a portarmi nel
limite fertile del non candore. Quando una passeggiata in bicicletta si
trasformò in escursione, ebbi la certezza che lei era più di una
semplice cugina. Non eravamo parenti, ma per vezzo affettivo ci
chiamavamo "cugini". La camminata era circoscritta e si svolse
per più di mezz’ora attorno alla villa tra i muri della casa e quelli
della cinta. Brina mi fece sedere sul sellino mentre lei si adagiava sul
metallo che taglia orizzontalmente in due la parte centrale della bici.
Raggiunto un equilibrio, lei pedalò. Le sue gambe sprigionavano una
forza magnifica, mentre la parte bassa della sua schiena si spingeva
contro di me, alternando una pressione profonda ad una separazione
placida. Il giro c’inebetì. Lei non parlava, procedeva
meccanicamente, coi capelli che le coprivano gli occhi e il busto
proteso in avanti, seguendo come pista non lo spazio di fronte o il
selciato, ma i solchi che dividevano una pietra dall’altra. Di colpo
si fermò. Scendemmo, mi fece una carezza sul viso, mi prese un dito e
mi accompagnò in casa. Lei davanti ed io dietro salimmo le scale fino
al suo studio. Lì si sfogò, poi pianse. Chissà perché, forse per la
sfinitezza che procura un nuovo piacere che si è ricercato senza
raggiungerlo per tanto tempo, forse per l’appagamento soggettivo che
si diversifica da ogni altro.
Facemmo un bagno. Io ero sudato e lei tutta
appiccicosa. Ci adagiammo nella vasca prima di riempirla d’acqua
calda. Il mio viso era a circa un metro dal suo. Troppo. Ci avvicinammo.
Il vapore che saliva annebbiò la stanza e i nostri
sensi. Ci svegliammo quando un movimento inconsulto di una delle nostre
mani fece cadere un contenitore di vetro da una mensola vicina. Era
tardi. Ci asciugammo.
Un giorno le annunziai l’intenzione di partire. Per
diversi anni ci saremmo rivisti solo allo scadere di un certo periodo.
Non capì. Le donne non capiscono mai, o forse capiscono troppo prima.
‘Ste stronze!
Come spiegarle questo desiderio, questo sentire la
mancanza degli astri o questa sfavorevolezza del quotidiano? Non siamo
senza futuro quando la ripetizione di gesti programmati momento dopo
momento, ricalca un passato che è vissuto come futuro, un futuro come
passato e un presente che non lo è? Dove le prospettive per chi vuole
sganciarsi da un contesto che sente come insoddisfacente, per cui deve
seguire una pista non suscettibile di essere mutevole se non nel già
prestabilito dalla comunità che sostenta ma che rende vane le speranze
soggettive di essere altro; da quello percepito da punte massime e
minime di uno schema?
Ci si illude di cambiare vita, accettazione, ci si
illude di trasformare la percezione che una società ha di noi, quando
da un paese ci stabiliamo in un altro. Ma non troviamo che lo stesso
recinto ad accoglierci, forse con atteggiamenti peculiari, ma con
stereotipi chiusi.
Siamo noi individui singoli a dover cambiare noi
stessi?! Non possiamo attenderci che sia la comunità che ci accoglie
che sia diversa o che ci diversifichi dall’alto.
Mio padre, che apparteneva al genere immutabile di
chi nascendo mette le radici usuali – lui mi scrisse un giorno la quercia
- nella propria circoscrizione temporale, un giorno, quando mi
trovai in un altrove, mi inviò uno scritto che mai mi sarei aspettato
da un albero di quel giardino: "Caro Joe, purtroppo non mi
è possibile venire da te prima del giorno ***, come avrei desiderato (e
forse non venne più… ma adesso posso dire che ci riuscì ugualmente,
del resto era quasi un essere superiore). Di ritorno da quel viaggio ho
trovato qui, naturalmente, un complesso di cose che si sono accumulate.
Ho seguito l’andamento della tua richiesta, e mi meraviglia che le tue
versioni differiscano sensibilmente da quelle che provengono dalle mie.
Esiste o non esiste la clausola finale relativa alle mie indicazioni? E
perché hai fatto contemporaneamente due interrogativi? Ad ogni modo,
benché questi dinieghi giungano inattesi, cosa vuoi che ti dica? La
spunteremo! Tutto si risolverà. Io, come già saprai, sono tornato
visibilmente impressionato del trattamento che mi è stato riservato. Ho
scoperto che, lontano da quel mondo, ambiente riservato ormai ai
ricordi di una vita che avrebbe potuto essere normale, esiste un’altra
realtà, in cui uno si presenta nuovo, in cui la gente non chiede nulla
della tua esistenza, all’infuori di quello che sei in grado di dire
sugli argomenti che proponi. Ci ritornerò poiché non desidero vivere
questi tempi nel buco del paese di ***, in cui la realtà è ferma e i
giudizi degli uomini sono immobili. Tuo padre."
Ecco, io mi avvedevo di una profonda novità in lui:
l’illusione del nuovo, l’illusione di un nuovo contesto. Fino ad ora
aveva convissuto con la volontà di essere l’artefice del proprio
vivere e del proprio ambiente, ma passati mutamenti imprevedibili
avevano lavorato fino a condurlo alla comprensione, o non, che è
impossibile alterare il destino, che è impossibile voler andare via per
essere come eravamo in passato per coloro che oggi ci vedono solo come
sembriamo essere, e non come siamo. O no?!
La giornata in seminario trascorreva come sempre,
monotona se considerata dal punto di vista della ripetitività; cruenta
da quello della effettività; gaia se interpretata da quello della
follia o della passione. Vita: costante passione dell’incredibilità.
Ciascuno di noi aveva un nomignolo, affibbiatoci da
noi stessi, da usare di solito quando la comunicazione segreta di un
qualsiasi messaggio, di una certa gravità, rendeva necessario il non
intendimento ai non interessati. I preti, gli altri in genere.
"Teresa" era appunto un nomignolo. Non nascondo che nel suo
caso fosse vitale per tante cause particolari usare questo rimedio, per
non cadere in ancora più tragici episodi di colpa, e relative
punizioni.
Era notte, forse le due, le tre, le quattro, le
cinque. Udii uno strillo, poi un altro. Non mi ero ancora addormentato,
anzi stavo sdraiato insieme con Teresa sul suo letto. Dopo qualche
secondo dal primo vociare, questa volta, udimmo in due dei gridi, forse
delle grida. Qualcuno si lamentava. Gli altri confratelli erano
impauriti, giacché le torture che avrebbero dovuto provocare di sicuro
quei tormenti, erano ammesse soltanto di giorno. Non la notte: la notte
era sacra e come tale dedicata a diversa occupazione. Stranamente però
qualcuno sembrava martirizzato. Ciò poteva essere, tuttavia, solo un’impressione,
una percezione elaborata in maniera errata o inesatta. Nulla infatti
negava che il presunto soffrire non fosse tale, o fosse quello di una
bestia. Mi feci coraggio e incitai anche la mia ragazza, anche se in me
non ero davvero certo di questa sicurezza. Alla fine cercai di infondere
un alito di reazione istintiva a ciò che era soprattutto incertezza
anche generale sul da farsi. Comunque, mi armai della stampella di legno
di un ragazzo zoppo che dormiva nella celletta attigua, e mi diressi
verso la fonte di quello strazio. Il continuo soffrire proveniva dai
locali dell’infermeria e lì mi recai. Nessuno volle seguirmi,
rifacendosi a quel pensiero che consiglia di lasciare agli altri le
sofferenze che patiscono, soprattutto se provocate da un agente esterno
che non conosci e quindi non puoi fermare.
Padre Norma aveva un potere illimitato e nessuno si
sarebbe permesso di causare un dolore qualsiasi se non avesse ricevuto
un suo ordine esplicito, o se non fosse rientrato nelle punizioni
ordinarie. Il Bene e il Male erano di completa amministrazione del
"Deus." Questi, oltre ad arrogarsi assurdi poteri, si vantava
anche di essere "magnanimo."
Mi addentrai sino alla Torre, dalla quale non ero
quasi uscito, quando per caso mi ero spinto incautamente al suo interno.
Il lamento monotono proveniva dalla parte inferiore.
Un essere vi veniva colpito senza sosta da qualche oggetto, causandone
la risposta dolorosa. D’un tratto, il tutto cessò e il silenzio più
tenebroso salì da lontano, fino a trasformarsi, e a divenire
impercettibilmente rumore. Passi trascinati.
Trascorse qualche attimo e dalla scala giunse a me
una presenza.
Impietrito, legato, stordito dalla paura
incomprensibile che mi aveva portato lì, non ebbi il tempo e la forza
di scappare. Ma quale non fu la sorpresa, quando, vinto dallo stupore
della mia codardia, vidi Maurice porsi davanti ai miei occhi. Nudo e
visibile alla luce della luna che lo penetrava dalla finestra dell’infermeria,
frustato a sangue in ogni sua parte del corpo, si abbatté su di me,
lordandomi interamente. Aveva ancora in mano il nerbo con cui si era
punito.
Il perché di quel castigo lo appresi quando, dopo
alcune settimane di cure amorose da parte del padre infermiere, seppi
che un brutto voto in "Storia della natura umana", lo aveva
spinto al sacrificio straordinario dell’autoflagellazione.
Padre Norma, in seguito, escogitò una punizione
adatta a coloro che si fossero macchiati di autopunizione. La dolorosa
lacerazione delle carni, i logorii psicologici, erano infatti un’esplicita
direttiva del Deus, e come tali dovevano essere intesi. Perciò
adoperati solo dietro dichiarazione diretta di colui che ne poteva
ordinare l’esecuzione. La colpa per autopenitenza divenne esecrabile,
e perseguita come infame. La sanzione fu ignominiosa. Consisteva nel
prendere il reo di forza, bendarlo, imbavagliarlo, trasportalo nelle
segrete. Lì veniva "trattato", per due ore al giorno, per due
settimane, nel modo previsto dalla pena. La Pena.
L’esistenza in un’istituzione statale, militare
è particolarmente strana, inusuale, ma in quella Scuola, era davvero
credibile.
Chi può capire se non ha provato, se non ha patito
una siffatta esperienza. Ma a quindici anni, quando un ragazzo esce
dallo spazio ordinario in cui solitamente si muove, agisce, vive, essere
inserito in un ambiente completamente diverso, impensabile, ma nello
stesso tempo, totale, formativo, è molto difficile riuscire a
individuare qual è la realtà estraniante da quella che non la è. E se
c’è una realtà. Fuori e dentro.
Ecco, io mi trovai in un contesto così organizzato,
così perfetto, così veritiero in ogni esposizione a suo favore,
preciso nella giustezza della regolarità, così perfetto nella sua
istruzione, che tuttora non riesco a fare un paragone con la vita
normale di uno che ha vissuto diversamente, e la vita che vissi per
anni.
E se fosse stato un lungo e ininterrotto sogno,
durato appena poco tempo, ma vissuto verosimilmente come tanti anni?!
Per cui, ciò che mi sembrò vero, sarebbe un sogno, e ciò che mi
sembrò un sogno, sarebbe vero. Come posso ristabilire la verità? Come
posso mettere ordine e chiarezza nella confusione che travolge tutti i
ricordi, tutti i pensieri che affollano una mente? Non so più dove
inizia la fantasia, dove la pazzia, dove il passato effettivo. E se si
tratta di un passato. Anche il futuro è causa di scompiglio nella
visione caleidoscopica che mescola l’intera consapevolezza. Sono un
essere pensante o sono gli altri che pensano in me?! In questa
incoerenza di rielaborazione, di sovraesposizione dei fatti, di tutto
quello che provo, che sento, o che mi appare, nella mia tangibilità di
uomo e di identità particolare, o di identità conviventi, non ho più
la facoltà sincera di discernimento che caratterizza qualsiasi altra
stabilità.
Ho unicamente una certezza: soffro, perché so che
non sono più un io. Colui che un tempo fui o non fui, si è
perso nella ricerca di sé stesso, nella volontà esasperata di
conoscersi e riconoscersi. Senza sbocco. Nei pochi attimi di lucidità
in cui piombo casualmente, mi consolo guardandomi in viso allo specchio.
In detto momento mi esamino, mi amo, mi ritengo ancora un "io
univoco", e così facendo mi ammiro. Vivendo sono un eroe. Sono
sopravvissuto a me stesso!
Lo spirito di corpo che nel passare dei mesi si era
venuto a creare tra noi del corso, divenne un qualcosa. Ci sentivamo
forti, degni di tutto l’onore possibile. Ci stavamo trasformando. Il
culto del cameratismo stava cominciando a prenderci, a impadronirsi
delle nostre persone, per privarci della capacità di agire
individualmente e trasformarci in macchine, in carne da macello, in
uomini forti, in schiavi dello stato. Ci si addestrava alla vita come
alle armi, sebbene la preparazione militare e scolastica non fosse ben
distinguibile da tutto ciò che mentalmente era vissuto come totale. Non
c’erano incertezze, non c’erano perplessità, la causa giusta era la
nostra. Credere nella patria, nelle istituzioni, nella forza dello Stato
basata sull’esercito. I civili erano disprezzati, odiati come placidi
borghesi, gente dedita alla famiglia, all’allevamento dei bambini,
alla coltivazione delle rose. Mentre noi eravamo gli ultimi o soli eroi
del nostro tempo. Ed eravamo tutti belli. Bambini che avevano
sacrificato il caldo del focolare, la protezione della famiglia, le
coccole delle madri, per immolarsi per la salvezza prossima di tutti.
Eravamo pronti a morire per una qualsiasi azione, degna di nota,
risaltabile o non, che mostrasse la virtù di noi indomiti guerrieri.
Ecco, eravamo dei combattenti senza pace, in tempo di pace, in cerca di
guerre in cui dimostrare lo spirito di sacrificio inculcatoci nell’edificio
senza contatto con il mondo. Lottavamo contro il vento delle nostre
illusioni, contro i fantasmi creati dai comandanti. Guerreggiavamo
contro il nulla.
Gli orari erano la parte fondamentale della vita in
istituto. Una trasgressione del minuto che sanciva l’inizio o la fine
della lezione in corso, costituiva causa di punizione. La consegna
inflitta era degna di biasimo da parte degli ufficiali; degna di lode da
parte dei camerati. Avere tanti giorni di consegna semplice, o meglio
ancora, di rigore, costituiva considerazione particolare. La punizione
impediva la libera uscita, lo studio, qualsiasi cosa di impegnativo,
encomiabile dal punto di vista del Comando. E questo perché ogni tot di
tempo, la tromba squillava per l’adunata-puniti che riuniva i
consegnati della Scuola in cortile per l’appello, ostacolando in tal
modo il concentrarsi nell’attività.
Per quanto riguarda il comportamento verso il
Comando, ci si spronava all’ossequio. Ma l’ufficiale in se stesso
era visto come entità a parte. Il gruppo, la forza, il battaglione, la
macchina da guerra, eravamo noi allievi.
Io avevo più di centocinquanta giorni di consegna
semplice, nonché cinque di rigore.
Gli allievi del terzo anno si creavano una
commissione segreta d’organizzazione cui prestare ascolto nella
preparazione delle tradizioni non consentite. Erano queste delle messe
in atto di particolari azioni all’interno dell’istituto, da eseguire
contro gli allievi subalterni, contro gli ufficiali: atti di ricorrenza
particolare da mettere in esecuzione in determinate date dell’anno.
Nella più esasperata, chiamata "incursione", si bloccavano
tutti gli accessi alle camerate della prima compagnia. Le vie di
ingresso erano chiuse da barricate erette per l’occasione: panche, fil
di ferro, catene, schiumogeni, armadi. E ciò per bloccare il servizio
di guardia dei militari di leva capitanati dall’ufficiale di
picchetto. Per non essere riconosciuti, ci coprivamo il viso,
incappucciandoci con maschere da scherma, o con calzamaglie da donna.
Poi si andava nelle camerate, delle reclute, le quali erano da noi
distrutte; si scassavano gli armadietti, si demoliva ogni oggetto
abbattibile, si picchiavano gli allievi.
L’azione veniva eseguita di notte. La si preparava
qualche settimana prima, comprando l’occorrente all’esterno della
scuola. La "Coscu" era il gruppo che si occupava di queste
tradizioni illegali. Il "Comitato squaglio", che organizzava
le "uscite" notturne dalla Scuola, ovviamente di nascosto, era
composto da cinque, sei persone, alle quali erano legate, in dipendenza
gerarchica, due o tre "spalle." Queste erano il nucleo
operativo principale, gli elementi della squadra che detenevano i
compiti organizzativi più pericolosi, e delle attività, coloro che si
esponevano in prima linea, che potevano essere sorpresi con più
facilità dalla sorveglianza del picchetto. Durante una di queste
tradizioni, io, che facevo parte del gruppo, venni sorpreso una sera dal
tenente, soprannominato "Trinchetto", a chiudere con una
catena ed un lucchetto il cancello che dava accesso alle nostre
camerate. Mi puntò il fucile e mi smascherò. Riuscii ugualmente ad
avvertire i miei compagni dell’arrivo dell’ufficiale, ma non tutti
ebbero la possibilità di scappare, e così, io e altri quattro espiammo
la pena generale. Un processino interno, davanti al comandante di
battaglione, presieduto dallo stesso, ci condannò con la
"rigore." Non ci fu per noi nessuna possibilità di difesa,
perché accettammo di essere puniti, pagando pure le colpe degli altri
compagni. La Coscu agiva a scadenze predeterminate, seguendo un
calendario puntuale tramandato dal capo-coscu del corso precedente. La
struttura era a vertice, ed il capo era stimato, ascoltato, ubbidito.
Era una figura carismatica.
Accanto alle tradizioni non consentite, ci stavano
quelle consentite, che consistevano in parate militari, caroselli,
sfilate con evoluzioni di bravura e di grande preparazione tecnica e
stilistica. A questi erano invitate alte personalità dell’esercito e
dello Stato, e persone esterne, civili, nonché le nostre famiglie. La
particolarità di queste prove di esibizione stava nel fatto che ci
preparavamo per esse con estrema dedizione e sacrificio.
L’esercito porta ad una comunanza di cose, oggetti,
legami, affetti, amicizie molto stretti. Ed è logico che sia così,
giacché troppo tempo viene passato con i camerati. La situazione è
aberrante. La presenza costante degli altri ti soffoca. Questo
comunismo, queste compressioni coatte di persone nel medesimo luogo,
spingono nello stesso tempo alla creazione di amicizie totali e all’annullamento
di spazi completamente privati e individuali. Facevano parte degli
allievi del Collegio diverse categorie di ragazzi. Chi apparteneva a
famiglie benestanti, chi a casate nobili. Ma i più erano figli di
militari.
Di primo mattino andai a sedermi nella stanzetta di
Teresa, ai piedi della branda. La destai. Le raccontai del sogno che da
tempo mi assediava. Le assicurai che questa volta, forse, avrei chiuso
per sempre con questi tormenti notturni, o diurni, causati dall’Accademia.
Ero certo di avere intravisto, nelle ultime sequenze del delirio, alcune
immagini ingarbugliate, come l’intero incubo del resto, che
sottolineavano il congedo del mio Corso. Eravamo rimasti in pochi, forse
ottanta. Il mio punteggio, nell’esame finale era stato intermedio: né
troppo buono, né il contrario. Ma ora che avevo portato a termine
questo progetto, non avevo ancora la certezza che tutto ciò che di
militare era in me, avesse per sempre una fine. Anzi l’esperienza era
piuttosto viva, e avrebbe interagito con le mie altre forze, nel
dettarmi dei comportamenti particolari. Ingenti potenze non manifeste
consciamente si sarebbero combattute per condurmi nel prosieguo dei miei
accadimenti...
La messa del mattino fu ancora più lunga e più
squallida del solito. La venerazione divina dovuta a quell’impostore,
e al suo seguito di fuori di testa, era cosa nauseante e oltraggiante,
sia per l’assoluta sfrenatezza, quanto per l’incomprensibilità del
perché tanta disumanità continuasse imperterrita. Come mai questa
lordura non era stata ancora smascherata?! Perché lo Stato, la
Società, e gli Ordini supremi ecclesiastici continuavano ad occultare i
misfatti che si perpetravano senza sosta?! Possibile che tutto questo
dovesse continuare senza sosta? O forse coloro che lì ci avevano abbandonato,
avevano acconsentito a tutto questo, magari sottoscrivendo una qualsiasi
dichiarazione di cessione delle nostre persone? Non so se sbaglio, ma
penso che fosse impossibile una consapevolezza e un avallo di questo
tipo da parte dei nostri cari. Quindi solo due possibilità ragionevoli
si offrivano come spiegazioni soddisfacenti: o i nostri genitori ne
erano proprio all’oscuro; o la soluzione stava nel fatto che tutto
fosse vero, l’intera vita pure, però inquadrata nell’incubo, nel
percorso alternativo, che prontamente nel sonno mi trascinava in un’esistenza
concorrenziale, lacerandomi. Ormai stanco di vivere o di immaginare
malamente, mi decisi. Dovevo scappare, scappare da tutti i luoghi,
istituti, caserme, sogni a occhi aperti, che non fossero scelti da una
mia volontà precisa. Avevo sempre accettato passivamente le
imposizioni, anche correttrici, di persone da me amate, e di fantasie
incontrollabili, che tuttavia mi portavano senza illusioni in situazioni
abnormi e travianti.
Non ne potevo più. Non sarebbe stato facile andar
via, e neanche rintracciare il mio destino, eppure dovevo farlo, dovevo
creare una scia che fosse scavata e percorsa unicamente dal mio volere.
Di nuovo, in quello che avrei fatto adesso, c’era una determinazione
prima inesistente: la volontà di cambiare, di essere io a modificare o
a inventare me stesso. Mi ero improvvisato, o riscoperto, combattente.
Con Teresa organizzammo un piano di fuga, che
avvenisse possibilmente di notte, quando l’organizzazione clericale
fosse già ottenebrata dal velo del sonno. Volevamo coinvolgere nel
nostro intento anche gli altri seminaristi, che non erano certo
favorevoli alla coatta permanenza in simile posto. Non fu facile
architettare la nostra "uscita", ma la necessità ci avrebbe
aperto ogni porta. Purtroppo, gli amici non ebbero la forza di seguirci,
vuoi per insicurezza, vuoi per paura dei parenti, vuoi anche per il
terrore che avevano dei preti. Erano animi succubi della potente
ignominia interna e vittime della propria debolezza. Teresa approvò
ogni mia decisione. D’altronde ratificava tutto ciò che proveniva da
me. Timida sì, ma guidata dall’amore che la nutriva era, diventava
forte come un uomo.
In ciascuno di noi c’è una forza che non
conosciamo, se non al momento in cui scaturisce impensabilmente nella
difficoltà estreme. E’ la gioia di vivere.
Quella notte fredda dell’inverno corrente, ci
calammo da una finestra del nostro piano, adoperando delle corde legate
con delle lenzuola. Giunti nel cortile, ci riposammo un attimo. Ci
abbracciammo e stemmo un poco accoccolati. Dopo qualche minuto ci
dirigemmo verso il muro di cinta. Cinque metri di mattoni lisci ci
separavano dalla libertà. Avevamo bisogno di tutte le nostre forze e di
una grande agilità per superarli: l’impresa non era di facile
esecuzione. Scendere dalla finestra era stato facile ma adesso eravamo
bloccati. Mi venne in mente un’idea. Se il muro era invalicabile, la
botola della fogna accanto al grande albero di pino della scuola era pur
sempre aperta. Bastava accedervi, e dopo qualche giorno al massimo,
saremmo riusciti ad uscirne. Teresa, impaurita e timorosa come sempre,
aveva diverse preoccupazioni. Perdersi in quelle gallerie, significava
morire di stenti, fame, sete. Ma tra l’improbabile capacità di
oltrepassare il muro, e l’eventualità di uno sbocco all’esterno
tramite le fogne, scegliemmo quest’ultima. Teresa mi seguì. Entrammo
nel tombino che, posto accanto alla Torre, portava abbasso. Non si
vedeva niente, ed ogni fuoco che ci illuminasse il cammino, ci era
precluso. Io scesi per primo, la ragazza mi venne appresso. La puzza era
insopportabile, e i rumori degli animali immondi ci incutevano sospetti
non piacevoli, ma nello stesso tempo ci tenevano compagnia. Teresa aveva
fame, voleva che gli procurassi del cibo. Ma dove? Di colpo, un’idea
malsana mi illuminò. Afferrai con due mani uno dei grossi conigli che
ringhiavano all’intorno nel buio. Il pelo corto era liscio. Lo
accarezzai, mentre l’animaletto con la testolina cercava di farsi
largo per uscire dalla stretta morsa in cui era tenuta dal pollice e
dall’indice della sinistra che lo strangolava. Fui morso. In preda
alla rabbia soffocai l’immondo, poi, con calma, lo feci a brandelli.
Un pezzo lo porsi all’amica, dicendole che era carne cruda rubata
dalla dispensa della cucina. Lei, affamata lo divorò rapidamente; dal
rumore che faceva la mascella si sentiva la sua voracità di animale
bramoso. Da sola masticò ogni cellula del pasto. L’acqua che scorreva
sporca e melmosa tra i piedi, ci bagnò prima le scarpe, poi, quando
raggiungemmo un percorso calante, ci arrivò alle ginocchia. Odorava di
merda e lerciume. Dopo ore di continuo camminare, sentimmo un suono. Da
qualche parte, in qualche galleria qualcuno gridava. D’improvviso il
silenzio. Eravamo esausti, e Teresa lo era più di me. Ci fermammo nella
parte destra della galleria. Presi da un’insensata voglia di noi,
avvinti dai nostri sensi, che ci fecero scambiare la stanchezza con la
voglia di stare insieme, di godere di questa sofferenza spastica, fummo
costretti, per la nostra concupiscenza, ad amarci in quella sozzura. Il
rumore, che prima ci era sembrato un suono o un chiamare, ricomparve. Un’ondata
d’acqua ci sommerse e ci trascinò via, impetuosamente, sbattendoci
tra le pareti e le sporgenze interne della galleria.
Al mio risveglio, un energumeno, calvo, dal collo
enorme, mi accompagnò da un vecchio individuo. Dietro una scrivania
nera con delle carte in mano cominciò a parlarmi. Era una figura tetra
e logora. Una specie di codice vivente.
Io, col mio atto di ribellione avevo rotto una
convenzione schiavizzante. La colpa: non aver subito e patito le pene
discrezionali del direttore dell’istituto con estrema dedizione e
sacrificio della mia persona. Non aver accettato il sistema nella sua
interezza. Aver voluto salvare la mia vita, e peggio ancora quella di un’altra
persona - dimostrando così solidarietà ed umanità nei confronti degli
uomini (e delle bestie), contro il volere delle istituzioni -,
distogliendo il potere universale affidato dalla nostra schiavitù alla
"Entità direttrice", riprendendomi in tal modo la mia
personalità, asservita e ceduta al Potere. Avere agito con la presunta
consapevolezza dei vantaggi che ne sarebbero derivati alla mia persona e
alla mia complice, a danno della comunità addomesticata. Il mio gesto
avrebbe potuto gettare le basi di altre ribellioni. Avrei potuto evitare
la pena pronunciando una semplice formula di contrizione e di
trasferimento corporale: "Ciò che io ho commesso e verso cui da
tempo ho assunto una posizione critica, è sì grave, ma tale resterà
per sempre, non avendo l’uomo la possibilità di rimediare agli errori
del passato. Però, poiché io lo riconosco, dimostrerò agli operatori
della mia redenzione e a me stesso di non essere più lo stesso, ma di
essere cambiato in positivo. Riconoscerò sempre le mie colpe, farò
resipiscenza, parteciperò alle attività riqualificanti, aggrappandomi
a quella mano tesa dalla giusta Entità." E così sarei stato
ceduto alla mia famiglia. Ma rifiutai. Mi dichiarai puro. Lontano da
queste accuse infami. Ero sì fuggito da quel manicomio, ma ne avevo
tutti i diritti, diritti che mi provenivano dall’incondizionata
volontà di essere "mio", senza alcuna dipendenza da altri a
me esterni, senza alcuna cessione della mia persona nella sua
completezza al Potere. Io non rispondevo a nessuno delle mie azioni e
della mia volontà, se non a me stesso, e non delegavo tale
determinazione. Mi sarei ribellato per sempre alle sopraffazioni, ed
alle forze repressive di creature, ed entità. Dissi di essere l’amico
di Teresa, di non averla mai costretta a compiere sacrifici da lei non
voluti, di non avere mai condizionato le sue scelte. Che ogni suo atto
era stato da lei voluto senza spinte e imposizioni. Lei mi aveva seguito
liberamente. Inoltre affermai di non riconoscere la nociva
"Giustezza" del loro Potere. Io appartenevo solo a me stesso e
non ad altri. Avrei dovuto passare un periodo di riassoggettamento e di
espiazione nell’ente, dove apprendere: l’ordine, la disciplina, la
morale, l’obbedienza, la cecità. Sarei stato omologato nuovamente.
Avrei dovuto subire gli insegnamenti correttivi (da parte di individui
incapaci di valutare umanamente le colpe o le non-colpe, esperti solo
nel seguire degli schemi prefissi, o degli stereotipi, piatti e chiusi.
Mentalità preconcette).
Era estate inoltrata. Il caldo asfissiante del 1989
penetrava dappertutto, abbattendo la solidità di uomini, animali,
opprimendo con i suoi strali senza lasciare via di fuga. Dormivo per
terra, nudo, confortato dal freddo refrigerante del marmo del pavimento.
Accanto a me spesso si sdraiava il mio grosso gatto bianco (Pucci I). Si
allungava, si rigirava, brontolava, vittima anche lui della canicola. La
mia camera era abbastanza grande: le pareti dipinte da poco, il letto
posto all’angolo, quasi dirimpetto alla porta che dava sul balcone,
dal quale mi affacciavo un tempo per osservare e studiare Anna.
Sullo scaffale a muro tra il letto e la parte del
balcone, erano sistemati dei libri scolastici, dei romanzi, delle
enciclopedie, ed oggetti di altra natura. Il caos che vi regnava, era
riconvertito all’ordine dalle cure metodiche, dalle pulizie assillanti
di mia madre. Ma dopo un po’, lo scompiglio del mio desiderio di
disordine ritornava a ristabilire la confusione mutata.
Una ragazzetta era ospite a casa mia già da qualche
giorno, e ci avrebbe trascorso diverse settimane, probabilmente tutta l’estate.
Fra due giorni ne avremmo festeggiato il compleanno. Diciassette anni:
tuffo senza veli nel mare mormorante delle speranze, di quelle
esperienze ancora oscure. Era timida, schiva, un fiore che sbocciava.
Non mi rivolgeva quasi mai la parola, perché ogni qual volta l’avesse
fatto, sarebbe arrossita, non riuscendo a mascherare in nessun modo quel
pudore che è proprio delle persone più sfrenate e più ardite quando
prendono coscienza di quel loro essere, della loro vocazione, della loro
voluttà. Ero io che la stimolavo, che rompevo il ghiaccio, cominciando
con delle domande innocenti e ordinarie, di una semplicità elementare e
di un’insensatezza chiara. Volevo esplicitamente farla diventare
rossa, godendo di quel visino, che bianco o pallido, si accendeva come
una fiaccola, fino a sconvolgersi completamente. A tal punto, lei,
martire del panico, cominciava a ridere, contraendo tutti i muscoli
della faccia e del corpo, fino alla perdita di ogni controllo. Era
invaghita di me – ma sei durata tre anni. Forse pochi, forse tanti,
comunque… grazie.
Tutte le mie parole, tutti i miei sguardi, tutti i
miei lievi sorrisi, e ogni mio fuggente ammiccare, erano per lei
principio e causa di turbamento. Me ne resi conto, quando al suo arrivo,
mia sorella, primo anello di unione tra noi, ci presentò. Lei nel
guardarmi, benché timida, mi immortalò in un ritratto istantaneo, che
nascose nell’intimo dei suoi desideri. Da parte mia ci fu un veloce
interessamento istintivo, un’incalcolabile bramosia. Un giorno dipinsi
la giovinetta in una tela che poi andò distrutta: il volto era pallido,
quasi diafano, a volte smunto; occhi castani risaltanti come bagliori di
fuochi fatui, capelli neri, voluminosi, sparsi dietro le spalle. Una
pelle selvaggia. Agile corpo, simile nella sua altezza slanciata a quei
fiori che si affacciano per primi nel caldo della non ancora rovente
primavera. Le poche volte che, rivolgendosi a me, scandiva con la
lentezza di un orologio le sillabe brevi, sfumando quelle lunghe, io
porgevo l’orecchio per percepire fino in fondo la sua timidezza;
inoltre, le circostanze in cui era per così dire costretta a
rispondere, a chiedere, o a manifestarsi con le parole, usava una
precisione, dei costrutti limpidi, dei vocaboli talmente caldi, che
anche un misogino ne avrebbe apprezzato la tenerezza, l’amabilità.
Mia madre preparò, per il giorno del suo compleanno, una torta al
cioccolato, ricoperta di panna montata, con le diciassette candeline
variopinte, che sembravano affermare l’esultanza, lo schiudersi
veemente di una creatura nell’aperto germogliare dell’esistenza
adulta. Le luci della stanza furono spente, le tende furono calate,
affinché ogni infiltrazione diurna di visibilità fosse evitata.
Io attizzai lo stoppino delle candele e dissi a lei:
"Adesso puoi soffiare, ma mi raccomando, fallo pensando ad un
desiderio che in queste occasioni festose è solito essere richiesto.
Pensa e chiedi al tuo Futuro ciò che tu vorresti, e sii sicura e
coraggiosa. Il Destino ti aiuterà!" L’avevo spinta a richiedere
ciò che entrambi volevamo, incitandola a rendersi più disponibile e
chiara nelle sue intenzioni affettuose, ammonendola, per agire quando
opportuno, per renderci noto il nostro comune sentimento, palesandolo,
in modo da estirpare ogni dubbio. Spense agevolmente tutte le luci, non
prima però di avermi scambiato un’intesa complice. Festeggiammo
allegramente, come si conviene in siffatte circostanze, poi andammo in
giardino a giocare coi gatti. Diverse giornate trascorsero, spensierate
e calde, tra gite in campagna, escursioni in grotte del circondario,
passeggiate tra la natura lieta dei prati, bagni nel ruscelletto del
paese.
Il mondo, quel mondo, pareva sorridermi, tuffandomi
nell’incoscienza della gioventù, quando tutti gli odori, i sapori, i
sogni, gli eventi dovrebbero davvero essere eterni nella loro
dimensione. Un pomeriggio, mentre mia madre e mia sorella dormivano,
andai nella cameretta di lei. Bussai. La sua voce mi disse:
"Avanti." La porta che non era chiusa a chiave fu aperta ed
entrai. La richiusi alle mie spalle. L’amica si distese sul letto.
Indossava reggipetto e mutandine rosa sulle quali spiccava un fiocchetto
vermiglio. Tutto il resto era carne viva. Dissi: "Scusami se mi
sono permesso di entrare così quasi furtivamente, ma non avevo altra
possibilità di stare insieme con te senza la presenza turbante degli
altri. Penso che non ci sia bisogno di esprimerti ciò che è nato in me
nel momento in cui mi sei apparsa per la prima volta. Però... ecco,
io... tu mi piaci... Anche tu, forse, anzi, ne sono sicuro, provi un
qualcosa per me." Lei disse solo: "Sì, vieni." Diedi un
colpo alla chiave della porta, coprii il buco della serratura per
impedire che qualcuno ci scoprisse e mi avvicinai al letto. Lei, la
giovinetta dal candore immacolato, la vergine dal mantello velato, senza
alcuna paura, senza alcuna ritrosia, si adoperò per svestirmi
velocemente. I nostri due corpi si fusero nell’amalgama, nell’ondulante
passione, gemendo e deliziando dell’entusiasmo senza limiti che ci
menava nell’ebbrezza, nello stordimento dei sensi. D’un tratto dei
tocchi, rumorosi assassini, ci svegliarono dal torpore in cui ci
eravamo, addormentati. Mia sorella intimava ad Ale di aprirle, di farla
entrare. Io in preda al panico, mi misi solo le mutande, raccolsi gli
altri indumenti, aprii la finestra e mi lanciai nel vuoto.
Fortunatamente il primo piano era alto solo quasi venti metri, e
quindi non mi ruppi nessun arto. Però nell’atterrare, appoggiandomi
con la mano nel muretto divisorio dell’aiuola, mi graffiai le dita e
mi ruppi un’unghia. Andai a vestirmi di corsa nella rimessa. Ma fui
preso dallo sconforto, quando, guardando per puro caso le mutande, mi
resi conto che erano tutte sporche di sangue. Nell’amplesso, il
frenulo mi si era lacerato, ed adesso che ero cosciente e desto,
avvertivo un forte bruciore nella regione più sensibile del membro. Era
una sofferenza insopportabile. Indossati tutti gli indumenti, mi
precipitai da un amico, il quale mi consigliò di recarmi da un dottore.
Accettai. Mi accompagnò. Il medico, che era un amico di famiglia, mi
cucì, dandomi tre punti; mi assicurò di non rivelare nulla ai miei.
Non volevo che sapessero che avevo preso Ale a casa, senza rispetto per
niente e per nessuno. Potevano, infatti, sospettare o credere che il
nostro giacere insieme non fosse stato fatto per volontà espressa di
entrambi; bensì che io, approfittando dell’inesperienza dell’amica,
avessi influenzato le sue decisioni. Ringraziai il dottore (scusami se
ti ho detto bastardo e figlio di puttana, ma l’operazione era
dolorosa) ed andai via, da quella casetta in campagna, circondata da
alberi di mandorle e di pini, in cui ero arrivato con un dolore e delle
fobie insensate. Feci ritorno a casa. Nessuno si era accorto di quanto
era successo nel chiuso di quella stanzetta. Grazie al sangue freddo di
Ale, mia sorella e gli altri erano ancora all’oscuro di tutto. Potevo
rassicurarmi, continuare a mantenere un comportamento normale,
dissimulante. I fatti sentimentali, amorosi, carnali tra me e lei,
restavano celati nel profondo della nostra conoscenza, nel discreto
scambio di occhiate consapevoli e piacevoli. Fummo così discreti,
spontanei, gioviali, distanti agli occhi degli altri, che anche se ci
fosse stato un testimone presente all’atto, volendo denunciarci alla
punizione reverenziale dei miei, non avrebbe potuto giurare sugli eventi
intercorsi tra noi. Essere stato con lei quelle poche ore, in intimità
totale, costituiva l’appagamento più completo dei progetti che avevo
fatto all’arrivo di Ale. D’altronde anche lei era soddisfatta della
felice conclusione, o inizio, della relazione. Infatti, chi può più di
un animo femminile, godere, cullarsi, fantasticare di una vicenda
sincera, che può porre le fondamenta per l’ascesa all’empireo, alla
passione futura?
Descrivere il moto delle sue aspirazioni, la
propulsione dei suoi vagheggiamenti, il conflitto delle sue decisioni, l’incessante
sua costruzione e ricostruzione del nuovo e non, è per me adesso
infattibile. Lei era fuori di testa.
Era talmente incoerente nel succedersi delle
valutazioni, che cambiava da un momento all’altro intreccio e finale
della storia. Prima si fidava ciecamente di me e delle mie promesse (mai
fatte seriamente fino allora); poi si lacerava interiormente, come se io
l’avessi tradita, come se io l’avessi illusa. In seguito si
riconfortava, e tornava ad amarmi come doveva. Mi perdonava, o si
perdonava. Alla fine cadeva vittima nuovamente di se stessa e delle sue
elucubrazioni. E ricominciava da capo.
Queste meditazioni non scaturivano da una
giustificazione reale, e non avevano nessuno stimolo oggettivo che le
potesse motivare. Accadevano fantasticamente solo nella sua mente
volubile e malinconica. In realtà io non la ingannavo, non andavo con
altre ragazze, non facevo nulla che potesse darle un semplice sospetto
di tradimento e crudeltà nei suoi confronti. Tutt’altro. Io l’amavo
e la contemplavo come una donna pia adora una statua dell’Arcangelo
Gabriele. Avrei voluto trascorrere con lei ogni attimo della mia
esistenza, parlare insieme per ore ed ore, fare dei monologhi logorroici
sulla sua bellezza, sulla sua dolcezza, sul suo viso capriccioso. Come
poteva minimamente pensare che il suo adulatore potesse anche per un
solo baleno di tempo, distogliere la sua attenzione da lei, o peggio
ancora abiurarla?!
Un’estate intera fu vissuta spensieratamente. Il
nostro rapporto crebbe. Tante occasioni ci furono offerte per stare
insieme e ne usufruimmo. Adesso, nessun dubbio, nessun velo. Nessuna
trepidazione, gettava lei, o me, nell’abbattimento, nelle insicurezze.
Un giorno, quando i miei famigliari si recarono in visita nel paese di
*** dalla nonna Lina, che stava male, ebbi a disposizione delle lunghe
ore per vivere con Ale, che non andò con la scusa di essere indisposta,
di avere un malore, mensile. Fu creduta. Mi feci prestare un cavallo da
un vicino di casa, un contadino. Persona di gran bontà ed esperienza
("u zi Pitrinu"). Il baio era imponente e splendente.
Magnifica creatura. Aiutai Ale a montare sulla sella, quindi presi posto
anch’io dietro di lei. La sfolgorante "Dromedaria" partì al
galoppo, bruciando la terra con gli zoccoli lesti. Dopo un centinaio di
metri, la fermai e ripartimmo al trotto. La mia amica, nel saltellare
nobile della cavalla, fu presa da un’indescrivibile sensazione. Si
sentiva estasiata, come se quel ritmo ascendente e discendente, la
lanciasse in un’euforia danzante. Volle prendere lei le redini. Gliele
passai. La bestia fu spronata nuovamente al galoppo, questa volta però
le fu imposta una velocità esasperata, e ad ogni curva la viuzza di
campagna sembrava restringersi pericolosamente. Dissi ad Ale di
rallentare. Non mi ascoltò. Le ordinai di fermarsi, ma questa, sempre
più ardita, proseguiva. L’entusiasmo del possesso animale e della
velocità l’aveva ipnotizzata, e lei rispondeva adesso solamente ad un
istinto di sfracellamento e di morte. Svegliai l’amazzone con un pugno
sulla testa. Gridò. Poi svenne. Racchiuso tra me ed il collo di
Dromedaria, cinto dalle mie braccia e dalle mie mani che tiravano le
redini, il suo corpo non cadde a terra. Mandai il cavallo al passo, sia
per farlo riposare, sia per essere sicuro che Ale non smontasse
inavvertitamente. Arrivammo alla stradella che dà accesso alla campagna
paterna. Il luogo impervio e isolato, sito su alcune colline distanti
qualche chilometro dal paese, era chiamato Cappiddru d’azzaru.
Nessuno lo frequentava o vi passava. Forse qualche cacciatore in rare
battute di ricerca di selvaggina. La piccola altura principale
sovrastava il circondario; fichi riempivano grandi chiazze di terreno;
rocce pitturavano di bianco e grigio la zona. La ripida arrampicata
durò circa dieci, undici minuti. Dromedaria ci portò dinanzi al muro
della casa monolocale che, nascosta tra pietre a guisa di muraglia, si
ergeva su un terrapieno naturale. Smontai. Presi tra le mie braccia Ale,
salii su per gli scalini del rialzo, girai a destra, percorsi cinque
metri di selciato, raggiunsi l’entrata di quella casetta sognata da
mio padre come eremo estremo, costruita lentamente e nel corso degli
anni. Da piccolo con lui giocavamo con i Lego progettando quella
villetta che noi volevamo fosse edificata. Adesso, la casa è lontano,
disabitata, incurata: ma è sempre mia.
Misi a sedere l’amica sui gradini antistanti la
porta. L’aprii. Sollevai la ragazza e la posi sul letto. Di fronte all’ingresso
stava una finestra di ferro, chiusa. Il letto si vedeva accanto ad uno
scaffale di legno, sul quale erano dei romanzi (forse ci sono ancora i
racconti di Edgar Allan Poe) tra la finestra ed un grosso armadio
militare. Dirimpetto alla mensola: un fornello, una stufa in ghisa, un
bacile in metallo arrugginito. Nel centro della stanza: un tavolo.
Svegliai la mia amante con delle dolci carezze in viso, dei baci
voluttuosi sul collo e sulla bocca. Lei si riprese, come se niente fosse
successo, come se l’eccitazione cavalleresca non fosse mai avvenuta.
Disse queste parole: "Ma dove siamo?" La rassicurai,
rispondendole che era svenuta sotto il sole logorante, strada facendo.
Non ricordava niente della folle corsa, quasi fosse un frangente di
tempo mai vissuto. Il sorriso cominciò a manifestarsi sull’espressione
del volto assonnato, fino a diventare desiderio voluttuoso di piacevole
complicità. Spensi la luce della candela, che irradiava vagamente
certezza nell’oscurità della stanza. La cecità degli occhi non
impedì al tatto di palesarci, abbracciati. Ci spogliammo e ci muovemmo
sul materasso di piume. Spossato, privato di tutte le energie impiegate
nel nostro interagire, mi alzai, accesi la bugia. Un urlo disumano di
Ale mi scosse. Mi voltai di scatto verso di lei. Quale non fu il mio
orrore, quando mi accorsi che, sulla parete della mensola, una marea di tignusiddi
popolava ogni centimetro. Lei si buttò su di me, abbracciandomi,
strillando, piangendo, dicendo: "Ti prego, portami via di qui!
Scappiamo!" Nudi, uscimmo da quella casa infestata dagli
animaletti, che con le luci zampillanti degli occhi ci guardavano quasi
sorpresi. Avevamo paura. Eppure i tignusiddi sono piccoli, simpatici
rettili, sebbene facciano un po’ di sensazione con quel corpo tozzo,
la pelle a squame verrucose e gli occhietti vivaci. In ogni caso, non
sarei stato felice di essere aggredito da loro, accorsi in massa,
perché attratti dall’odore della nostra carne. Dovevano essere
affamati. Non recuperai i nostri indumenti. Ma non potevamo fare ritorno
al paese svestiti. Aspettammo così il buio della notte. Alle dieci di
sera salimmo su Dromedaria e coi nostri corpi a contatto sulla sella di
cuoio ci incamminammo per il paese. Il nostro calore vitale bastò a
tenerci nella giusta temperatura, coadiuvato dall’arsura delle notti
estive. La luna ci fece da faro nella discesa da Cappello d’acciaio.
Eravamo, adesso, perfino allegri, immersi in quell’atmosfera solitaria
e sentimentale, circondati da oscure parvenze semoventi, che altro non
erano che ombre danzanti nell’effetto del chiaroscuro della zona,
sotto il cielo lontano. D’un tratto, Dromedaria si arrestò. Cominciò
a scalpitare. Ale ebbe paura. Perché fermarsi d’improvviso in quella
località non certo amena di notte? Cosa aveva atterrito la cavalla?
Cosa o chi aveva intravisto o sentito o preavvertito tramite i suoi
sensi primordialmente pronti? Spronai imperterrito la bestia. Niente!
Ritentai. Non ci fu verso di smuoverla. Una sensazione di paura avvolse
la zona, circondando le poche cose visibili, oscurandole col tremore del
non conosciuto, col brivido dell’inattesa sorpresa. Eppure, io non
vedevo niente, la mia amante si rifiutava di guardarsi intorno,
abbracciandomi, nascondendo gli occhi nell’appoggiare la testa sul mio
collo. Che fare? Andare avanti, per controllare la causa della sosta non
voluta? Scivolare coi piedi nudi per una strada accidentata, piena di
pietre taglienti, magari incorrendo in un pericolo reale e nocivo? Non
sapevo proprio cosa fare. Non ero un vile, per cui volli cercare nel
buio lontano delle frasche l’origine dei sussulti del mio animale. Da
una guaina, nascosta nella sella, estrassi un lungo pugnale, che, nelle
giuste considerazioni del mio vicino di casa, o delle mie, sarebbe
potuto servire in situazioni particolari. Quella era una situazione
particolare. Feci arrampicare Ale su un albero e le intimai di non
scendere. Se io non fossi tornato dopo un minuto, sarebbe dovuta salire
su Dromedaria e avviarsi velocemente a Cappello d’acciaio,
rinchiudersi nella casa, e aspettare un soccorso che sarebbe arrivato
sicuramente l’indomani, quando i miei parenti, non vedendoci
rincasare, avrebbero chiesto in giro, venendo a conoscenza della
richiesta fatta al nostro vicino, il quale avrebbe rivelato la
destinazione della scampagnata. Ma Ale non voleva ritornare nella casa.
I tignusiddi erano sicuramente ancora ad attenderla. Stabilimmo che,
passato il minuto, sarebbe balzata sulla sella e si sarebbe lanciata
dentro l’oscurità del mio non ritorno, tentando la fuga. Andai adagio
per la stradella. I cespugli erano mossi con forza immensa da un non so
che di enorme. Alla mia destra, degli alberi erano stati abbattuti. Mi
trovavo in pericolo. La massa sconosciuta si mosse verso la mia persona.
Due fari enormi si fermarono. Mi osservavano. La Biddina con un
balzo si avventò su di me, mi buttai per terra, rischiando di cadere
nel burrone della valle. Fortunatamente fu essa a finirvi. Lo
spostamento dell’acqua dello stagno sottostante causato da quella
mole, mi avvertì della piccola occasione che mi si prospettava per
scappare. Non feci in tempo. Quei dieci metri di lunghezza si mossero
velocemente, uscendo dall’acqua; ancora più velocemente risalirono la
scoscesa altura. In men che non si dica erano già di fronte a me. Non
sarei sopravvissuto! Ci guardammo, ci studiammo. La Biddina mi aggredì.
Prima di rendermene conto piantai il lungo pugnale nel suo occhio
destro, lo girai e lo rigirai sino a scavare un’apertura così
profonda da affondarvi il mio intero braccio, che a fatica riuscii ad
estrarre. La Biddina si abbatté sul fianco. Urli scossero la vallata.
Ritornai di corsa da Ale, la chiamai, scese dall’albero, salimmo su
Dromedaria, che, incitata coi talloni e con pugni sul collo, partì come
un fulmine estivo. La Biddina, che ancora si dibatteva e rantolava, fu
superata con un salto del mio prodigioso animale. Mi voltai, come per
vedere se, nella più insperata delle ipotesi, si fosse rialzata per
inseguirci. Vidi però che, nel suo atroce soffrire, cadeva giù nello
stagno, vicino a Bellanova, da cui era uscita. Giungemmo a casa
inosservati; entrammo colla cavalla dal cancello sempre aperto del
giardino. Smontammo. Legai Dromedaria al pilastro del terrazzino, poi,
attraverso la rimessa arrivammo alle scale interne. I miei non erano
ancora ritornati. Mi alzai alle prime luci dell’alba con un forte mal
di testa.
Fra qualche periodo sarei dovuto partire. L’Ente
amministrativo aveva accolto la mia richiesta di trasferimento. Ale
promise di venirmi a trovare, e di stare insieme con me, non appena
fossi giunto a destinazione. Finalmente il giorno della tanto agognata
partenza arrivò.
Salutai tutti i compagni che per anni avevo
frequentato. Ben presto scrissi da quel luogo alla mia amata. Ma nessuna
risposta mi pervenne. Capii, con mia profonda tristezza e inquietudine,
che lei non sarebbe mai venuta, e che niente avrei potuto più sperare
da lei, così dolce, così bella. Nella mia comprensibile delusione,
ebbi la forza, o lo sfogo amaro di un mesto, di inviarle un’ultima
poesia, un ultimo gesto. Da parte di colui che, avendo sempre amato con
passione e con sincerità, sa o capisce che il suo gesto non servirà a
niente. Forse potrà solo placare un animo sconfitto, alleviarne i
patimenti, ma nulla di più.
A colei che non verrà mai: "Attesa. Lunghe
attese deluse, sotto il cielo nero, lugubre e insincero; volano diffuse
nubi angosciose, sulle case ignominiose. Altro non si vede, altro non si
ode; che una speranza che rode, che una mente che chiede. Una rosa sul
davanzale, due occhi assenti, lacrime scure, tutto fa male."
E il Tempo si è sovrapposto al passato. Ale non mi
ha più pensato. Io non so più niente di lei, tranne che si è sposata
ed ha un figlio. Va bene così. Del resto ognuno deve vivere il proprio
percorso, individualmente, e come meglio crede. Tutte le esperienze,
tristi o amabili, danno la certezza che il loro ricordo sarà presente
perpetuamente, in ciascuno, non smettendo mai di soffrire, di gemere,
patire i mali propri dell’esistenza. Ma anche la certezza che, prima e
dopo il dolore, e forse anche durante, la vita è nell’amare.
I giorni trascorrevano lenti e inesorabili,
inesorabili come un meccanismo autodistruttivo che è concepito solo per
finire. In questo altrove maturai esperienze nuovissime, e tutto ciò
che un tempo costituiva una certa fonte di conoscenza, diveniva ora
quasi inutile, obsoleto. Ciascun attimo del presente era un nuovo
capovolgimento di apprendimenti e ammaestramenti passati, ma passati di
pochi minuti. Mi rendevo conto di come era insufficiente ogni forma di
comprensione. Non potevo capire veramente ciò che volevo capire. Del
resto ogni sicurezza era un simulacro di confusione. Il sole che mi
illuminava, il sole che mi accecava, adesso era scomparso, per lasciare
il posto ad una nebbia onnipresente. E la vanità che mi strutturava
iniziava la sua veloce trasformazione, uno schermo consapevole della mia
(e di tutti gli altri) incapacità di essere cosciente. Nel mio delirio
avevo una fioca rappresentazione di una qualche esistenza reale, e
questo mi demoliva ancora di più. Ero a metà strada tra la visione
totale della fine e un’autorinascita parziale. Mi stavo innalzando con
delle ali pesantissime, più grandi di quelle che una mente sana sarebbe
in grado di partorire, per sorvolare dal cielo opaco una terra popolata
di macchie. Ma tanto più in alto andavo, tanto più soffrivo. Stavo
divenendo un dio.
In questa feroce decomposizione ultraumana, uno
schiaffo mi svegliò dal vero. Frequentavo allora un corso di
aggiornamento, iniziato dopo aver lavorato per diverso tempo per una
ditta particolare. Un giorno, il nostro direttore ci propose di seguire,
come lui desiderava, un percorso che ci avrebbe indirizzati verso nuovi
campi, utilizzando tecnologie recenti, atti all’avvio di attività
spazianti. Accettai. Le informazioni che acquisii nei primi mesi valsero
solo a farmi cadere in uno stato di apatia e di pentimento: le
prospettive sembravano peggiori di come le vivevo. Lì avrei imparato
solo a lottare contro le ore più lunghe della mia vita. Chi sarebbe
dovuto essere l’insegnante di un nuovo sapere, era invece il
destinatario dell’apprendimento. Venivano solo per raccogliere quel
pane quotidiano che un essere supremo avrebbe dovuto garantire da tanto
tempo ai suoi stupidi schiavi. Eppure, eppure forse andava bene anche
così. Non so quanti furono reclutati, quali furono le prove superate,
probabilmente non c’era nessuno che tastasse la loro preparazione, o
sì, ma questo non importa. Evidentemente arruolarono per bisogno,
vicendevole. E poi, a che servono gli esami, se non a far star male e a
imparare pedissequamente delle stronzate che bisogna ripetere come
automi, che spesso poi si dimenticano un’ora dopo?!
So che parlammo tanto, troppo, che non concludemmo
nulla, che alcuni restarono fermi, come morti inchiodati alle proprie
croci, che le volute espressioni servivano solamente a dei soliloqui.
Sbraitavamo come cani, con la bava che inondava la sonorità di una
stanza atona, e a turno ciascuno diceva quello che aveva letto in
qualche manuale scolastico, alcuni traendo spunto da passate vicende
ideologiche per cui avevano sprecato un’intera vita (e chissà, se
avessero vinto sarebbero stati diversi dalle squallide ombre che ora
apparivano; ancora adesso, nonostante la disfatta, sprofondati in una
torre che va verso l’inferno degli schemi unidirezionali, scendendo
una scala a chiocciola che mai porta a qualcosa). Taluni si ergevano
come maschere senza costume a recitare una parte di un non so che di
inodore, riversando secchi di parole gracchianti nell’aria a
testimonianza di un proprio valore, diversamente da chi invece era lì,
pecora di un gregge vastissimo, come per qualche caso che vuole
accoppiare esseri subumani e maestri di qualche logora generazione. Io
ero solo. A volte confortato da una tigre stravagante. Spesso reagivo,
intervenivo, ma subito dopo mi rodevo il fegato. E chi me lo faceva
fare?! Perché amareggiarmi io che non volevo più niente, io che non
sentivo più niente di bello, io che non potevo capire quello che era
indecifrabile. Senz’anima. Io che non volevo più niente delle cose
che gli altri non erano in grado di offrire. Poi, un giorno di
primavera, comparve lei. Fuori posto senz’altro, come tuffata lì per
una strana volontà, da demiurgo amico, con la sua sigaretta che
spandeva un odore lontano, con quell’aria quasi smarrita da
studentessa (o altro, che dire non voglio) parigina, con la sua borsetta
selvaggia, rubata in chissà quale fiera, a me ora tanto cara, con
quella giacchetta marrone, che per prenderla in giro dicevo esserle
stata prestata dal papà. Eppure le donava tantissimo, come la borsetta.
Tutto in lei era straordinario, anche quegli occhi castani che a volte,
in tempi trascorsi, ricoprì di altro colore solo per apparire più
bella. Non era bella. Era qualcosa di più. Piaceva. Caddi come un
coglione ai suoi piedi, ma alla sua seconda venuta. Prima non mi accorsi
della sua esistenza. Gli altri insegnanti erano stati vani, ma lei
addirittura sembrava vacua, e forse lo era. Una tabula rasa. Lo so, lo
so, sono uno stronzo e un bastardo…
Cominciò a parlare, con quell’aria stanca e
svogliata di chi sa tanto, di chi tanto ha vissuto, o così vuole far
credere, di chi ti dà un po’ di confidenza perché è costretta da un’entità
a concedertela. Ma non disse poi tanto. Quattro racconti per il ruolo
che avrebbe rivestito. Quale, ancora non l’ho capito. Diritti, doveri,
prescrizioni, leggi internazionali, trattati del cazzo, cosmopolitismo
fittizio, barlumi di messaggi rubati qua e là, animalismo ideologico,
sociologia degli escrementi, sedi governative micenee. Lei era questo e
più. Le poche volte che la stavo ad ascoltare, pensavo di avere a che
fare con una sognatrice, e probabilmente lo era, poi scoprii la sua
utopia: avere una funzione importante da qualche parte in Europa o nel
Mondo. Lei idealizzava tutto: pure i vermi della terra erano
gloriosamente consegnati a quella Natura che difendeva come un’amazzone
la sua libertà guerriera. Ascoltava e basta, sebbene delle volte si
alzasse da quella sedia che simboleggiava il trono di un potere e si
muoveva per aprire bocca; spostava la sedia o ne cercava un’altra e si
piazzava nuovamente. Era una confabulatrice. Come me. Come tutte le
altre delle lezioni, non mi suscitava nessun interesse, lei
rappresentava un qualcosa senza confini precisi. Ma era una bona e me la
sarei fatta, ma niente di più di questo.
Il suo insegnamento finì presto. Finalmente un dì
arrivarono i mezzi meccanici per il lavoro: quegli attrezzi per cui
avevo richiesto di partecipare al corso. Nuovi docenti, nuove lezioni,
questa volta più interessanti. Al nostro primo incontro non mi stupii
più di tanto. Fui contento perché i miei occhi avrebbero potuto vedere
un corpo ben modellato sebbene non troppo. Un giorno il caso volle che
mi si sedesse, per caso, di fianco, svolgendo la sua funzione di
umanizzatrice dei derelitti. Parlò col mio collega. Per me non
esisteva. D’un tratto per rispondere ad una sua domanda mi voltai
verso i suoi occhi. Affascinavano! A pochi centimetri dal suo viso,
rimasi senza parole. Lei sembrava un’altra donna, e lì caddi nella
solita rete. Soffrire notte e giorno, qui per una che non conoscevo
nemmeno. Tentai vanamente di non dedicare il mio Tempo a lei, a questa
nuova colpa in cui la mia sincerità cedeva. Persi. Iniziai una lenta
contemplazione, con gli occhi e con la mente, finché un giorno le dissi
apertamente ciò che provavo. Reagì con molta falsa educazione e con
molto tatto, con la giusta consapevolezza di chi forse ha sofferto e
fatto soffrire, di chi sa. Fu gentile, e non si scompose. Era melliflua.
Non mollai, neppure adesso, però cominciai a trattarla come un’amica,
anzi posso dire che mi ci affezionai. Riscontrai nel suo corpo quei
tratti appartenenti ad alcune ragazze di un tempo. Lei mi ascoltò e mi compatì.
Ma tutta la sua superbia non le aveva ancora svelato, tuttavia, che
nella vita non si raggiunge mai lo scopo prefisso, in quanto non
esistono scopi, ma solo velleitarie ricerche e tentativi di parvenze
momentanee se non per un fugace istante (e spero che un giorno lo
capisca, altrimenti soffrirà ancora più del consueto) e che le
tecniche di contenimento e di circospezione non sono sempre efficaci. E
che le certezze e le stabilità sono effimere. Il mio cavallo di
battaglia.
Si apriva poco, era insondabile, anzi, lasciava che
fossero gli altri a confessarsi, per cui dovetti trovare da solo delle
piccole informazioni su di lei. Ben presto però lasciò vedere un
casuale varco, grazie al quale potemmo parlare più liberamente. Forse
mi diede un poco di confidenza, forse si fidò… e chi lo sa, sta di
fatto che la mia pulsione da sessuale nei suoi confronti divenne altro:
la stimai. Lei, incomprensibile, oscura, vanitosa, saccente. Quando
dialogavamo, sentivo che di fronte a me ci stava una compagna, ed io
ero... anzi sentivo di essere qualcosa di più, un mentore. E volli
smaliziarla. Doveva saper che il Male raggiunge un passante, un
obiettivo da qualsiasi parte e con qualsiasi mezzo. Il mondo è popolato
dalla malvagità, da individualisti (come me), che lei non è un’eccezione,
che tantissimi sono disposti a sprofondare pur di non vedere un altro
sopravvivere.
Le dipanai la Verità: quella molteplice varietà di
entrate ed uscite, l’indifferenza, la pietà. Ancora adesso non so
quanto abbia capito sul serio e quanto mi abbia ascoltato. Il mio
labirinto era come un tunnel che va verso il fondo, senza un fondo. Lei
era un ingenua, benché si desse quel sussiego da donna mondana,
viaggiatrice turca, collegiale inglese o lesbica da lupanare giapponese.
Ma se anche una sola parola dei nostri fraterni colloqui fosse stata
compresa veramente, avrebbe potuto allargare i suoi orizzonti limitati.
Tutte le più luride esperienze totali, reali e mentali, erano state
già da me allora attraversate e superate. Io sapevo quanto mi facevo
schifo, per come ero e per come erano gli altri. Volevo che lei, unica
amica contemporanea stesse attenta. Ma non capiva. Una boriosa che non
mi credeva. Per illuminarla di prepotenza avevo varcato la sua privacy.
Mi rendevo conto che non ero autorizzato a comportarmi così, ma volli
farlo. Non so ancora come feci ad uscire da quella situazione, non so
ancora se ne uscii.
La Gioia, già da tempo dissolta dal mio infinito
animo, dalle elucubrazioni maestose, ritrovata in lei – come in tante
altre - effimeramente, stava per cessare ed io lo intuivo. Speravo solo
che avesse visto in me più dell’ordinario. Ma lei era fredda e
lontana. La mia missione era terminata. Contro tutti i tormenti psichici
e fisici, era necessario distaccarmi e glielo scrissi, e glielo dissi. L’avrei
trattata come un’ombra, l’avrei schifata, l’avrei offesa. Sarebbe
dovuta essere inesistente. Il Tempo stava per finire e l’abitudine
alla sua visione era da cancellare. Altrimenti ci avrei impiegato dei
mesi a dimenticarla, come per le altre, e alla fine, come tutte, non l’avrei
dimenticata.
La fine di tutto avviene ben presto, e spesso non lo
sappiamo. Unica consolazione è l’amore o l’amicizia per qualcuno
che ti vuole bene, ma che tralasciamo; e facciamo invece scorrere
i giorni e le ore, insensati, tuffandoci in giochi che riteniamo eterni,
in credi che scivolano viscidi, per non avere né inizio, né
cessazione, ma tutto in continuo svolgimento. Una droga che ci offuschi
la mente per far sì che la nostra resistenza non diminuisca, per far
sì che la nostra debolezza ci aggrappi a varie illusioni. Ed io che non
credevo in niente, io che soffrivo per questa infelicità, io che non
avevo più sogni vani da realizzare, io che morivo in un amalgama di
nichilismo e di fango, io che avevo un gran bisogno di vivere, che fine
avrei fatto dopo la lacerazione di questo nuovo supplizio. Glielo
confidai. Le rivelai che dovevo retrocedere. D’altronde, la mia
volontà di potenza, la mia qualità di superuomo, la mia singolarità,
mi avrebbero sorretto. Io ero – per me e solo per me - il migliore fra
gli uomini, ero quel dio che avevo eletto ad unica ragione di
esistenza.
La ragazza non poté concedermi quella stima che
riversavo in lei. Ero soltanto un nome senza volto, uno che provava
sentimenti unilateralmente.
Cosa mi resta adesso di tutti quegli struggimenti, di
quell’aspettare ogni giorno che il rumore dei suoi passi oltrepassasse
la porta, per sentire la sua voce delicata e soave, per vedere quella
statua enigmatica, riempire di tanta luce una ripetitività oscura di
cicli meccanici e ordinari. Non mi resta niente, solo un numero e pochi
codici di una donna sfumata e idealizzata, ben presto sparita. Il suo
nome era Elisa, chiamata "Frumoase". La mesta Frumoase dai
lunghi capelli.
Ecco tutto questo è ciò che sarebbe raccontato da
una mente delusa, frustrata, stanca, incapace di saper distinguere i
veri accadimenti dai sogni e dalle immaginazioni. Ma la verità è un’altra.
Lei era eccelsa. Ero amareggiato da quella triste situazione che mi
vedeva abbattuto prima ancora di poter prendere le armi. Non avevo
nemmeno la possibilità di agire. Ero legato da funi statali e altro.
Altro che non poteva, se non con una volontà ferrea e lungimirante,
sciogliere. Lei poteva liberare me e la mia vita. Ma per capire a fondo
la difficile prospettiva, lei, aquila dalle grandi ali si sarebbe dovuta
innalzare e volare in alto, come le spettava, guardando da monti elevati
lo spazio all’intorno; non più il circoscritto che attualmente
percorreva. I suoi orizzonti, al contrario di quel che io le
rimproveravo, erano illimitati, davvero, e se solo avesse saputo
spiccarsi in volo, se solo avesse preso coscienza al più presto di
queste sue qualità, che solo una mente superiore poteva vedere, avrebbe
già potuto da tempo ascendere... lontano dalla sua malinconia, lontano
da ciò che ancor era. Nel frattempo, benché in potenza potesse, si
abbandonava a degli stati d’animo comuni, soffriva le stesse pene che
avvolgono ogni uomo quando non riesce a controllare le circostanze che
girano e imbavagliano senza essere tenute a freno. Si tormentò negli
ultimi periodi che passai a volte accanto a lei per queste sofferenze:
delle pene che io e lei conoscevamo, e che qui è inutile specificare.
Le fui accanto, come un osservatore esterno e amico che può
consigliare, quando non si ha sgombra la visuale, quando il nostro
pensiero è costretto a non uscire da quel giogo tortuoso. Si
rimproverava il suo preteso egoismo, si metteva in discussione. D’altronde
la realtà a volte è frutto di azioni passate, a volte di un
agglomerarsi di vicende che girano ineluttabili e senza controllo. Lei
non aveva nessuna colpa. Era innocente. L’accaduto era tale e
immodificabile. Quindi, perché struggersi, perché non piangere e poi
basta, perché non guardare avanti e ricominciare a costruire dal punto
in cui si era fermata?! Queste esperienze le sarebbero servite in
futuro, ma adesso, adesso la realtà era tale e non altra. A che valeva
non dormire, non essere allegra, non mangiare, a che valeva non vivere?
Doveva godere di ciò che aveva, e aveva tanto. Doveva lottare e
prendere il presente. Il mea culpa non le si addiceva. Il riconoscere i
propri errori, ammesso che fossero errori, era la debolezza di un uomo
inadatto alle proprie azioni. Un uomo che si pente di ciò che ha
deciso, di quello che ha fatto, mette in discussione se stesso. Per cui
crisi di esistenza e balle varie ...solo pensieri per chi è
infiacchito! Un amalgama di cattive considerazioni che la
attanagliavano, come forse il sentirsi cattiva, egoista, di essere una
fallita, una donna che, sebbene faticando, non sortiva nessun effetto
duraturo e stabile. E questo alla sua età, quando altre erano già affermate.
Non credo di sbagliarmi. Dalla propria interiorità
le cose appaiono diverse, se non si esce e ci si osserva da fuori. Io la
osservavo da fuori e da dentro. Da dentro gli accadimenti sembravano
darle ragione, per cui sarebbe stato giusto considerarsi una nullità.
Obbiettivamente invece, fotografata nelle sue potenzialità, lei era
superiore. Intelligente e di un’apertura mentale che notai
effettivamente negli ultimi tempi, quando caddero gli schemi: era
emotiva, era solo umana. Lei valeva. Tanto. Ma per estrinsecarsi doveva
considerarsi, amarsi di più.
Mi addormentai, per giocare coi sogni, per andarmene
qualche ora dal presente che io non ero in grado di cambiare. Una
persona, per trasformare la sua realtà, ha bisogno solo di se stessa, e
ci riesce e diventa ciò che è in grado di diventare. Ma per cambiare
insieme ad un’altra, ha bisogno che l’altra divenga insieme a
lei.
Sognai altri tempi, sognai altre vite, sognai. Come
un fiore che sboccia e pensa che la sua esistenza è il sole, il giorno,
la bellezza. Poi comincia a venire la sera e le prime ombre lo
atterriscono. La notte cade silenziosa e lui si spegne, lentamente. Per
questo ti dicevo che "i fiori, nel pieno della loro bellezza sono
amati da tutti, ma quando appassiscono, e tutti appassiamo, sono amati
solamente da coloro che li hanno amati veramente" – un pensiero
che feci risuonare in quel luglio caldo e arido durante la messa per il
funerale di Gabry. L’amarezza di uno scritto passato che si
sovrapponeva ad un giorno reale e inaspettato, quando ogni mio sguardo
attraversava solo oggetti ormai privi di vita. La contemplazione della
morte dell’amata ha questo di tragico: attorno a te tutto tace e non
vive più. E ogni colore ha lo splendore funereo dell’eternità dei
fiori di plastica. E la scrittura passata si sovrapponeva al futuro già
scritto.
Diversi mesi, forse anni erano passati da quella
mattina, ed io mi ero risvegliato in una notte che era più scura che
mai, dove quel sole non sarebbe mai riapparso, dove tutto aveva le
sembianze dell’angoscia. Termine che appresi solo allora.
Al mio risveglio questa volta non c’era la speranza
del futuro, ma solo la sconfinata certezza del dolore, del ricordo: un
passato che mi avrebbe accompagnato per non so quanto tempo. E forse era
giusto così. Ma tutto sarebbe trascorso perdendosi nel mare.
Troppi anni avevo passato in solitudine per non
capire che la mia vita era ormai segnata dal rimpianto, e ciò che mi
circondava era passeggero o irraggiungibile. E solo luride parvenze di
miseri vermi mi strisciavano accanto in maniera soffocante e straziante.
O forse tutto mi appariva così.
Trovare in questa vita una nuova ragione di esistenza
sarebbe stato troppo facile per uno come me, ma non era quello che
cercavo. Del resto, io aspiravo a un qualcosa che non esisteva più;
forse il ritorno del passato, forse un rivivere emozioni già provate,
forse una luce che mi accecasse, fino al punto da farmi obliare ogni
cosa, ossia tutto ciò che ero.
Avrei dovuto buttare tutta l’esperienza ottenuta a
caro prezzo dalla finestra, e non era possibile. Non potevo rigettare
come un vomito gli uomini e le cose che avevano costruito un essere
superiore: io non ero un semplice frutto del Caso. Intere vite avevano
sacrificato i loro aliti, affinché io potessi esistere nella maniera in
cui adesso ero. La loro vitalità si era spenta affinché io vivessi
così, affinché mi trasformassi in quell’essere alato, capace di
amare come mai altri, di spaziare attraverso la mente, il lutto, la
gioia, come in questo momento riuscivo a fare.
La mia volontà di potenza era giunta sino a questo
punto solo perché dopo avere analizzato le mie – o degli altri -
continue morti e rinascite, ero pervenuto alla conclusione che io ero la
continuazione dell’Amore che altri avevano riversato in me e solo per
me. E in questo mio procedere ogni titubanza sarebbe stata schiacciata
al fine di distruggere tutto ciò che si frapponesse al mio compito.
Solo allora avrei potuto riposare.
So che gli amici, e gli armenti da gregge, che mi
tenevano compagnia, non potevano capire, nemmeno in minima parte,
perché mi ero innalzato talmente lontano che loro non erano in grado di
seguirmi, né con lo sguardo, né con la mente. Erano animi vaghi, o
forse comuni.
Negli ultimi tempi, diversi possessori generici di
anima si erano affiancati a me, per poi sparire repentinamente, e da
loro, come un virus, avevo tratto un nutrimento passeggero. Fra questi,
delle donne avevano deliziato il mio corpo, e forse altro.
Giorno dopo giorno sprofondavo in una malinconia
altalenante, e ciò mi avrebbe accompagnato per sempre.
Accanto a me era ritornato Lo Sciacallo, col suo
carattere schifoso e schizzoide, impossibile da capire, e per questo non
mi sforzavo più di tanto. Non ci sarei riuscito.
Come nel continuo ritorno dell’uguale, ci
ritrovammo a lavorare e a vivere insieme. A lui il merito di avermi
messo in guardia da due profonde delusioni in cui mi ero fatto male:
Frumoase e… Ma io come al solito, e sfortunatamente per me, non lo
avevo ascoltato. Ma non si sbagliava.
Quella mattina in cui mi accompagnò nella nuova sede
di lavoro, sentivo nell’aria qualcosa di nuovo, di fulminante, di
affascinante, ma pericoloso, e non potevo percepire cosa mi sarebbe
accaduto.
L’edificio era enorme, quasi kafkiano, le stanze
dislocate senza uno schema preciso, le persone sciatte, senz’anima,
pregne di sé, meccanismi piatti e semplicissimi. Esili piante senza
bellezza.
Lo Sciacallo mi presentò alcune di queste varie
macchine da lavoro, poi ci rintanammo nel nostro ufficio. Dopo un po’
uscii per andare in bagno. Al ritorno passai da una stanzetta (ogni
ufficio è una stanza di casa con la sua vita) aperta per conoscere
degli altri colleghi.
Lei era seduta col culo enorme su una scrivania, con
dei pantaloni tigrati e scoloriti dalla candeggina che sembrava dire:
"io sono una tigre e mi accuccio e balzo dove voglio". Si
presentò stranamente: "piacere… S." La sua mano pasciuta
strinse la mia con una vigoria da uomo, mentre i nostri sguardi s’incrociavano
in un punto a metà strada tra le nostre teste, per poi buttarsi negli
occhi.
Restai qualche secondo a fotografarla, per studiarla
e analizzarla. E lei, purtroppo, fece la stessa cosa. Vediamo cosa
analizzai.
Il suo viso era simpatico, affascinante, e lo guardai
come quando si osserva un bel serpente velenoso da dietro una teca,
avvolgersi nelle sue spire ed ergersi bello nella sua fierezza.
Aveva dei capelli lunghi, e soffici come un
purosangue; i suoi occhi, e non i miei, come spesso mi diceva,
sembravano di plastica o forse gelidi, ma io mi ci tuffavo per
perdermici. Le guanciotte erano piene e in carne. Il naso regolare e ben
proporzionato. Il sorriso oserei dire "simpatico". E il corpo?
La natura le aveva dato tutto, abbondando, o quasi… il seno era piatto
come un pavimento di marmo. Ma ciò che io preferivo era quell’evidentissimo…
culo.
Lei, benché odiasse dirmelo, analizzò anche me.
Credo che ci piacemmo al primo sguardo, altrimenti non saremmo arrivati
a "quel" punto. La intrigavo e lei suscitava lo stesso effetto
in me.
Voglio dire fin da subito che la intuii tremenda, di
un carattere veramente impossibile, di un’aggressività unica e
irremovibile.
Però con me non era ancora stata stronza. Altrimenti
l’avrei subito evitata come un essere pericoloso.
Benché fosse spavalda, troppo spavalda, e si
credesse furba e bastarda, la verità è questa: il mondo le aveva
mostrato soltanto l’inferno e lei conosceva solo questo! Tutto le
sembrava quasi falso e doppio, nocivo; tutto cattivo e ogni uomo
malvagio. Alla fine, non si sbagliava di molto. Ed io potevo essere un’altra
prova dell’esistenza del solo male, forse la prova migliore e più
viscerale.
Però, adesso dipendeva da lei cosa volesse dalla
vita, dal destino, e quindi da me. Potevo essere una primavera, o un
autunno triste. Ero un camaleonte.
L’amore, se da qualche parte esisteva in lei e lo
volesse, anche se le sembrava un sentimento ancora oscuro, inesistente,
possibile, ideale, doloroso, sarebbe scaturito fuori. Tigretta ne
avrebbe dovuto prendere solo coscienza e desiderarlo. Io ero l’unico
essere amico che il Destino aveva concepito per lei.
Adesso doveva imboccare una strada sconosciuta e
diversa, ma comunque libera, o girovagare ancora, inutilmente e senza
via di scampo, per le stesse piazze e vicoli già attraversati, nelle
fogne come un ratto, e nella melma come un tempo. Ma questo doveva
deciderlo solo lei, donna eccezionale e dolcissima, come solo io sapevo
che era.
Nei primi giorni che passai nel mio nuovo ufficio
ebbi il tempo di pensare poco, anche perché ogni istante che avevo a
disposizione era rivolto a Barby. Cercavo di capire se lei provasse
qualcosa, e mi sforzavo di passare al setaccio ogni minimo suo gesto,
una postura, un sorriso, un qualcosa che mi desse la possibilità di
capire se le fossi simpatico, se avesse un qualsiasi interesse per me.
Durante le varie pause che facevamo io andavo nel suo
ufficio per chiamarla, e lei faceva la stessa cosa. Insomma, capii che
qualcosa tra noi esisteva, anche se non ero certo di cosa. E forse
nemmeno lei. Di certo mi attraeva tantissimo, mi piaceva il suo sorriso,
il suo modo di fare scatenato e ribelle. Sembrava una cavalla
imbizzarrita, difficile da domare. Ancora, non sapendo nulla di certo
continuai a cercarla, da compagno di lavoro, ma noi non ci vedevamo per
farci compagnia, o per bere un caffè, o fumarci una sigaretta. Noi ci
cercavamo e basta.
La notte e il giorno ormai li passavo, ancora adesso,
a pensare a quel viso, a quelle mani che a me piacevano tanto, alle sue
battute, agli sguardi che rivolgeva furtivamente verso il mio viso, e
forse verso il mio fare.
Parlammo tanto, o meglio, parlai tanto, e lei mi
stava ad ascoltare come per percepire qualsiasi sillaba del mio essere.
Memorizzava i miei movimenti, osservava le mie pause e il mio corpo. Gli
piacevo. Ma non avevo la certezza completa. Finché non mi decisi a
buttarmi: non ce la facevo più a vivere una situazione amorfa. Volevo
capire. Se fare un passo avanti o uno indietro. Perciò era necessario
che le parlassi apertamente. Quel venerdì, mentre il suo compagno d’ufficio
non c’era, un tale da noi chiamato Taigeto, andai da Barby e cominciai
a parlare. Le dissi che mi piaceva tanto, e volevo sapere se lei avesse
la mia stessa impressione. Mi disse di sì, però non voleva andare
oltre (le solite risposte, quando o si vuole di più, tanto di più, o
quando si vuole recidere ogni rapporto: lei invece voleva andare ancora
più in alto, dove brilla il sole, e dove la luce non ti lascia più
vedere le cazzate). Le chiesi cosa le piacesse di me. Mi rispose il
cervello. Io scoppiai a ridere, anche perché era intuibile. Ma non a
tutti davo la mia mente, solo che ancora non aveva avuto la possibilità
di acchiapparlo interamente. Il mio essere era talmente multiforme ed
esteso in profondità, che se avesse scoperto le mie possibilità
spazianti non mi avrebbe più mollato un istante. Del resto era
pericoloso manifestare tutta la mia natura grandiosa in poche settimane
(tuttora sono modesto), così decisi di scoprirmi piano piano, e
lasciai pochi spiragli di comprensione.
Dopo il suo rifiuto ad andare oltre, le scrissi una
lettera: le spiegai che io ero tutto ciò che lei desiderava e altro.
Alle tredici e trenta di venerdì diciannove, l’assedio fu portato a
termine e da quella breccia nella muraglia penetrai nella sua mente.
Posso dire che non fui io a creare la breccia, ma fu lei, a bombardarsi
dal di dentro, affinché io, visto lo spiraglio di luce, potessi
entrare. Davanti ad un bicchiere di caffè, la guardai negli occhi e le
dissi: "se ti sto vicino cosa provi?" Lei mi rispose: "un
qualcosa di terribile, mi fai quasi paura…" Allora le presi la
mano tanto agognata e dissi: "e adesso?" Senza più capire
nulla ci baciammo e ci stringemmo in un rituale, che sembrava che non
facessimo da secoli. Io avevo sete di lei, e lei fame di me: ci
saziammo, per come in quel momento ci era concesso. E poi il resto.
Il resto avvenne in un luogo particolare, dove una
sedia e un tavolo erano il nostro unico sostegno, ma a noi andava bene
anche così, l’importante era prenderci e vivere tutto quello che ci
potevamo permettere.
Barby riuscì a farmi lavorare nel suo ufficio, visto
che Taigeto era stato dirottato ad un’altra mansione. I giorni adesso
volavano e il tempo era come se non esistesse. Non riuscivamo a capire
come mai ci era dato tanto. Io provavo per lei un sentimento che era un
misto di passione fisica, di voluttà, e altre cose che non saprei
spiegare. Un uomo qualsiasi avrebbe subito allontanato una persona con
un carattere così schifoso, orribile, esasperato (lei era esagerata in
tutto), ma io sentivo invece che sotto quegli aculei, e dietro a quei
denti rabbiosi, a quel volto ringhioso, c’era un sorriso
interminabile. Il mio compito era quello di togliere la buccia, e
portarne alla luce il frutto, che io sapevo essere succoso e dolce, come
ogni tanto l’assaporavo.
Ben presto però la mia durezza e la sua vennero allo
scontro, ed io le diedi un ultimatum che lei non voleva accettare e mi
maledisse.
Le chiesi di abbandonare tutta la sua vita passata,
di fare tabula rasa col suo vecchio mondo, di tagliare le corde che la
legavano alla maledizione che l’aveva trascinata nel fango. Di
annullarsi di recidere ogni ignominia, di abbandonare un mondo dove
tutto era prestabilito, e tutto era fango. Per rinascere sarebbe dovuta
morire, per crearsi si sarebbe dovuta distruggere. Questo lei ancora non
lo capiva, o non voleva accertarlo. Era troppo doloroso, ma l’unico
modo per fermare la cancrena era amputare. Capisco che non era cosa
facile, e forse sbagliai a manifestarglielo così presto. Ma io parlavo
e vivevo così. Se non ero capace di insegnarle qualcosa, dovevo
retrocedere o passare oltre (cioè, detto secondo un tipico pensiero di
Nietzsche, e se tu non sei capace di insegnargli a volare, spingilo,
affinché cada più presto… Nietzsche e Schopenhauer, i due
filosofi che mi porterò sempre appresso).
Lei non poteva esaudirmi in quello che io le
proponevo e mi chiese un accomodamento, solo che io rifiutai
categoricamente e la lasciai. Mi odiò e andò via.
Non vedendola ritornare, mi misi a pensare in
tranquillità, riflettei tantissimo e maturai una decisione: io l’amavo,
dovevo ritrovarla.
Dopo essermi recato in vari uffici, la trovai. Era
seduta sul davanzale di una finestra, in preda al Demonio, che piangeva.
Provai ad avvicinarmi, ma lei cominciò ad urlare come una dannata. Era
inavvicinabile. Per paura che cadesse giù la raggiunsi, e dopo vari
discorsi di rappacificazione l’agguantai per il corpo e la trascinai
via dalla finestra. Si mise a fare come una pazza e si avventò su di me
colpendomi coi pugni sul petto. La lasciai fare, e stringendola forte e
teneramente, l’accarezzai (era una belva), tranquillizzandola. Il
sorriso comparve sulle sue labbra e l’amore ebbe il sopravvento.
Dovevamo ricominciare da capo e dimenticare quel
maledetto giorno. Del resto io ero un lupo paziente.
Barby era una donna cresciuta in fretta, o forse una
bambina che si era all’improvviso risvegliata madre, non passando da
quegli stadi che dovrebbero segnare il limite di un’età e l’inizio
di un’altra. Il destino l’aveva acchiappata per il collo e sradicata
alle gioie di una bimba comune. Così, invece di crescere tra bambole e
giochi, gesti di teneri affetti, baci di fanciulli, si era trovata
improvvisamente a lottare in una giungla piena non già di animali
feroci, bensì di creature feroci: gli uomini e la vita. Ciò che si
capisce da grande, o forse mai, lei lo trovò davanti a sé, dietro,
dappertutto. Allora le unghie si trasformarono in artigli, le mani in
zampe, e da docile colomba diventò un rapace. Non più i sorrisi degli
amichetti, le coccole dei parenti, ma solo sguardi infingardi, caramelle
dal sapore amaro, anni trascorsi nel buio della notte. E come se questo
non bastasse, conobbe me.
La cocciutaggine, la cattiveria, il tornacontismo, la
brutalità, la forza di carattere, perciò non erano innati in lei, li
aveva trovati girovagando per l’infinito, dove non esiste una meta,
dove non è possibile avere un nido. Dove non c’è il riposo, a meno
che non ci si ferma per essere sbranati. Io però non sto descrivendo un
animale immondo e pericoloso, anche se lei era tutto questo, come se si
trattasse di una bestia feroce da sopprimere. Del resto non era colpa
mia se Barby era così. Anzi io la volevo proprio perché era così.
Solo che bisognava ricondurre ogni sfumatura del suo essere in una forma
meno superficiale e incontrollabile. Lei era un essere allo stato brado,
selvatico, ma proprio per questo era il miglior animale da
combattimento, la migliore compagna cui affidare la veglia del mio
riposo, la donna che giustamente indirizzata non avrebbe avuto pari
ovunque. In breve, era rara e ineguagliabile, un essere sovrastante. Ma
da domare, da ammansire affinché fosse capace di tenerezze e di
sicurezza, come già a volte era. Avrei dovuto lavorarci e limarla di
continuo, ma con dolcezza, perché se se ne fosse accorta, se avessi
adoperato l’ostinazione e gli ultimatum, non sarei riuscito in niente,
se non a litigarci. E litigare con Tigretta era facilissimo. Bastava una
virgola posta male, e lei me l’avrebbe rinfacciata. Dovevo essere l’uomo
più paziente che io conoscessi, dovevo starle appresso, per darle me
stesso. Non si trattava di un compito facile, ma era il mio compito di
quel momento.
Una cosa sola le chiedevo, di darmi una mano, di
cominciare a non essere più istintiva con me, di fidarsi: io le ero
anche amico. Se lei mi sbranava ai primi pasti che le portavo, non sarei
riuscito più a entrare nella sua gabbia per accarezzarla e poi
montarla. Ogni belva vuole essere accarezzata, e poi montata. Se non c’è
lotta, non c’è gusto, ma se il domatore viene sbranato, la belva che
fine farà?
Con lei feci tantissimi discorsi esistenziali, forse
troppi, avrei dovuto agire di più, perché Barby capiva solo la
gestualità. Certo, quando le parlavo, si ipnotizzava come un serpente
al suono del mio discorrere, ma era solo un attimo. Quando si svegliava
ritornava ad essere lei. E ricadeva diverse volte in quello che io non
sopportavo.
Era di una furbizia e di una memoria estreme.
Memorizzava tutto quello che io facevo e dicevo.
Un giorno, dopo uno dei miei tanti discorsi sulla
vita sull’amore e sulla morte, dopo varie parole partorite per
convincerla di una cosa, mi disse: "non ti preoccupare… io sono
una lupa paziente". Che potevo fare, l’adoravo.
Ma non potevo permetterle di narcotizzarmi, dovevo
ricominciare a lavorarla. Il tempo era poco, e lei era un materiale
pericoloso. Se non fossi riuscito ad addolcirla nel giro di poco tempo,
non ci sarei riuscito più. E questo era nocivo per me e per lei.
Sarebbe perita nella giungla, ed io sarei volato via. Sarebbero volate
le uniche ali che il Tempo, il Destino, la Nemesi, avevano confezionato
a misura per lei.
Quei giorni erano belli in ogni caso, perché eravamo
insieme, e non importava la tristezza o l’allegria, eravamo io e lei.
Ma ciò che più mi importava e che ancora non avevo
capito, e non so se ci sarei riuscito, era cosa veramente provasse (l’ho
capito adesso: non provava nulla). Mi addentravo in questa ricerca
disperatamente, perché Tigretta era insondabile, forse per paura di
esporsi troppo, forse perché voleva procedere con lentezza al fine di
non sbagliarsi, forse… non so. Eppure io sapevo che lei voleva delle
risposte, delle sicurezze, dei passi da analizzare. Credo che non
volesse sminchiarsi, e allora andava cauta verso lo schiudersi. Ed io
ansimavo, aspettavo, analizzavo, mi perdevo in qualche fantasticheria,
elaboravo a tempo pieno, perché la mia mente non riusciva a darsi
nessun tipo di rilassamento. Era attiva a macinare frasi su frasi, gesti
su gesti, e alla fine scandiva tutto quello che provenisse da lei o da
noi, e persino da me. In questo stato non era difficile andare fuori di
testa anche per un singolo movimento inteso e acquisito in modo erroneo.
Ma che ci potevo fare, ero fatto così.
Un giorno ci fu data la possibilità di passare
diverse ore nella più totale intimità, in un luogo dove non dovevamo
stare attenti alle ostilità contingenti. Tigretta mi venne a trovare e
potemmo stare insieme a mangiare. Conobbe i miei amici "Il
Pelato" e "Mu" e tra una battuta e un pezzo di carne
arrostita venne l’ora di raggiungere il monolocale che avevo designato
a rifugio per quel giorno. La stanza aveva pochi arredi, due letti, una
cucina con frigo, un armadio, un tavolo e qualche sedia, ma a noi
serviva solo il letto. E se non c’era ne avremmo fatto a meno, del
letto.
Ci spogliammo velocemente, del resto gli abiti erano
solo un impaccio, anche perché non dovevamo scoprire niente di nuovo
sotto i vestiti: entrambi sapevamo come eravamo fatti, dentro e fuori.
Ci adagiammo sul letto sotto la finestra, che, per
non sporcare le lenzuola, rivestimmo di carta "usa e getta".
Iniziammo con qualche coccola, in completa rilassatezza, ci baciammo, ci
scaldammo, e poi cominciammo la battaglia. In quei momenti posso
affermare che possederla mi dava una grande potenza, poiché solo allora
potevo disporne come volevo, e lì si lasciava dominare come
difficilmente in altri contesti mi era permesso fare. Del resto io ero
un maestro, e forse, cosa ancora migliore un treno ineguagliabile a
lunga percorrenza. E lei lo sapeva e mi lasciava fare. Premetto che io
non ero uno che aveva in mente solo il divertimento fine a sé stesso,
ma riuscivo meglio nella mia arte solo perché io provavo qualcosa di
diverso dall’attrazione fisica per lei. Sì, mi piaceva anche
fisicamente, nei suoi lineamenti, nel corpo, nel godere e nell’ansimare,
mi piaceva quel culo prepotente. E mi piaceva domarla. Tigretta non era
un sacco di patate, che potevo sbattere a destra o a sinistra, o
poggiare a mio piacimento, sta di fatto che il mio passato era molto
più profondo del suo, in ogni senso, e in ogni caso le stava bene
così. Entrambi eravamo soddisfatti, anzi entusiasti, e non avevamo
bisogno di stare a ragionare sul da farsi: ogni cosa ci andava a genio.
Forse l’amore riusciva ad estrinsecarsi in noi solo allora, senza
bisogno di stare come sempre sulla difensiva? E allora perché se nel
darci passione eravamo così distesi e spontanei, non lo facevamo
sempre?
Quanti dubbi, tormenti, lotte, se io e Tigretta
eravamo fatti l’uno per l’altra, dovevamo ancora attraversare?
Questo io non capivo.
Il pomeriggio lo passammo in estasi, prendendoci e
facendo tutto quello che ci passava per la mente, tutto quello che il
nostro istinto richiedeva. Stare sdraiati l’uno nel corpo dell’altra
era semplicemente celestiale, ma anche in quel caso passeggero.
Accarezzare i suoi capelli, le guance, guardarla negli occhi
infinitamente, era un desiderio maestoso. Era bella, di una formosità e
un’irraggiungibilità spaventose. Parlammo come al solito di amore, di
un prossimo nido, ma ciò che più mi dispiaceva in questo tanto sperare
e fantasticare, era che lei spesso e volentieri mi demoralizzava, mi
rimpiccioliva, rendeva minuscolo quel qualcosa che forse provava per me.
Ed io quasi mi sentivo in secondo piano, come probabilmente era, e non
lo sopportavo. A stento acconsentivo con un ragionamento dialettico e
irreale alle sue dichiarazioni, credo spontanee. Ma la verità era che
io non volevo essere di secondo interesse per nessuno. Io desideravo con
tutto l’animo, con tutta la ragione di essere il primo essere
esclusivo degno del suo amore, e questo ancora non avevo voglia di
dirglielo. Se meritavo di essere amato sovrumanamente, ciò doveva
accadere per sua libera vocazione. Del resto io che me ne facevo di una
che vedeva in me solo un rimpiazzo, una spalla secondaria.
Nelle mie ultime teorie sulla Vita e sull’Amore mi
piazzavo al centro dell’esistenza, e tutto il resto, egocentricamente,
ruotava attorno, secondo varie importanze e gradi. Per cui, se davo a
una donna una parte importante in me, io dovevo essere per lei l’oggetto
principale della sua esistenza, la cosa più importante: senza di me
sarebbe stato preferibile morire o non essere mai nato.
Ci avevo messo tanti anni, lunghissimi e
interminabili come l’inferno, per riuscire a sopravvivere in questa
merda di mondo, con disgrazie che mi erano entrate spontaneamente da
sotto per poi uscirmi dalla gola fino a strangolarmi, ma non del tutto.
Se ero riuscito a ritornare in vita con un vigore maggiore e con una
perfezione raggiunta grazie alla sofferenza, ciò era dovuto alla mia
Volontà di Potenza, di andare Oltre. E se lei era un ostacolo alla
crescita delle mie ali, io l’avrei aggirato, lasciandola (alla sua
vita libera e minuscola). O le avrei insegnato a salire molto in alto
con me, dove l’aria è più pura e la terra è lontana e destinata
solo al moltiplicarsi degli armenti.
Dopo quel sabato non la vidi per una settimana, e il
non sapere cosa le fosse successo, era per me causa di rabbia e di
apprensione. Che le costava darmi una qualsiasi notizia, trasmettermi
una sillaba affinché capissi se era viva, se stava male, se mi pensava,
se tutto andava bene. Invece, niente! La stronza non mi faceva sapere
niente. Se le avessero amputato le mani o le avessero cucito la bocca, o
peggio ancora, se le avessero imbalsamato il cervello, allora avrei
capito. Ma così, senza una ragione, senza una sua comunicazione, mi
veniva da impazzire. Tigretta, stava tirando troppo la corda. Forse
voleva questo?!
Venerdì la trovai al lavoro. Non sapevo se
incazzarmi, maledirla, schifarla, mandarla a fare in culo, dirle che era
una bastarda. Provai a fare il duro, ma di tutto il discorso che di
giorno e nelle notti insonni avevo preparato per lei, riuscii a dirle
solo "ti odio". Poi ci abbracciammo e ci baciammo. Averla lì
con me annullava ogni mia sofferenza, ogni rabbia passata, ogni
sentimento di screzio. Come un polipo appiccicoso non la mollai un
attimo, per tutto il giorno. Cominciai ad accarezzarla, a scodinzolarle
attorno. Ero felice che era vicino a me. Che era presente. Barby non
poteva capire cos’è l’assenza e la privazione di una persona che si
ama. Almeno questo pensavo. Ma forse stavo cominciando ad essere troppo
ingiusto con lei, forse volevo troppo. Ma questo era il mio modo di
amare. Amare troppo o non amare niente. Senza vie di mezzo, senza
accomodamenti, in modo totale ed esasperato. Dei due in vero, il fuori
di testa, la mente malata, l’esasperato, l’animale da allontanare e
rinchiudere in una caverna, ero io. Non volevo solo distruggere una
creatura bella e istintiva. Solo che questa volta non ce la facevo a
fare un passo indietro, perché io avevo bisogno di lei. Del mio
compito. Come spiegarle che io ero una creatura bestiale, un essere
indegno, senza più anima, un vomito uscito alla luce dalla cloaca?
Chissà cosa l’affascinava di me, che interesse potevo suscitare?
E’ vero, ero l’evoluzione di un qualcosa di
superiore, di estremamente irraggiungibile, quasi inafferrabile (e
infatti mai mi raggiungesti, e alla fine non era poi così impossibile:
bastava cambiare un po’, o, meglio, capirmi una lacrima, solo capirmi.
Ma a te interessava solo l’apparenza, non solcare la mia profondità),
e sono convinto che anche per questo le piacevo. Ma si era accorta
veramente di come ero fatto? Sarebbe riuscita a sopportare il mio
essere, pesante, strano, lunatico? Quanto tempo avrebbe resistito alla
vista di tutte le mie non comuni paradossali vastità? (vasto nel senso
di senza fondo, senza sorriso, amaro nella visione di ogni futuro,
benché io mi sforzassi di apparire gioioso e speranzoso). Sapeva
Tigretta che ero in continua evoluzione, senza meta, senza riposo,
lontano da prati fioriti e gaiezze spensierate? Potevi fermarmi, ma ti
dovevi fermare con me. Aprire la mente e valutare senza schemi, con uno
sforzo non consueto, arduo per altri, e forse incosciente.
Sapeva che non riposavo più nel mio letto
tranquillo? E che il suono di una chitarra, strumento per me di
solitudine estrema, non era la musica dolce di un allegro fanciullo, ma
solo la vibrazione acutissima e il pianto di uno che si contorce per
terra?! Forse secondo lei suonavo per felicità, ma io tutte le volte
che prendevo una chitarra, lo facevo perché… la chitarra era la
Solitudine. Eppure la chitarra poteva diventare espressione soave di due
animaletti in simbiosi. Non era difficile fare cip con me.
Spesso me lo ripetevo ad alta voce, o lo dicevo al
Pelato e a Mu: "raga’, che mi crediate o no, io adoro Tigretta!
Mi piace, le voglio bene, sento qualcosa di forte. Ma che cosa posso
fare, so già che è difficilissimo pensare di poterla cambiare, di
riuscire a farla diventare una donna riposata e tranquilla, dedita alla
famiglia, al lavoro. Io vorrei che cambiasse, che mitigasse il suo
carattere aspro. Ma non vuole. E a me tante cose so che non andranno
giù, perché non posso ingoiare situazioni e modi di fare che non posso
concepire. Non posso inghiottire un intero mondo già confezionato e
dire che lo accetto e mi sta bene così. No, ciò è impossibile. Se non
cambia, non posso fare altrimenti. O meglio, io e lei non possiamo fare
altro che lasciarci, altrimenti soffriremmo malamente in due".
Spesso quando le parlavo e le spiegavo qualcosa, lei
se non mi credeva, o non era convinta, o se si imbestialiva con me,
faceva come una bimba, quando vuole un giocattolo e la mamma non glielo
vuole comprare: quando, forse da piccola, volendo una bambola si
piazzava davanti alla bancarella e non si muoveva di lì finché non
veniva accontentata. O peggio ancora, se non riuscivo a convincerla di
una cosa e le dicevo "fai come vuoi", alzava la voce, o mi
lasciava sbattendo la porta.
Tra quello che non potevo accettare c’era la "dispersione"
e l’"ostinazione".
"Barby, io non sopportavo… forse troppe cose,
ma in fondo non era proprio così. Se io volevo starti accanto tutte le
volte che potevamo, senza disperderci con altre persone, era perché
sapevo e so che la vita e la possibilità di amarsi hanno una durata
passeggera: dietro l’angolo c’è sempre il tempo che ti porta via
tutto senza accorgersene.
Se inorridivo quando tu mi parlavi dei tuoi amici,
del tuo essere legata a certi ambienti della tua vita. Se m’incazzavo
in certi discorsi che rubavano tempo a noi, era perché non volevo che
tu sacrificassi il nostro rapporto per altri: ti volevo solo per me.
Forse egoisticamente, ma io e te. Un giorno o l’altro avresti capito
che negli altri si trova solo un passatempo, mentre il ponte proiettato
lontano è solo quello che si costruisce e si attraversa per e con la
propria famiglia. Io volevo questo per noi. Sapendo che alla fine si
resta soli, e l’amicizia e le conoscenze, dopo un periodo che sembra
lungo, ma che passa velocemente, ce le troviamo nel culo, come tutti. E
tu, sempre alla scrivania a lavorare, impegni vari, cagate di
appuntamenti. Ti accorgerai che il lavoro stimola e trasforma una
persona, ma esso non è tutto, ma solo una piccola parte di vita. Tu non
facevi l’impiegata, tu "eri impiegata"; tu non facevi questo
o quello, tu "eri". Invece, tu "eri" svariate cose,
ma ti immedesimavi nella tua professione al punto da non vedere altro.
Come mio padre, come tutti. Cosa mi ricordo di lui adesso? Che sulla
tomba sta scritto prof. ecc.?! O mi ricordo invece dolcemente che lui
adorava i gatti, mi cucinava la trippa con salsa piccante, che nel
giardino aveva le galline per le uova fresche, che parlava come
Demostene, che la sera quando rientrava a casa mi portava i cioccolati
Duplo, che guardavamo i film di Antonio De Curtis, che mi picchiava –
questo era un po’ meno bello - quando litigavo con Selene, che al
ritorno dai viaggi in Romania mi portava sempre libri e vocabolari?!
Questo era mio padre… non la sua professione. E mia madre capirebbe.
Diceva sempre che era ambizioso, e che il lavoro per lui veniva prima di
tutto.
Ci sono voluti tre decenni per capire tanti sbagli,
tante impressioni negative, tante sofferte esperienze, ma alla fine so
che sono un uomo migliore, semplicemente un uomo, ma migliore.
Non ero cattivo con te, e non lo sarei mai stato.
Volevo farti solo capire, quello che io ho capito dopo le esperienze
negative, amaramente e ricevendo una bastonata.
Sai cosa era pure difficile per me? Quella tua
ostinazione a non voler lasciare un mondo popolato di esseri che forse
sì ti avevano aiutato, ti avevano tenuto compagnia, ti avevano
consigliata nelle ore più buie che avrai attraversato, dove la luce era
solo il conforto di una parola amica, ma che ora erano solo un impaccio
alla tua vita, erano un legame brutale col passato, e da questo si
doveva fuggire via. Ti disperdevi facendo "la consigliera",
"l’ausiliatrice", allungando le braccia nel vuoto, dove non
c’era niente da afferrare. Nella nebbia di esistenze disgraziate e
già rovinate. E avresti continuato a rovinare la tua (e tu non lo
capivi, nemmeno con me che te lo spiegavo).
Ero un lupo paziente, ma non un lupo demente.
Forse l’errore più grosso con te, era stato
temporeggiare e aspettare il miracolo, ma se non lo volevi tu, era
impossibile."
Parlerei di più di Tigretta, molto di più, pagine e
pagine, ricordo infatti i minimi particolari, i sorrisi captati al volo,
gli odori (ti ricordi che ti dicevo che annusavo il profumo della tua
tuta lasciata sulla sedia quando tu non c’eri?), però ciò mi fa
perdere in una dimensione bellissima e particolare, nell’abisso
(perché lei era veramente un abisso) di un qualcosa che è solo mio e
suo. E in questo do ragione a lei. Avrei voluto di più, avrei voluto
darti di più.
Un anno era passato da quando avevo messo piede in
quell’edificio dal quale ancora non ero riuscito ad andar via. Il
lavoro mi logorava quanto non saprei spiegare, un lavoro di
archiviazione di documenti inutili, un lavoro inutile. Ma che alla fine
era pagato. E questo era per me l’unica cosa importante.
Sentivo di percorrere un periodo di transizione, dove
una nuova prospettiva mi si sarebbe aperta, una luce che poi sarebbe
diventata buio, come prima, come sempre. Come ogni luce. Ormai non c’erano
trasformazioni che io non conoscessi, che amassi.
In questa fogna lurida e oscura non potevo maturare
se non un desiderio di andarmene, una fuga verso un mondo nuovo, che
sapevo ugualmente non esistere. Ma volevo partire. Sentivo la stanchezza
del consueto, l’ordinario che ti logora giorno dopo giorno. Gli stessi
visi stanchi e inespressivi, se non nella loro morte tediante.
Ormai avevo abbandonato persino la mia stanca ricerca
di cibo e di riproduzione, per far posto solo alla mia rotazione lenta
che mi portava verso un fondo sconosciuto. Ero stanco.
Non so che giorno fosse, non so se fu il sorgere di
un nuovo calore.
Entrò nell’ufficio scannato dalla calura estiva
con un’aria frivola e disinibita, con quella ostentazione di un corpo
sensuale e una grazia pericolosa. La sua aria giocosa e capricciosa
contrastava con la severità del luogo, col sussiego arido del gregge
relegato in un contesto pubblico da uno stato - misero e vile.
"Ciao, io sono Deborah… posso socializzare un
po’ con voi?" E socializzammo.
La sorpresa nacque dalla sua natura totalmente
estranea. Estranea a qualsiasi cosa. Notai sinceramente un bel corpo
agile, non ancora corroso dal tempo, con i suoi arti che si slanciavano
in una danza gesticolante alla ricerca d’un qualcosa mai trovato od
ormai perduto. Il sogno di ogni giardino fertile destinato a produrre,
ma mai arato, mai amato.
I suoi occhi avevano lo splendore di una cascata
azzurra e verde in una grotta grandiosa ed esplorata solo da pochi
ricercatori. Una grotta nascosta. Affascinanti, intriganti, lontani e
ancora accecanti. La luce sinistra di una belva che piange.
Le sue mani affusolate si muovevano con la
delicatezza strana del ragno che passeggia non a caso sulla tela.
Eburnee e laceranti, con tutto ciò che afferravano, ma anche calde e
sinuose con tutto ciò che avvolgevano. E come diceva lei
"zampette" da accarezzare, zampette da stringere e
avvinghiare. Zampette con cui giocare.
Cominciò a parlare di sé, del mondo, di orizzonti
ricercati e da lei raggiunti, di spiagge calde nel dolce far niente. Un
mondo dove il sole ti nutre con una terra carica di frutti spontanei e
con un mare che aspetta solo te. Un mondo che non c’è. Ma lei c’era
ed era reale, almeno quanto lo è un sogno che puoi raccontare. Il
giorno dopo e i giorni a venire.
Notai la fanciullezza felina della donna che
ripercorre il passato e recita se stessa, in un copione ormai logoro
nella sua ripetizione, ma sempre fresco e accattivante per un animale
rapace e acuto. Mi stupì. Lei così ancora bella, così ancora
sensuale, così ancora di un succo dissetante e…
Di lei non sapevo alcunché, e quello che seppi dopo
si rivelò solo come un riscontro di ciò che avevo immaginato. Cioè il
gioco di un animo alla continua ricerca dello stupefacente, tuffato nell’affannoso
ardente anelito irraggiungibile di un mostro che ti uccide sempre, un
mostro chiamato Amore. Lei, sensibile e dolce voleva l’amore. E lo
cercava, lo inseguiva, a volte lo acchiappava, e sempre le sfuggiva. Con
la sua scia succulenta e velenosa, di un sogno che mai si raggiunge, se
non quando sta per svanire, potente e doloroso come ogni sogno bello. L’amore,
gioco amaro, ma il solo possibile.
La rividi in circostanze occasionali, accompagnata
spesso da un’amica, una collega o qualcosa di simile. "Trezzulella".
Sua coetanea. Appariscente anche lei, giovinastra anche lei, sensuale
anche lei. Ma con delle tonalità più scure o più marcate, le stesse
che separano una pantera da una gatta, un’aquila da un chioccia, una
cavalla araba da una quadrupede sarda. Il giorno e la notte, la luce e
le tenebre, il sì e il no. Ma simpatica anche lei. Comunque diverse.
Ancora non sapevo la sua età, almeno quella
certificata da una burocrazia che archivia e analizza tutto. Il tempo
invece me l’aveva già rivelata. Ma questo non importa, non importava
a me che non valutavo la bellezza secondo dei parametri omologati e
convenzionali, operazioni riservate solo a chi non ha pensieri propri.
Aveva quarant’anni. Cioè un numero che ti dice
tutto quello che può spaventare o attrarre. Un numero che mi spaventava
e mi attirava. Ma solamente un numero. Il resto, la rimanente totalità
era sovrastante, come tutto ciò che dice "io sono ciò che non hai
mai bevuto". Le Colonne d’Ercole. E quindi mostri o una
nuova terra?
Avventurarvisi era pericoloso, ma la sete di
conoscenza era tanta. Troppa per uno che aveva conosciuto solo galline,
cavalcato somare, allevato gattine domestiche.
Non è facile descrivere lei, una che conosci solo
riflessa da uno specchio, quello del suo ideale… tuttavia comincerò
dal ricordo frammischiato al vero, dalle percezioni rielaborate senza
ordine di tempo.
Per avvicinarmi a Deborah le regalai un libro, che
poi avrebbe raccontato anche di lei. Ed era questo. Un libro dagli spazi
bianchi, da riempire, fatto di sangue e dolore. Una vita.
Passarono dei mesi e lei forse era scomparsa in quell’estate
che allontana chi è vicino, e avvicina chi è lontano. Le migrazioni
degli uomini che cercano il proprio passato, lasciato chissà dove e
ogni tanto riesumato, o che cercano chissà cosa, e se lo inventano con
palme e pescecani, con religioni che aspettano solo noi, testi sacri in
cui affondare l’analisi di un’introspezione che ti rivela finalmente
tutto, quello che hai sempre voluto, per dirti "io sono il tuo dio,
io sono la tua verità", quel logos che finalmente
aspettavi. Un’altra metafisica, un altro desiderio di chiarificazione
dell’esistenza. E per dirlo brevemente: ancora delle stronzate.
La ritrovai abbronzata come lei voleva: bella e
solare, fresca e sorridente, con le rughette nascoste da uno strato di
sole. Al bar, sola, o forse in compagnia di un signore pingue, di quelli
che non hai mai visto in giro, se non seduti dietro ad una tavola, con
le bretelle rinforzate che a stento tengono su dei pantaloni fatti su
misura, un bel boccale di vino rosso, e nel piatto gli avanzi di una
bestiola sbranata da poco.
Lei stava mangiando un panino pugliese, stretto tra
le manine che l’offuscavano. Ci teneva alla vita snella, alla pancia
che non aveva, ad una forma che controllava ovunque ci fosse uno
specchio, una bilancia, un misuratore di bellezza. Sì, così era bella,
come forse mai prima, e sicuramente mai più dopo. La stasi tra l’imperfezione
e la decadenza.
Mi salutò con un bacetto da compagna di scuola, due
vecchi amici che si son perduti per sempre e all’improvviso si
son ritrovati in un posto qualsiasi, in un anno qualsiasi. Le chiesi:
"Deborah, mi puoi togliere una curiosità?" Lei mi esaudì. Mi
disse la sua età. Se avesse avuto dieci anni in meno mi avrebbe amato.
Risposta postuma ad una domanda postuma.
Cos’ero allora per lei?! Un corpo ben modellato da
guardare? Un viso giovane da carezzare? Un’energia da incamerare? Un
tempo da ritrovare? Un cervello laureato da portare a spasso e alle
feste di vecchie donne ristrutturate? E chi lo sa. Magari un frutto
immaturo da riscaldare, in una nuova serra pregna di un fertilizzante
sicuro di sé.
Domande, tribolazioni, nuove interrogazioni, pensieri
soavi e peccaminosi in quest’unica esistenza, dove il dubbio e la
ricerca oltrepassano l’impossibilità del fermarsi e del godere quel
che non si può mai tenere in pugno. Questa era la mia vita: non
racchiudere dei sogni in una gabbia. Ma sperimentarli e amarli, già
sapendo che l’effimero è dietro il sogno. E che il sogno è solo un
attimo che si intravede, e si perde nel momento stesso che lo hai
sfiorato. E se te lo ricordi ancora, forse è ancora peggio.
Io e il Pelato andammo via (eravamo rimasti soli,
senza il nostro Mu. Gli avevano tagliate le ali).
La rincontrai innumerevoli volte, soliti saluti,
baci, lavoro, fidanzate, incidenti, soldi che non bastavano mai, freddo
e nuove pianti. Adesso aveva letto il libro, tormentoso, angosciante,
carico di vanità, interessante. Le piacque. Quel ragazzotto triste
dagli occhi di plastica, un po’ vanesio e un po’ puerile, quel
ragazzotto dieci anni più…
Parlammo, tanto, ridemmo, in un gioco dolciastro. Ci
cercammo. Così, sospinti dal vento. Mi presentò a varie creature sue
colleghe, giù per le scale in labirinti fatti da stanze piene di
polvere, lerciume, fogli e plichi accatastati. Labirinti viventi. Volevo
conoscere ciò che era, dietro quella maschera, quelle trecento
maschere. Mi sembrò circondata da strani tipi, donne rovinose,
impalcature semoventi, ratti con capelli biondi, un miscuglio di demoni
e divinità sotterranee, dove si ringhia col sorriso di bocche maligne.
Tutto accanto a lei era tetro, buio, avido di sangue fresco. L’immortalità
del pipistrello e del vecchio. Lei no. Sapeva di eterna bambina.
Deborah, nomignolo o altro che ancora non ho capito,
era di una vanità superiore alla mia, ma mentre lei era alla ricerca
della conservazione io ero all’inizio – forse qualcosa più in là
– del mio annullamento come essere dozzinale, in quella continua
trasformazione che fa sì che un essere raro si spogli delle sue
normalità, per far posto a ciò che è: il sublime, il fragile, l’irraggiungibile,
e quindi l’impossibile.
Tra noi l’attrazione era un fatto estetico: ciò
che fu bello e ciò che sarà bello. E in questo divenire ci sarebbe
stato un attimo, una breve esitazione della natura, dove anche il
lontano e il vicino si attraversano e trattengono il respiro. Un attimo:
il bacio dell’aquila allo scoiattolo.
Dopo tanti sorrisi, caffè dolcissimi, fioriti passi
l’uno accanto all’altra, venne il tempo delle domande che cercano l’anima,
la profondità di quella macchina che muove la bocca, il pensiero, gli
occhi che scandagliano.
Deborah accese il suo motore diesel, avanzando
lentamente coi suoi cingoli d’acciaio, accerchiandomi. Puntò il suo
cannone su di me, ed io mi trovai sotto tiro, ormai disarmato di fronte
a quella forza compatta. Non mi sparò, ma evidentemente in qualche modo
mi colpì, e sempre fuoco era. Caldo e attraente come ogni fuoco, caldo
e distruttivo come ogni fuoco. Il patimento di un’anima che è
arrostita, da una nuova passione.
Questa volta però frenai me stesso, a un passo dal
precipizio, che lei era. E ci si moderò. Forse rallentammo, in un mondo
dove si è ancora schiavi del pensiero altrui, dove ci dicono: "tu
vai contro, tu vai oltre!" Dove gli analisti del giusto e delle
viscere stabiliscono che un dirupo è uno strapiombo, e non un punto dal
quale spiccare il volo. Dove il mare non è un contenitore di pesci, ma
di sale. E il sole è la causa del deserto, e non la luce più bella.
Denigratori della vita, distruttori del sentire. Quelli che catalogano:
homo sapiens, puer aeternus, equus caballus. Viliores homines totius
mundi. E studiano la lingua giapponese solo per essere diversi dagli
altri: "io ho passato cento anni della mia vita a interpretare il
codice etico, ammesso che esista, dei Protoindonesiani…" e chi se
ne frega. In un mondo dove tutto è schedato, scientifico, in un mondo
pieno di scopi. Gli dei della verità.
Occorreva farsi strada tra tutte queste spade che
recidevano ogni muoversi, aguzzini che erano preposti alla salvaguardia
della convenzione, al di là della quale esiste solo la
perversione della illogicità, l’anormale che è ingiusto.
Eterna divisione tra bene e male, morale e amorale. Morte e Vita.
Questi pensieri e titubanze spaventavano. Noi.
Ma un’altra infamia ancora poteva frantumare il
nostro annusarci. Decisi allora di manifestarglielo, di getto, senza
darle la possibilità di intuizioni preparatorie. Andai nel suo ufficio.
Chiusi la porta.
Non si scompose, ma la sua pelle si irrigidì, mentre
il suo stupore la teneva nella tranquillità più irreale. Mi guardò
con occhi di chi o non crede, e allunga le orecchie fino a tapparti la
bocca, o pensa di essere presa per il culo – come quello che oggi mi
piazzò sulla scrivania. Compatto, solido, e di fattura artistica. Un
bel culo.
Per un giorno o due non capì. Forse cercò di dare
una spiegazione logica all’illogico, e comunque era un animale di razza.
E ritornò.
Un giorno, per una posa davanti ad una macchina
fotografica (cioè l’estasi per lei e per me), la sua manina dalle
unghiette affilate prese la mia, avviluppandosi in una compenetrazione
calda e giocosa. Fingemmo un’unione affettiva, ma le zampette calde
non erano una visione irreale, bensì altro. In quel frangente, un
irrigidimento mi attraversò il corpo, giungendo dove si raccoglie il
desiderio sanguigno, che poi esplode nel suo vigore. La sua mano
poggiata sul mio petto accelerò il fluire di una forza assurda che
gridava superba.
Stavo per venire via da quella strana condizione che
separava la nostra distanza: come due uccelli che prendono il volo
insieme dallo stesso albero.
Sinceramente spesso la immaginavo distesa sul mio
letto, nella parte sottostante al soppalco, che abbracciata al mio corpo
mi toccava il petto, carezzandolo con un tocco sincero e voluttuoso,
alternando la dolcezza all’aggressività: tirandomi i capelli lunghi e
corvini, con le unghie che mi conficcava nella schiena, su cui si
aggrappava nel nostro amplesso selvaggio e penetrante. Poi incrociavamo
le dita delle mani e ci baciavamo avidamente nel lungo ondulare dei
nostri corpi. E lei gioiva come non mai, con me che la possedevo e la
riscaldavo.
Chissà alla fine quali erano i suoi pensieri, cosa c’era
dietro a quei sorrisi, a quel ricercarmi, forse un’appassionata
voluttà di giocare, giocare e basta?
Sarebbe troppo semplice pensare che uno si mette a
sbucciare le cipolle, taglia le carote, fa un ottima salsa di carne
trita, butta giù la pasta (maccheroni) e poi non se la mangia. Non
avrebbe avuto senso pensarsi, telefonarsi, immaginarci, studiarci. E
certamente era come io speravo, o come andarono in effetti le cose. Ma
come andarono le cose? Ecco cosa le scrissi: "Ciao Debora, ti
scrivo per dirti che oggi mi hai di nuovo stupito, ma questa volta in
negativo.
Pensavo che accettassi la vita senza inibizioni o
altri moralismi, o dinieghi derivanti da chissà cosa.
Ti scrivo per dirti che la vita per me si svolge
secondo degli imperativi categorici: o è giorno o notte, o luce o
tenebra, o è sì o è no. Non ho mezze misure. Tu hai scelto il no.
Rispetto quello che hai deciso. Quindi io devo seguire la negazione, e
perciò troncare ogni rapporto con chi mi pone degli ostacoli, o muri. A
me il gioco non piace senza una meta. Tu continua a giocare. Continua a
giocare con la tua vanità, col tuo esibizionismo, con gli altri, col
tuo corpo, con la tua vita. Ben presto ti accorgerai che la senilità ti
spalmerà sul viso lentamente (e nel tuo caso ha già iniziato a
tracciare il solco) i segni di quello che pagherai, anche se a te non
sembra adesso. Ma se ti siedi su una poltrona, o se ti guardi in giro,
se guardi l’orologio, se un attimo riesci a riflettere, ad allontanare
da te ogni gioco, comincerai a capire che il tuo fiore è giunto alla
sera. Mi dispiace essere cattivo (o schietto) con te, ma io finisco di
giocare. Non mi piace ciò che non ha senso, ciò che è fine a se
stesso, e per essere succinto: il fatto che tu non voglia scopare con
me. Coltiva solo ciò che ti circonda, e magari potrai giocare ancora
per qualche tempo. Forse. Ti auguro di trovare tanta serenità, di
alzarti un giorno e dire: Deborah non vale niente senza mostrare le
cosce. Debora vale di più senza mostrare le cosce".
Un giorno la invitai a casa mia, quelle due stanze
che avevo destinato a rifugio, lontano dal mondo, o lontano da me. Pochi
addobbi per un albero di Natale caloroso. Col mio sacco d’allenamento,
il minicesso, il letto a castello, una scrivania, e altre poche cosette.
Dentro vi respiravo il sapore ardente di un vulcano,
la malinconia di un’esistenza solitaria, l’eternità di un tempo che
mai vedrò. Una bara grande o la certezza di ciò che mi mancava
veramente. Sentivo la stranezza di vivere solo per me, come una
dannazione che ormai mi portava a non contagiarmi con gli altri. Ma era
questo quello che desideravo veramente nella mia calma disperazione?
Potevo condurre mesi e anni così, sapendo che fuori c’erano colori
accesi, donne che compravano fiori, bar pieni di viva comunicazione,
profumi di raggi solari?! Che ci facevo lì, esiliato da tutto questo
movimento, nella mia statica pensosa morte cosciente? Dov’erano finite
le mie emozioni, le passioni di quel bimbo che giocava il giorno e la
notte con altri bambini, col trenino, che adorava le scampagnate, la
fiducia, l’amicizia, il passare il tempo con i grandi amici.
Dov’ero finito?
Deborah venne con i suoi lunghi stivali che la
slanciavano ancora di più, venne con la sua splendida essenza di donna
in fiore. I suoi occhi parlavano ancor più di me, parlavano di un tempo
che non esiste, dove il mondo viene chiuso fuori da una porta di un
quarto piano, d’un edificio vecchio, in una città vecchia. La grotta
buia illuminata da una torcia. E allora vedi uno sgabello che diventa
sedia, un letto prato, e un animale un uomo. Le offrii un caffè nero,
poi… mi svegliai.
Epilogo
Un suono martellante, continuo, insistente, pesante,
infinito mi riportava alla luce del giorno. Il telefono mi avvertiva che
lei mi cercava: una tipetta lontana, insondabile, oscura, misteriosa, cattiva,
con gli occhi da aspide e il naso da falco, insomma una stronzetta
dolcissima, voleva sentire la mia voce. Cominciò a parlare con un
"ciaooo" lunghissimo, che equivaleva a "sì sono contenta
che mi hai risposto, e quindi non ti attacco subito, però pezzo di
merda e stronzo poi ti aggiusto io". In effetti mi aggiustava
come voleva lei. Prima mi faceva salire sulle vette di montagne
altissime, entusiasmando il mio ardore verso di lei, proiettandomi in un’euforia
ansimante, e poi mi buttava giù. "Joe, io sono stata sempre
sincera con te, non ti ho mai illuso, ti voglio bene, tvb; Joe ma noi
siamo amici, e bla bla bla". Che palle! Mi rimproverava forse la
mia esistenza.
Il fatto di avermi conosciuto, e pian pianino di
essersi "intrippata" di me, come mi disse quel martedì di
primavera, per lei era un dolore che non sentiva più da tempo,
quel dolore che i poeti e i ragazzi chiamano Amore.
Tutto questo la rendeva viva, la risvegliava da un
torpore in cui era caduta da tanti anni, la riportava in superficie a
contatto con l’aria. E un respiro profondo la smarriva. A tratti era
percossa da ripetute crisi d’identità, non capiva più se quello che
aveva voluto per un passato lunghissimo fosse ancora possibile nel
futuro: insomma adesso vedeva che esisteva un futuro. Diverso,
possibile, ma sconvolgente. Per acchiapparlo avrebbe dovuto iniziare una
lunga lotta, forse quella di una formica contro il vento; avrebbe dovuto
distruggere secoli di progetti raggiungenti il cielo, ma che ora
vacillavano in preda ad un uragano oscuro. Forse sapeva che distruggere
significava un po’ morire. Ma per rinascere bisogna pur sempre perire:
questo io le dicevo. Il mondo che la circondava le aveva innalzato
barriere che la proteggevano dal vero, dal possibile, dal vario, e lei,
piccola bimba, questo lo sapeva. Sapeva che al di là della muraglia c’erano
i lupi e le aquile, ma sapeva anche che i lupi e le aquile erano spiriti
liberi, anime in fondo solitarie, esistenze lontane dalle pastoie e dai
recinti, in cui spaziare è circoscritto. E la libertà spaventa,
soprattutto chi crede di essere libero, e libero non lo è mai stato.
Essendo legato da una corda lunghissima che simula la possibilità di
spaziare. Ma chiedete ad un cane che pensa del guinzaglio o della corda…
Era un pomeriggio di fine novembre, o comunque
autunno, e mi trovavo a perdere un po’ di tempo in giro. A dire il
vero fu lei che volle conoscere me. Presto, ossia nel pomeriggio stesso,
si instaurò tra noi qualcosa di particolare che poi divenne altro. E
forse altro ancora. Il suo modo di essere mi avvinghiava a sé, riusciva
a trasmettermi, come se mi fosse accanto, delle sensazioni reali,
sconvolgenti. Ci piacemmo, per cui ci scambiammo i numeri di telefono.
Quando la richiamai, mi rispose con una voce da bambina, calda, sensuale
a tratti categorica e feroce. La voce di una belva dolcissima, che mi
lacerava il cervello e si abbeverava del mio sangue.
Passarono settimane e mesi, l’autunno e l’inverno,
e noi eravamo sempre in contatto, sempre a cercarci (forse mi cercava di
più lei). Non so cosa vedesse in me, cosa sognasse, che sensazioni le
scatenassero i miei soliloqui, le mie parole, il mio modo di essere. Non
so che cosa fossi per lei. Il mio fantasticare poteva spingersi oltre le
effettive aspirazioni possibili, ma notavo che anche lei giocava alla
stessa maniera. Certamente non aveva mai conosciuto uno come me, né
pensava che esistesse. Forse mi vedeva agile, alato, intelligente,
giocherellone, caldo, cucciolo e forte allo stesso tempo. Mi
idealizzò, per come poteva riuscirle. Credo che mi costruì più
celestiale di come fossi.
Ma la verità era un’altra. La verità che lei
voleva e che alla fine dovetti dirle, per non continuare a mentire, per
non essere un vile. Solo che ciò avvenne quando potei fidarmi
completamente. A dire il vero, cercai di fuggirle, di rendermi
introvabile, di fare il bastardo, di spingerla a lasciarmi perdere:
avevo cominciato a volerle bene! Non volevo che si affezionasse ad uno
come me, altrimenti il gioco sarebbe diventato guerra. Con se stessa e
col mondo.
Essere capito da una moltitudine sarebbe stato
difficilissimo (e io nemmeno lo volevo); riuscivo ad aprirmi solo a
pochissimi (eletti o sfortunati?!), e da allora divenivo per loro fonte
di sfortuna. La mia intelligenza superiore mi spingeva a non
affezionarmi a nessuno, e nessuno si doveva affezionare a me. Troppo
tempo avevo passato nel dolore. E l’amore era la gioia e il dolore
più grande che conoscessi. Ancor più della morte, o quasi. Il suo nome
era bellissimo, e contrariamente a quel che le promisi, non potei
mutarlo o travisarlo in questo scritto. Tentai pure di anagrammarlo. Ma
non volevo. Lei era Lavinia. Un fiore splendido e profumato. Gaio
e delicato come ogni fiore. Fugace come ogni fiore.
Dietro la sua corazza di scorpioncina tosta e di una
forma mentis invalicabile, quel viso da marescialla (come la
chiamava la mamma), quell’iceberg apparentemente freddo e
calcolatore, quella sfinge enigmatica, si nascondeva una
sensibilità stupefacente, una sensualità tempestosa, una creatura
rara. E la cosa peggiore, per me e per lei, è che io la intravidi.
Ma dove stavano gli ostacoli? Non lo so. Forse non ce
n’erano. Apparentemente il mio mondo e il suo erano lontanissimi.
Apparentemente lei era fidanzata da anni (dalla fotografia che mi fece
vedere, notai una specie di yeti, forse magari dolce, ma una bestia).
Apparentemente: troppe stronzate, Lavi’.
Qualsiasi cosa è abbandonabile in questa vita: lo è
persino la vita. E ora che, per la prima volta, lei trovava un ragazzo
che la intrigasse, che le piacesse, che la entusiasmasse, che la
rendesse donna e viva, che cosa faceva… tentennava. L’amore, che una
serie di circostanze le aveva piazzato di fronte al suo viso, lei lo
rimpiccioliva in vocaboli come amicizia, affetto, cani, intrippamento, e
cose del genere. E ciò mi dava un fastidio incredibile, l’avrei
scassata. Finalmente le nostre strade si erano intersecate, e lei le
allontanava. Non avremmo più potuto avere una seconda possibilità. Se
avessimo litigato veramente, anche una sola volta, avremmo perso per
mancanza di forza di volontà tutto ciò che ci era concesso quasi per
caso. Ed io ne soffrivo: aveva gli occhi troppo belli.
Ormai ci sentivamo ogni giorno, più volte al giorno,
ma eravamo comunque lontani: lei nel profondo sud io nella parte
opposta. La sua era una bellezza tipicamente mediterranea, e solare,
distante dal mio ricercare, occhi azzurri e capelli biondi, ma proprio
per questo, essendo il contrario di ciò che razionalmente desideravo,
era l’ideale di ciò che volevo. Era il reale (o irreale).
I miei discorsi sui coccodrilli e gli gnu, le aquile
e i lupi, la selezione naturale e la continuazione della razza, l’affascinavano.
O forse l’affascinava tutt’altro. La donna è sempre un rebus, e
Lavinia lo era ancor più. Spesso mi faceva incazzare e io la
maltrattavo, chiudendo repentinamente la conversazione in modo brusco,
ma subito me ne rammaricavo. In fondo, era una brava ragazza, e per
questo non sapevo ancora se persistere nel mio andare avanti o se
retrocedere. Tanti dubbi e tante difficoltà. Io le chiedevo solo un sì
o un no.
Se una donna vuole, può diventare per un uomo un
propulsore talmente esplosivo da non avere pari. La donna è un
propellente. Dilania o ti fa volare. Senza ali.
Ci incontrammo per la prima volta in dicembre. Un
bar, un pranzo velocissimo in una bettola, che per lei era un
ristorante, a guardarci negli occhi, di sfuggita. Visitai la casa dove
abitava con delle colleghe d’università. Ragazzine venute da paesi
pieni di pecore e cavoli, tuffate in una grande città alla ricerca di
una propria trasformazione, come se monumenti, chiese, scuole, palestre
esercitassero su di noi un’impressione atta a farci mutare aspetto e
carattere. Delle pietre, dei fogli di carta, dei vecchi pedanti
fossilizzati nelle loro cattedre, hanno questo potere?… non lo sapevo.
Mi prepararono un caffè, ci fumammo qualche
sigaretta in un salone grande e tetro, privo di anima. Parlammo di due
trecento cazzate. Poi io e lei andammo nella stanzetta che divideva con
un’amica che non c’era. Mi sedetti sul suo letto, sulle lenzuola
ancora pulite della bimba. Non l’avessi mai fatto. La Marescialla mi
rimproverò: il mio culo oltraggiava la culla delle sue gote candide e
pudiche. E il pavimento era pieno di batuffoli di polvere. Ma vai
a cacare…
Ascoltammo musica irlandese, parlammo e scrivemmo. Ci
guardammo anche. Ma ancora non era scoccata quella scintilla che potesse
avvicinare la mia mano alla sua. Ed io avrei tanto voluto baciarla,
coccolarla, stringerla fra le mie braccia. Ma lei niente: ero un amico.
Un cane da compagnia. O pensava che io brucassi l’erba, o abbaiassi in
un giardino di una grande villa.
Diverse ore insieme, ma quasi da estranei. Non si
smuoveva da quel piedistallo. Ci salutammo, e andai via. Qualche giorno
dopo ripartii per il nord, quella terra vaga e caotica, ma che mi aveva
restituito nuove ali e nuove gambe. Di bello non aveva nulla, se non l’anonimato,
e le piccole conoscenze che ti facevi in un mondo ristrettissimo nella
sua grandezza. Incrocio di razze, di destini, di pesci e pescecani.
Continuammo a sentirci, questa volta un po’ di
rado, anche se lei spesso mi rintracciava. Io in quei mesi appunto
tentai di scrollarmela di dosso, ma non perché fosse una zecca
vampiresca, bensì perché quel periodo di affiatamento che mi atterriva
stava per giungere. E giunse. I miei sforzi non servirono a nulla. La
bimba era ostinata e tenace.
Si avvicinò così la data fissata per il matrimonio
di mia sorella: dovevo ritornare nella terra del sole.
Il viaggio fu interminabile, ma ancora di più lo fu
nel ritorno.
Dopo mesi di lontananza rivedevo la mia casetta di
campagna, col giardino pieno di fiori e alberi, cieli infiniti e un’aria
superba, su quel vulcano grandissimo, pieno di luce pieno di malinconia.
Zii e cugini parteciparono alla cerimonia, amici
dello sposo, e una mia vecchia amica, molto giovane: Chiaretta.
Splendida nel suo tailleur, e nella sua freschezza luminosa.
Tornando a caso trovai un messaggio della sfinge.
Qualcosa che mi diceva che lei non era la mia ruota di scorta, che la
chiamavo solo quando decidevo io, e simili attacchi. Era incazzata
perché non l’avevo neanche sentita quel giorno. Ma potevo mai in un
giorno simile avere la testa quieta?! Non gliene fregava. Cercai di
chiarirle il tutto, ma lei arrabbiata e altezzosa mi disse che non
dovevo spiegarle nulla. Insomma, si era imbronciata come una bambina, o
come un serpente. Con un modo di fare che mi faceva incazzare come una
bestia. La mandai a quel paese, le dissi di dimenticarmi e di non
chiamare più.
Passò un giorno, e lei testona si fece viva con un
messaggio. Mi sforzai di non telefonarle, ma non ci riuscii. Facemmo la
pace come cuccioli che possono ancora giocare insieme.
Il martedì della mia partenza sarebbe venuta a
salutarmi alla stazione. Ma le cose si svolsero diversamente. Uno zio
ebreo invitò lei e sua madre a trascorrere quel lunedì di festa nella
sua casa sul vulcano. Cioè, nel mio stesso paese. Il destino ci diede
la possibilità di incontrarci. E ci incontrammo. Con uno stratagemma si
fece accompagnare dallo zio in un posto prestabilito, dove io e mia
sorella, che per allora s’improvvisò sua collega, andammo a
prenderla. Lei sorrideva sotto i baffi.
Occhiali da sole, capelli tinti sul biondo,
blue-jeans, un corpo agile e circospetto si presentò ai miei occhi.
Lasciai mia sorella e il novello sposo a casa, e poi ripartii con lei.
Con lei accanto, era una stagione con migliaia di colori, e il mio stato
emozionale era quasi incontrollabile. A stento esercitavo un controllo
sul mio gioire. Lei mi procurava un’infinità possente: mi sentivo
forte e vigoroso, in preda ad uno stato catastrofico e onnipotente. Con
Lavinia mi sentivo un dio.
Andammo in un bar e poi facemmo un giro in macchina.
Ma Lavinia volle presto andare a casa mia. Conobbe mia madre e Pucci, il
cagnolino di mia sorella. Poi passammo tutto il tempo nella mia
cameretta. Le feci vedere la casa di campagna, che non so se le piacque
(di quello che ti dicevo e ti facevo vedere non ti piaceva mai niente,
te ne stavi sempre sulle tue!). Entrambi eravamo imbarazzati, comunque
ci sedemmo sul letto l’uno accanto all’altra. L’abbracciai, ma lei
si svincolò in un primo tempo, poi vide che la cercavo teneramente e si
lasciò coccolare. Il suo corpo era energico e compatto, le sue mani
fredde (ma poi si scaldarono). Giocammo, ci stringemmo, d’un tratto l’abbracciai
portandola sul mio corpo viso contro viso. Poi avvicinai la mia bocca
alla sua, non toccandola, dicendole che non doveva preoccuparsi, tanto
non l’avrei baciata. Infine all’improvviso la baciai. Le nostre
labbra si avvinghiarono e si lasciarono andare. Quell’iceberg diventò
lava, che mi bruciò dentro e fuori straordinariamente.
Non andammo oltre, forse perché il tempo a
disposizione era poco, forse per non consumarci in fretta, perché ci
volevamo prendere poco alla volta. Forse perché lei non lo desiderava.
Io, invece, l’avrei presa fra le mie braccia e l’avrei baciata dai
piedi ai capelli, la sentivo mia e volevo averla, volevo fare l’amore
(e invece tu avevi il cuore a forma d’incudine).
Fu un pomeriggio fantastico, da fiaba,
indimenticabile. Poi la riaccompagnai dallo zio.
La sera ci telefonammo, cercandoci con avidità. La
cucciola mi raccontava che per non essere scoperta dalla mamma mi
parlava sotto le coperte. Avrei voluto vederla nel suo pigiamino.
L’indomani ripartii. Alla stazione avrei tanto
desiderata vederla, mi bastava un minuto, un minuto i suoi occhi. Ma non
venne. Il suo grano non era maturo per la mia falce. Sul treno sentivo
la morte nell’anima, e le mie viscere erano corrose da un male atroce
che mi rendeva astioso e iracondo.
Una ragazzina aveva questo potere su di me?! Uno che
aveva vissuto in terre infestate da animali feroci, soffriva per il
desiderio di chi mi poteva insegnare solo a coltivare le rose, e forse
neppure questo. Come spiegarle che era primavera?!
Può darsi che davvero ti abbia fatto sentire donna e
viva, ma ora che eri rinata nella tua età più bella, perché non
imprimerti uno slancio ancora più energico?! Perché non tuffarti
perennemente in questa tua nuova forza che usciva alla luce?!
A volte ti consideravo vile e immatura, a volte
donna, ma allora non sapevo – e neanche adesso – chi eri.
Ma così non avremmo potuto continuare per molto
tempo ancora. Bisognava dare una svolta alle nostre vite, concederci di
più, stringere le mani e affrontare un mondo che non ci voleva felici.
Eppure tu non eri ancora pronta per cogliere appieno
l’opportunità che avevamo. Non capivi che la vita dura uno sguardo, e
bisogna afferrare tutto e subito, anche buttandosi in quel che sembra
buio, e invece è il guscio di una lampada infinita.
Lo so che per te ero quasi uno sconosciuto, ma questa
era solo una tua risposta per arginare l’avanzata dentro di te. In
pochi mesi, in pochi attimi, due corpi che si cercavano non avevano
bisogno di un notaio. Entrambi ci amavamo. Ed ero solo io che te lo
dicevo.
Non so che giorno sia, se è passato del tempo,
oppure no. Non so se tu sei lontana da anni, oppure nella cameretta
attigua a leggere un libro. Non so se siamo a letto a fare l’amore, o
se tu dividi la vita con un altro.
So, solamente, che allora mai mi dicesti ti amo.
In quel pomeriggio di inizio autunno una ragazza, che
oltrepassava la trentina, fu assunta nel nostro gruppo di lavoro. Occhi
scuri, profondi, forse vitrei, corrosa in faccia da un qualcosa che ti
rode dentro fino a salire alla superficie. Ma ciò che traspariva
fortemente dal suo corpo di donna dozzinale era la sua quarta di
reggiseno. Fui cattivo con lei fin dall’inizio, se cattivo ha il
valore di spontaneo, ingenuo. E cattivo lo sono tuttora con lei,
appunto, spontaneo.
La qualità negativa che notai subito era la sua
curiosità. Lei voleva sapere sempre tutto, faceva un sacco di domande,
guardava sempre cosa facevano gli altri. Era un’impicciona, e
per tutto questo mi faceva schifo. La consideravo una merda, un essere
calcolatore, opportunista, un serpente da schiacciare al più presto o
da evitare. Tendeva sempre le orecchie a destra e a manca, si
intrufolava nei fatti degli altri, voleva dare consigli, si
riteneva una donna vissuta e affascinante, una che aveva cavalcato
diverse situazioni strane e poco raccontabili.
Lei sapeva tutto, lei aveva attraversato l’Africa
arida a piedi, lei conosceva tutte le posizioni, lei era dolce,
affettuosa, brava, profonda, interessante, romantica. Lei era un fiore,
lei sapeva danzare, cucinare, cantare, lei aveva scoperto la luna.
Insomma un misto tra la Madonna, Mata Hari e Oriana Fallaci.
Rifiutai la vicinanza di questo essere infido con
tutta la mia volontà. Un giorno però volle parlarmi. Mi portò vicino
alla finestra del suo ufficio. Tra dieci minuti dovevamo andare via.
Cominciò a fissarmi col suo solito fare, col suo sguardo indagatore. Io
le dissi che lei non poteva permettersi di guardarmi negli occhi, per
cui doveva abbassare lo sguardo e guardare altrove. Mi faceva antipatia.
La vedevo come un elemento schifoso e viscido.
E invece bastava un vetro rotto, di una macchina
scassata, per farmi capire che tutto quello che ho scritto fino adesso
fosse in quegli anni solo la percezione magra e stupida di uno che non
aveva capito proprio un cazzo. Uno cammina per cento mesi per la solita
strada, sputa sempre nello stesso posto credendo che ci sia una merda, e
poi un giorno che inciampa e ci cade dentro scopre che per tutte quelle
volte aveva sputato su un fiore bellissimo. E tutto per un caso, e tutto
perché dei figli di puttana mi avevano scassinato la macchina. Vorrei
che mi rompessero tutte le sere le palle, se ciò valesse a trovare
anche un’altra sola amica come può essere Laura.
Eppure, era una delle poche allora, quando ero
accecato dalla passione per Tigretta, che mi diceva: "Barbara non
fa per te, è uno spirito libero, una casinista, una belva da
dimenticare, e altro…". Io allora però non mi accorgevo e non
volevo capire niente. Barbara era una forza prepotente e affascinante,
una specie di sirena terrestre, e come tutte le sirene, un mostro di
straordinaria sofferenza, per me.
Ancora ieri ne parlavamo all’ospedale, dove Laura
è stata ricoverata qualche giorno fa, per la solita malattia che la
trascina in un posto infame e tetro. Eravamo seduti a fumarci una
sigaretta vicino all’obitorio, dove stranamente stanno le macchinette
del caffè. E come al solito, il tempo passò tra amori strazianti,
morte, e sensazioni presenti e future. Anche stamani, quando al sole
freddo dell’inverno, di fronte al muro del campetto dei dottori dello
stesso ospedale, si ripensava alla sofferenza della vita, ai soldini che
non bastano mai, al tempo che scorre giorno per giorno sempre più in
fretta, fino a portarci in un posto da cui non ritorneremo.
Poi andammo nella sua stanza. Guardavamo fuori dalla
finestra, a pensare e a ripensare a tutte le domeniche buttate con lo
sguardo alla finestra, di altri edifici, di altri anni, in altri luoghi
più o meno belli. La domenica ha questo di brutto quando sei solo:
sembra che tutto attorno a te sia morto, e tu sei l’unico
sopravvissuto. E invece è così ogni giorno.
Accanto a noi stava un ammalato terminale di cancro.
Poi vidi che era una donna di circa quarantacinque anni con un tubo che
le entrava su per il naso, con delle ragazze diciottenni che stavano lì
a guardare la mamma con voci nascoste e visi che contemplavano: una
donna, che da lì a poco sarebbe diventata la freddezza di una lastra di
marmo con un nome qualsiasi e una foto come ce ne sono tante. Ed io le
guardavo e capivo.
Nonostante tutto, Laura ed io entrammo in confidenza.
E ci frequentammo. Descriverla prima e dopo non è facile,
parlerei solo di due persone diverse, la prima raccontata da un cieco,
la seconda da uno che si pente di averle fatto un possibile male.
Spesso andavamo in piscina, ci si ritrovava a casa
sua, nel suo ufficio, a parlare per ore intere, a litigare, a scannarci
per i punti di vista differentissimi su ogni cosa. Tuttavia, essendo mia
nemica, a volte le chiedevo dei giudizi e persino dei consigli.
Solo un nemico poteva essere obiettivo e sincero. In un certo senso, mi
sentivo usato, e forse tentavo di usarla. Ecco, per essere sincero, con
lei non ero forse completamente sincero. Adesso riconosco che non
era bello, e il reo, come al solito, ero io. Ma se tutto questo sia
servito a cambiare idea, allora lo confesso senza sofferenza.
Poi un mattino, mi avvicinai alla mia macchina per
andare al lavoro. Era ancora buio, ma notai ugualmente quel finestrino
rotto. Pensai subito a Laura, suo fratello era meccanico, o qualcosa del
genere. Quello che fece per me non è poi così grandioso. Mi fece
risparmiare solo dei soldi, alla fine. Ma si palesò nella sua vera
natura. O meglio, io la vidi finalmente con nuovi occhi, e lei era bella
(dentro… altrimenti esagererei…) come io non potevo capire.
La sua malattia peggiorava e con essa, anche lei, e
dove l’avrebbe portata, lo sappiamo. Ma ancora avevamo tempo per
essere buoni amici, e per recuperare in tutto quello che avevo
sbagliato con lei.
Non so cosa stimasse esattamente di me. Non ho mai
capito le persone che volevano capirmi veramente. Questo ero il mio
peggior difetto. E come al solito, tralasciavo quelle poche cose dolci
che mi venivano offerte. Donate a uno che meritava ben poco, di dolce e
di vero.
In questo momento ho una febbre delirante, o forse
sto delirando e basta. Non so perché, ma mi è venuta in mente lei, che
tra l’altro domani dovrebbe tornare al lavoro dopo essere guarita dall’ultimo
ricovero. Così ho pensato di rimettere mano a quello che stavo
scrivendo riguardo a Lauretta.
Una delle cose che mi caratterizzano è la
dispersione, può darsi però nel senso buono: tengo presente e
reperibile tutto ciò che ho fatto o quasi. Come la chitarra: a volte
non la suono per mesi, poi invece la riprendo con amore. E ciò dicasi
di tutto il resto: libri, fotografie, ricordi, emozioni, pianti,
persone. Segno che in me hanno lasciato un solco. E ogni solco è una
pista da seguire nuovamente, ma anche una ferita che si ritrova nel
tempo. E una ferita non è mai brutta. E’ solo una vittoria, è quel
presente che ora è lì, nascosto da qualche parte.
Io e lei avevamo molto in comune, forse nel sentire
ancora più dolorose queste ferite passate, o forse la voglia di vivere
ancora con forza maggiore speranze e sogni che ti capitano così, per
caso.
Magari non avrei picchiato Cristian quel giorno se
lei fosse stata lì al lavoro, perché mi avrebbe rotto i coglioni e mi
avrebbe dissuaso. Magari me la sarei presa con lei. In ogni caso il
presente adesso era questo: delle sceme mi avevano accusato, e il
presidente della ditta mi aveva convocato. Ebbi un po’ di ansia,
soprattutto perché avevo timore di essere licenziato, e poi non volevo
che nessuno mi chiedesse di scusarmi. Soprattutto quanto uno si crede di
avere una posizione superiore alla mia, e ti guarda dall’alto di un’autorità
conferitagli dalle sue incapacità esistenziali di essere normale. Con
ciò non voglio oltraggiare la sua sorte, ma solo rinnegare ogni forma
di egemonia da parte di qualcuno valido o invalido. Le mie tesi esposte
a quel cattivo, prigioniero delle sue disgrazie corporee, non so
quanta efficacia abbiano avuto, tuttavia dovevo difendermi perché lui
mi attaccava, come un avvoltoio che da tempo aspettasse un mio errore.
Ed io lo commisi. La casa che avrebbero dovuto destinarmi, forse sfumò.
Ma se questa era la sorte di quelle vicissitudini, l’avrei accettata
quasi con piacere. Ciò voleva dire che non potevo (non dovevo)
riposarmi.
Come sarebbe finita non so, e forse non mi
interessava neanche, tanto ero abituato a lottare e a incontrare
ostacoli su ostacoli, ad incontrare me stesso come ostacolo, ovunque
andassi. Ma avevo tenacia, e avrei superato anche quest’ulteriore
complicazione.
Dopo un periodo di "riposo", di fuga dal
mondo ordinario e squallido di un’esistenza particolare, durato circa
un anno, mi imbattei per caso in una di quelle situazioni al di là
della norma, coinvolgenti (ma misteriose e attraenti) che mai mi erano
capitate prima.
Patty era una ragazza bellissima: truccata, in
pigiama, dopo giorni di notti insonni, sempre, con gli occhi verdi come
il mare, i capelli a caschetto e un corpo da esplorare lentamente. Mi
folgorò. Prima in un rapido istante, poi con tutta la sua personalità
complessa e oscura, ma in fondo semplice e dolce come lei.
Quando la conobbi "per caso" davanti all’edificio
pubblico in cui lavoravo fui attratto subito dai suoi occhi, gli occhi
di un’annunciatrice funesta. Come un falco adocchiai pure le sue
manine da "mds", con le unghie lunghe e graffianti, da
accarezzare alle perdizione. I suoi occhi erano da me ammirati e
osservati per ore intere, soprattutto quando erano candidi nel suo
sguardo nitido e placido.
All’inizio mi sembrava solo un po’ frenetica, e
affaccendata fortemente dal fatto che era l’unica impiegata di una
ditta edìle (lei diceva édile…). Lentamente ma non troppo scoprii
invece che dietro al suo pessimismo, che io chiamai in un primo tempo
nichilismo, si nascondeva un qualcosa di inespresso che poi forse mi
rivelò in un fine settimana. Quale?!
Patty era stata perseguitata da miseri vermi,
squallidi individui dediti alla ricerca di camicie firmate, cravatte
sfavillanti, e abiti eleganti, che a stento ricoprivano e nascondevano
la loro putrefazione di esseri inutili.
Gente fine che forse l’aveva in un primo tempo smarrita
e adulata, ma che poi aveva offeso il suo animo, offuscando perfino la
speranza di un futuro finalmente diverso, ma non a tal punto da
non potere avere ancora uno slancio per il volo. E per questo conobbe
me.
Spesso si sentiva sfortunata, in preda ad un
meccanismo che a scadenze varie e senza preavvisi intuibili la
perseguitavano. Tutto quello che di bello esisteva era alla luce del
sole per farle apparire il Male ancora più dannoso di come non fosse.
Tutte le sue amiche – secondo certi suoi pensieri di valutazione -
erano fortunate, avevano genitori come fonte di appoggio, non avevano
problemi di nessun tipo, e invece lei era un qualche bersaglio del
destino.
Nessuno l’aveva mai aiutata, i suoi amici l’avevano
tradita, i suoi datori di lavoro l’avevano sempre sfruttata e mal
pagata.
A tutti questi catastrofici avvenimenti, reali o
subiti nella loro percezione verosimile dal suo animo tormentato e
attanagliato da morse strettissime, si aggiungano degli spasmi interiori
da analizzare con la dolcezza e l’amore di uno che vuole entrare in
quella camera senza luce per portare il bagliore di un calore non
fugace.
Eppure, quando sorrideva faceva dimenticare tutto il
resto, e per un attimo anche lei dimenticava tutto il Resto.
Una donna ha questo di terrificante: basta una sua
parola gentile, o un sorriso docile, dal profondo dell’anima che ti
dice "vieni, a me", per farti intuire da lontano che la gioia
che hai sempre cercato è dentro quel corpo e quei movimenti degli occhi
che emanano eternità.
Uscimmo diverse volte insieme e tutto nell’arco di
un tempo ristrettissimo.
Forse quel feeling reale tra noi non ci bruciò
velocemente senza avere tempo di riflessione. La scintilla, che nel
passato l’aveva arsa in attimi incomprensibili, non era scoccata dal
solito arco maledetto, perché questa volta nessuno l’avrebbe bruciata
nelle sue ali. Io non l’avrei infiammata, ma riscaldata come volevo.
Quel pomeriggio di sabato c’era il sole. Volevo
portarla in giro per farla rilassare un po’. Aspettai sotto casa sua,
o in una strada nelle vicinanze, che per noi era "il solito
posto" per più di un’ora. La tempestai di telefonate perché era
in ritardo marcio, o ero in netto anticipo. Quasi sclerai. Poi venne.
Andammo a casa mia.
Milano di sera in quella zona là era un cimitero
pieno di lumini semoventi. Oscura, tetra, profonda, con case tutte
uguali, viali enormi e indefiniti, insegne con colori fortissimi che
abbagliavano, per perdere il loro bagliore nell’esagerata vastità
della loro presenza.
Avevo la sensazione di essere vivo in una città
morta e paurosa.
Le luci del mio bilocale in affitto, per contrasto al
freddo della sera, creavano un’atmosfera magica e incantata, come se
si trattasse di una torre messa lì a protezione di chi vi si barricava
dentro contro ogni pericolo strisciante. Il rifugio che lascia fuori
ogni serpente velenoso e viscido. In quella casa avresti ascoltato tanti
miei monologhi e avresti trovato una tranquillità che ti avrebbe tolto
ogni benda dagli occhi.
I rumori che nel tuo mondo passato udivi come
ululati, adesso si trasformavano nell’arpeggio di una mano che ti
suonava la chitarra; le carezze che a te sembravano essere state fatte
con le unghie (o che tali ti si erano alla fine rivelati in passato), ti
accarezzavano in modo nuovo il viso, con lento e sentito candore.
Ricominciavi a sognare, e per la prima volta ti vedevi alata e veloce.
Si accomodò sul divano azzurro, suonai per lei, le
offrii la dolcezza di un lupo gentile, che memorizzava ogni sua agire e
ogni suo sguardo. Poi le feci quel massaggio che tanto desiderava, e poi
avvenne… un sogno o qualcosa di più bello.
Le mie mani l’addormentarono, trasmettendole un
calore che, benché provenisse da uno sconosciuto, la riscaldò,
e finalmente si scaldò come io desideravo.
Ci ritrovammo coi corpi che si cercavano. Le bocche
si raggiunsero e si comunicarono sensazioni non più verbali.
Cenammo. La notte la passammo come desideravamo.
Lei non era facile da capire, forse troppo difficile,
ma io non avevo fretta, anche se spesso mi veniva arduo comprendere
tutta quello che nella sua personalità era concatenato da lunghi anni
di sofferenza. Ma ci avrei messo tutto l’impegno che un uomo può
trovare nella forza che spinge a dare ogni atomo della propria volontà
al fine di riuscire ad arrivare alla meta prestabilita.
Spesso mi faceva arrabbiare moltissimo, perché lei
era fiscale in ogni cosa. E soprattutto lo era con me. Di certo eravamo
diversi, ma questo non implicava che dovessimo modificarci nella nostra
naturale vitalità. E in quel periodo io, purtroppo o per fortuna, ero
ancora molto schematico e non permettevo a nessuno di intaccare le mie
vedute e i miei schemi mentali. Anche se molte volte mitigavo l’asprezza
di un carattere che mi spingeva a respingere ogni consiglio o qualsiasi
elemento estraneo alla mia volontà. Io ero l’unico artefice del mio
destino, e se ero ancora forte e tenace dovevo ringraziare solamente
tutto quello che avevo sopportato e vinto.
Tuttavia, quando incontrai Patty ebbi la convinzione
che uno come me: ferreo, permaloso, superbo, arrogante, non
convincibile, potesse essere quella mano offerta ad una ragazza come
lei, che si unisce alla sua e l’accompagna di nuovo verso un mondo
più gaio, dove gli uccelli cantano ancora, dove il cielo e il sole
hanno dei colori da tempo sognati, dove in una stanza freddissima non si
ha più bisogno di un termosifone a metano, perché accanto a te dorme
una stufa caldissima che ti riscalda e ti dice: io sono qui, con te, in
questo momento, per darti il calore del mio corpo, la forza della mia
mente, e la sicurezza della mia presenza. Io c’ero, ero lì per lei, e
solo per lei. Ma so che questo l’aveva già capito.
Avrei voluto prendermi cura di Patty con ogni mezzo,
coccolarla, tranquillizzarla, costruire dalle ceneri del passato un
nuovo mondo, senza più timore di fare passi errati. Inculcare nelle sue
speranze la prospettiva di un cammino insieme, sia che lei fosse col
sorriso, sia e soprattutto che lei fosse con gli occhi tristi e turgidi.
A me non bastava la sua amicizia. Noi non eravamo mai
stati amici, e non potevamo ridurre quello che era avvenuto in una
piccola parola che ha sì importanza, ma non tanta da bastare per
definire e ridefinire giorno per giorno un rapporto che non era
delimitabile come un sentimento poco profondo. Tra noi, ed io e lei lo
sapevamo, non c’era un qualcosa di semplice e chiaro, ma un non so che
di prorompente e di travolgente. L’energia che non dava possibilità
alla ragione di minimizzare e dire palesemente cos’era.
So che tutto ciò per lei era difficile da capire e
da catalogare, ma io non ero di facile comprensione, anche se tutto ciò
che facevo era eseguito con semplice gioia.
Quando io le dicevo che mi mancava, glielo dicevo con
tutto il cuore, quando le dicevo che pensavo a lei, e che lei era, e ne
ero sicuro, tutto ciò che desideravo, ecco non mentivo, né esageravo
con vocaboli ingenui.
Ma la verità è che da quando l’avevo conosciuta,
avrei voluto stare per sempre con lei, che il suo nome, e i suoi
atteggiamenti, i suo occhi e la sua esistenza erano sempre nella mia
mente. Anche se lei mi diceva che io mi costruivo dei castelli in aria e
mi perdevo in delle elucubrazioni esagerate, ebbene, forse era vero, ma
non si trattava solo di fantasticherie, ma di sogni, e ogni sogno è una
fragola che ti spinge ad aspettare la primavera. E lei mi sembrava la
mia stagione calda e fiorita. Ma forse era solo un sogno. E il mattino
mi avrebbe risvegliato ancora una volta, a meno che lei non fosse lì
con me. E chi lo sa se c’era…
Ormai eravamo insieme da circa due mesi, ci vedevamo
ogni giorno, facevamo l’amore spessissimo, litigavamo e ci pizzicavamo
tantissimo.
Caratterialmente eravamo incompatibili, e non so cosa
ci teneva insieme. Quando non la vedevo mi mancava, e pensavo a lei
quasi in maniera maniacale.
So che non sarei riuscito a modificare nulla di lei,
proprio nulla. La sua personalità era ormai irrecuperabile e plasmata
in modo irreversibile. Anzi era lei che voleva cambiare me. E me ne
accorgevo giorno dopo giorno. Eppure le volevo bene.
La sua presenza però mi intrappolava in un modo di
fare che avrei voluto troncare.
Tutti quei sogni e quei progetti che volevo portare a
termine, o iniziare, con lei erano impossibili. "Le regole" le
dettava lei, non io come mi rinfacciava ogni tanto, ed io non potevo
continuare un simile gioco unilaterale a lungo.
So che mi voleva bene, ma non capivo se fosse amore o
attrazione, di certo lei aveva un modo di fare troppo egoista e
materialista in tutto: monetizzava ogni passo della sua esistenza.
Voleva mettere nel salvadanaio quei soldini che le sarebbero serviti per
acquistare un piccolo rifugio in cui trasferirsi per sfuggire al mondo.
Si lamentava spesso di una sua amica (Laura) invidiando la sua fortuna,
la possibilità di alzarsi tardi e di usare la macchina, di fare una
vita spensierata e tranquilla. Si sentiva sempre stanca, mal pagata,
incompresa, tradita, biasimata. Ma in fondo non era proprio così. Il
suo tormento era principalmente l’egoismo. Voleva troppo e voleva
condizionare l’esistenza di chi la conosceva asservendola alla sua.
Solo che ancora non aveva fatto bene i conti con la vita, sebbene si
ritenesse intelligente, scaltra, carina. In fondo era ripetitiva e
angosciante, ipocondriaca e vanitosa, permalosa e logorroica, e
soprattutto patetica.
Io cercavo di aiutarla, di spiegarle il mondo, ma lei
se ne infischiava e cercava di fare la stessa cosa con me. Solo che le
conclusioni erano notevolmente diverse. Con la sua prepotenza sarebbe
riuscita solo a farsi ancora più male.
La lasciai diverse volte, soprattutto perché sapevo
che non ero in grado di scalfire la sua mente, incondizionabile. Mi
cercò e mi ritrovò sempre lei. Ma questo era solo un danno: tra noi
non poteva andare, e come le scrissi in un messaggio "per te ci
vuole un cane o un prete". O tutte e due insieme.
Solo che io mi ero ormai affezionato, a quella bocca
saporita, ai suoi occhi luminosi e verdi, a quel suo essere così
particolare.
Nonostante lei si considerasse matura (gli altri per
Patty erano solo bambini legati al seno della mamma, egoisti e
opportunisti), per me era terribilmente capricciosa e infantile nella
sua arroganza. Si era proprio infantile e nevrotica. Una miscela
incontrollabile.
Quel mercoledì di febbraio quando mi ero deciso
finalmente a lasciarla (e non ci riuscii) me la trovai a casa velenosa e
fuori di testa. Sullo specchio di casa mia aveva scritto delle frasi
(vere) che tendevano a farmi apparire ignobile e insensato per quel mio
comportamento. "Ti ho riscaldato quando ne avevi bisogno; in questa
casa lascio un pezzo del mio cuore; non capisco questa tua decisione
assurda; non so se ti amavo, ma di certo ti voglio bene, ecc.".
Piansi come un bambino: mi mancava, la cercai io questa volta. Patty si
era nascosta per le scale. Entrò e mi trattò come un cane. Forse lo
meritavo, ma da una prospettiva lungimirante che lei non avrebbe capito,
non lo meritavo affatto.Mi diede l’ultima possibilità.
Ma ormai sapevo che era una storia a termine,
disastrosa e amara. Lei non voleva correre insieme a me come desideravo.
Non sapeva cosa voleva. Era un’indecisa, e ancor più era lunatica.
Riprovammo ancora, per altre due volte. Ma per noi
non c’era pace. L’ultima fu disastrosa. Nonostante i nostri sforzi,
eravamo troppo diversi, inconciliabili, e qualsiasi tentativo sarebbe
stato vano, e lo fu.
La colpa non era solo sua, ma anche mia
(soprattutto). Col suo carattere isterico, furioso, e col mio drastico,
cinico, non esistevano possibilità di un avvicinamento. Ma solo un
disastroso scontro (quasi fisico, da parte sua). Lasciarla nuovamente
era l’unica soluzione possibile. E lo feci. Solo che questa ennesima
volta le liti avvennero con l’anima e il sangue, con una ferocia mai
provate prima. Ma ormai, sebbene si fosse avvicinata a me, che sedevo
nella poltrona del suo capo in quell’ufficio seminterrato, in
ginocchio e con lacrime da coccodrillo, non retrocedevo più. Patty era
un male per me e per lei. E nonostante le sue sofferenze vere non potevo
abbandonarmi al suo volere e rendermi schiavo della sua immagine del
mondo e della sua natura incomprensibile e angosciosa. Lei era ferma
nelle sue prospettive, ma lo era ancor di più io (a lungo termine),
anche se quasi quasi stavo cedendo al calore della sua presenza, a quei
sorrisi che sembravano eterni. Ma lei alternava in me e in lei dolore e
gioia in un modo soffocante e improvviso. Dovevo farcela a lasciarla, ad
ogni costo. Qualsiasi danno sarebbe stato ben poca cosa rispetto ad un
qualsiasi rapporto con lei. Le scrissi questa lettera: "Cara
Patrizia, capendo le tue paure, rispondo per iscritto a una delle tue
domande più frequenti e importanti, che necessitano di chiarimenti
incisivi ed evidenti, al fine di non essere frainteso nei nostri
colloqui successivi, e nella ripresa di tali questioni. Veniamo al
punto.
Ti ho sempre detto che per quel che concerne la mia
vita, sia in positivo che in negativo, decido sempre ed esclusivamente
io. E non delego una qualsiasi scelta che riguarda la mia persona.
Inoltre, non lascio a nessuno un’influenza o un’intromissione nelle
mie scelte. Normalmente posso chiedere dei consigli, ma colui che prende
una decisione sul sottoscritto è lo scrivente.
Tu sei per me inviolabile, e lo sai, e nessuno
entrerà a modificare o a consigliare quello che ci proponiamo di fare,
o quello che è nelle nostre libere scelte.
Il nostro rapporto non è sottoposto a veti o ad
ingerenze da parte di qualcuno al di fuori di te e di me: è solo ed
esclusivamente mio e tuo. Di pari passo, non permetto a nessuno di
interferire nei rapporti con la mia famiglia. Per me Essa è un punto
fisso e una certezza inviolabile. Ragion per cui non do facoltà a
nessuno/a di intromettersi.
Per me è sacra e come tale deve essere considerata
da chi mi sta accanto, si tratti di un amico, una fidanzata, una moglie,
o altro. E nella mia scala dei valori ha il primo posto. Un qualcosa che
non violerei per niente al mondo e per alcuna persona.
Sia che si tratti di prendere delle decisioni
soggettive o "obbiettive". Io sono e sarò sempre
"soggettivo" a tale riguardo.
Anche un piccolissimo accenno di non rispetto di
quello che è la mia famiglia mi farà decidere di intraprendere un’altra
strada, nonostante tutto quello che possa io provare per te o per altre
persone "esterne o interne".
Non voglio essere insensibile e drastico con le mie
affermazioni, ma tutto ciò serve solo a farti capire che è inutile
fare dei paragoni con la vita degli "altri".
Quello che siamo, e che ciascuno di noi può essere,
differisce totalmente da accadimenti passati. Per cui, se tu sei in un
modo per me, o se tu facessi delle scelte per me anche encomiabili,
questo non mi obbligherebbe a un comportamento esattamente uguale da
parte mia. Ma questo non significa che ti amo di meno o di più, vuol
dire che ciascuno ha una personalità diversa e si esprime e si
manifesta con slanci diversi. Non credo che quello che faccia una debba
essere fatto dall’altro, altrimenti rischieremmo di avere non un
rapporto di reciprocità ma di sudditanza, in maniera scambievole. Ed io
non impartisco ordini, e nemmeno ne ricevo.
A parte tutto ciò, a meno che questa sia una strada
che non possiamo percorrere insieme, non vedo grossi ostacoli. E
ricordati dei miei sogni…
E in un attimo, ciò che era passione - amore,
futuro, gioia dolore, un gelato al bar, il caffè che le portavo a
letto, le canzoni con la chitarra, il cielo e la primavera con lei -,
diventò una sola parola. Odio.
Un lunedì di marzo litigammo ancora, cioè la
lasciai. Prima che lo facesse lei, mi recai a casa, presi tutte le sue
cose e le misi in una busta. Poi andai a prenderla sul lavoro. Le
manifestai che la lasciavo ancora, per il suo bene e per il mio, perché
uno come me l’avrebbe fatta solo soffrire, che nessuno poteva
cambiarmi, che non volevo nessun compromesso, che se facevo il duro era
unicamente per allontanare un essere come me dalla sua vita. Venne alle
mie ginocchia e pianse. Pianse tutto il tempo, mentre la mia voce
fredda, calma, determinata non subiva alcuna commozione. Doveva pagare
per tutte le volte che aveva oltrepassato dei limiti che nessuno poteva
permettersi di superare. Fui senza pietà. L’accompagnai a casa sua, e
sotto casa continuò a menarmela per delle cause (giuste) che secondo
lei avevano minato il nostro rapporto. Ma ancora non aveva capito che
nessuno con me poteva avere la libertà di pensare e fare davvero quello
che io non sopportavo. Le avrei dato l’anima, se solo mi avesse
capito, se solo avesse realizzato due piccoli sogni, come li chiamavo
io, o due assurdità come li chiamava lei. Ma lei faceva la dura. E duro
io sarei stato. Da lunedì a giovedì i messaggi di ingiuria e di
sottomissione da parte sua furono tanti. Ma io ero di pietra, finché,
quando mi accorsi che si stava rassegnando, la ricontattai. Dovevo
continuare a ferirla, per vendicarmi delle sue offese, per aver
oltraggiato ciò in cui credevo.
Finsi questa volta di avere sbagliato, di essere
innamorato perdutamente; le dissi che era il bene più grande, il mio
futuro, e tutte le stronzate che la sua mente desiderava. Mi sforzai di
apparire modificabile, in balia della sua esistenza.
Mi accolse con estrema freddezza, non mi fece
entrare, riuscii a parlarle solo per tre minuti. Ma per lei era un
addio. Non forzai la situazione, e me ne andai. Dopo qualche minuto un
messaggio al telefonino mi avvertiva che potevo ritornare. La strega era
caduta in trappola.
Impiegai due ore per riconvincerla della possibilità
del nostro amore. Lei urlava come una forsennata, e a tratti
anche io mi lasciai andare alla disperazione. Credevo di non farcela. Ma
proprio sul punto di andarmene, quando mi disse "vattene", ed
io aprii la porta dell’ufficio dicendole: "allora questa era l’ultima
possibilità…", lei mi sorrise e mi disse di abbracciarla.
Cenammo nel nostro solito ristorante, vicino casa.
Ero stanco, ma felice di aver riportato una nuova vittoria, con un
nemico ancora più agguerrito e più difficile da atterrare sempre con
la stessa trappola. Ma il più forte ero io, e la mia esistenza era
sconvolgente per lei, che sicuramente mi odiava almeno quanto la odiavo
io.
Tra le sue caratteristiche più patetiche c’era il
credere nell’esistenza degli angeli, demoni, e soprattutto gnomi,
presenze nefaste, e altre idiozie del genere. A volte lei aveva delle visioni,
avvertiva delle presenze, si credeva una sensitiva, un’anima
aperta ad un mondo spirituale vago e misterioso, e così via. Insomma,
Patty era una che fantasticava con una mente quasi (sono generoso!)
malata e in preda ad allucinazioni caratteriali. A volte mi costringeva
a dire le preghierine e ad andare in chiesa. Ed io l’accontentavo.
Ormai dovevo essere l’uomo ideale. La mia sparizione
doveva costarle tantissimo, doveva soffrire per non aver voluto quel
piccolo compromesso. E a tal scopo le auguravo di vivere… le
sofferenze del mondo reale l’avrebbero martirizzata e resa finalmente
matura. Altro che ragazza cresciuta da sola, in fretta, senza la mammina
(come mi rimproverava), matura e obbiettiva. Ancora, dopo tutte le
batoste delle esperienze passate, non aveva capito un bel niente. Il
mondo era un ergastolo, e lei pensava che fosse un cielo mutevole e
forse azzurro.
Ancora non si era accorta che i suoi amori erano
finiti non perché gli altri fossero sbagliati, ma perché lei
era ostinatamente incorreggibile e schematica, vile e inutile,
prepotente e incosciente.
Ma quel sabato mattina mi lasciò lei. Finalmente…
Non mi demoralizzai più di tanto. Per me significava
uscire di prigione: liberarmi di una carceriera dal carattere astruso, e
paranoico.
La sera precedente avevamo litigato perché per mezz’ora
avevo parlato con un’amica al telefono (la sorella di Gabry), e Patty
pensava che avessi sparlato di lei e che l’avessi scimmiottata: eri
malfidata e per di più ti sbagliavi. Ed io invece ti avrei difeso
sempre da chiunque, persino da me.
Quando si coricò vicino a me i nostri corpi
restarono freddi e distanti, silenziosi. L’indomani la decisione,
maturata nella notte, di lasciarmi. Chissà, forse qualche angelo o
qualche gnomo ti avevano consigliato… ma mai di andare da uno
psichiatra?! E l’assurdo era che tu dicevi: "per te è tutto normale".
Come se io non provassi gioia, dolore, tristezza, amore, felicità. Come
se io fossi apatico, o una macchina per cucire…
Dopo qualche ora di allontanamento e di mutismo mi
mandò qualche sms. Ritornava alla carica. Era proprio un osso duro.
Ma ormai ci eravamo bruciati. Fortunatamente per me.
Ma basta parlare di lei. In fondo, voleva una vita
diversa e nuovi sogni. Voleva essere amata ed esistere veramente per
qualcuno. Perciò non ti ho mai condannata - e ti ho sempre perdonata.
Quello che provavo per te era sincero: questo è il mio ultimo bacio.
Sono rientrato a casa da qualche minuto. Fuori c’è
un tempo di merda, uggioso, freddo. Ha piovuto tutta la notte con un
freddo ancora non preventivato.
La città è deserta nelle strade. Gente nei bar
eleganti, per lo più borghesucci che si mostrano alle vetrine mentre
bevono un tè, e aspettano la sera per tornare in quelle case dove
consumeranno la cena con la propria famiglia, davanti al solito
telegiornale, a parlare di politica, costo della vita, e delle solite
cazzate.
Mi sto preparando anche io un tè ma lo berrò da
solo. Una volta invece lo prendevo sempre a casa di mia nonna Concetta.
Un’abitudine che rimpiango. E poi uscivo a cercare gli amici, a piedi,
con la moto, col sole e con la pioggia, solo che allora tutto aveva il
sapore della primavera. Non esisteva la solitudine. Attorno a me c’erano
familiari e amici. C’era la gioia dell’esistenza. Quando si è
inconsapevoli, si è sempre felici, e ogni spazio rubato alla propria
ignoranza genera sempre più amarezza.
La casa in cui adesso vivo non è grandissima, è un
monolocale, in un quartiere distinto, in un palazzo signorile, caldo,
accogliente, lontano da tutto ciò che sfuggo e da tutto ciò che
ricerco. Un eremo, o forse un rifugio per chi vuole riflettere.
Spesso penso a quando ero bambino, in quella casa
grandissima e inimmaginabile per chi legge, e mi vedo come se
continuassi a vivere in una vita parallela, nonostante io sappia che
quel giardino non lo vedrò mai più, che quei giorni sono morti, che la
mia stanzetta è una tomba chiusa e non visitabile. Eppure tutto è
ancora là, con quei mobili, gli stessi fiori, la cucina, il salotto, i
libri di mio padre, le inferriate, la mansarda con la moquette. Un corpo
che non riaprirà mai gli occhi. La desolazione.
Sento i giorni che volano incessantemente, senza una
sola possibilità di cambiare tutto come vorrei. Come se seguissi una
via in mezzo al deserto, che non porta da nessuna parte, e all’intorno
non c’è una pianta.
Spesso faccio un raffronto con tanti altri ragazzi,
con altre vite, e mi accorgo che non sono il solo a condurre un’esistenza
solitaria. È come se in questi ultimi anni avessi aperto la porta di un
mondo nuovo, che non è più il mio. La porta si è chiusa alle spalle e
davanti a me c’è un orizzonte grigio, e tutto ciò che si muove è
solo un’ombra. E la vita sfiorisce velocissima, senza un perché,
senza un attimo in cui questo movimento si arresti. Mi sento molto più
giovane dell’età che ho veramente, e tanta gente me lo conferma. Ma
dentro di me non c’è questa consapevolezza. In realtà a stento
riesco a nascondere l’angoscia che mi pervade, e ciò che più mi
stupisce è la mia incessante volontà di mantenermi in forma, con gli
allenamenti quotidiani di boxe e pesi, e di apparire gaio, vitale e
scattante. In cerca di una perfezione che non esiste. Ma giorno dopo
giorno vedo comunque i risultati.
Sto pazientando, sto temporeggiando, scrutando ogni
fiore che cresce. E l’attesa mi logora, risalirò quei monti.
Dopo tre mesi dalla separazione da Patty mi
sono ritrovato rilassato e libero. Lei aveva riempito solo dei vuoti e
si era accaparrata anche il mio tempo personale. Insomma, aveva
condizionato quel presente. E non me ne rammarico.
In questo periodo ho conosciuto e visto diverse
ragazze, alcune leggermente donne, ma son passato oltre. Il vuoto
è sempre qualcosa che riempie e spesso stanca appena lo scorgi, nelle
sembianze simili, negli stessi ornamenti, nel vestire alla moda,
nello standard che parifica e meccanizza tutto: capelli, svaghi,
automobili, film, sorrisi. L’uniforme che rende tutti gli animali con
le orecchie ancora più lunghe.
E invece lei non sembrava moderna o ancora attuale.
Ilaria la vidi per la prima volta in primavera,
splendente nelle sue graziose forme di apparenza estetica. Un corpo
asciutto e sensuale, fresco e intrigante. Le sue gambe erano marmoree,
perfette, scolpite con precisione. Le sue mani curate e ondulanti nel
muoversi. Il viso nascosto dai lunghi capelli che la proteggevano da
ogni sguardo inopportuno. E i suoi occhi emanavano uno sguardo sfuggente
e profondo. Ebbi la sensazione del flash fotografico. Poi non la vidi
per diversi mesi. Del resto io ero ancora preda di quella cacciatrice
bionda.
Il nostro primo incontro avvenne al quarto piano,
quando mi fu presentata da un suo collega. Ma l’occasione per
conoscerla mi si presentò a fine agosto.
Io tornavo dalle ferie etnee con animo pacato e
solare. Lei era fuori dallo stabile che parlava con dei conoscenti. I
miei occhi si lanciarono sui suoi. E mi piacquero. Volli conoscerla.
Ilaria usciva da una specie di storia che non capii
se fosse vera. Vera nel senso di realmente vissuta in maniera
sanguinante. Di certo appresi che vi si era tuffata con entusiasmo e
forse con una spinta di ali rapaci. Ma lui non era un ramo su cui
atterrare, né un prato da attraversare nel volo. Almeno capii così. E
da alcune ricerche fatte velocemente conclusi che si trattava di un
introverso minchione.
Al di là di quelle mura – un ufficio maligno e
viscido – ci vedemmo pochissime volte. Cioè una sola volta. Andammo a
prendere il sole in una giornata di fine estate in un parco nel nord
della città. Quel poco tempo passato insieme a lei fu ancora più
veloce di come adesso ricordo. Lei era splendente nella sua
tranquillità di donna che si rilassa ai raggi di un calore che non
sostituirà mai quello invisibilmente umano.
Ilaria mi sembrava un qualcosa di straordinario e
nello stesso tempo di incomprensibile. Non era di facile intuizione.
Spesso solcabile solo a tratti. Forse un’idealista, forse una sorgente
nascosta da qualche parte in una montagna enorme. E a ciò aggiungo che
per me era sempre notte.
Per me quel giorno doveva essere un punto di
partenza, un avvicinamento prudente e gioioso, da conquistare con cura e
lentezza. E invece fu l’ultimo volo.
Mi piaceva e glielo manifestai apertamente, o
qualcosa di simile. Ma di certo piacevo anche a lei. Solo che i miei
passi e tutte le mie premure furono fraintesi e non capiti. Se quel
giorno le dissi che era un’oca, con ciò non volevo minimamente
offenderla, ma salvaguardarla dall’ignominia del territorio,
che io, animo malvagio e malfidato, conoscevo bene. Da quel giorno ogni
millimetro guadagnato verso di lei diventò un chilometro lontano da
lei. Non mi salutò più e non mi cercò. Del resto feci anche io la
stessa cosa, orgoglioso e viscerale come sono.
E nonostante il Pelato mi spingesse verso di lei, io
non volli più ricadere nell’errore di ripercorrere a ritroso una
strada già battuta e senza sbocco. Mi diceva spesso "Joe, Ilaria
ha belle cosce, e un bel corpo". Valutandola come un’automobile,
carrozzeria motore ecc. da perfetto materialista, quale era. Ormai però
io e lei ci eravamo bruciati. Come sempre, come tutte le volte che qualcosa
mi piaceva. Lo so, era perfetta per la teoria dell’incubatrice
del mio amico (in parole più grezze, quello che era la mia teoria della
continuazione della razza), sebbene non fosse la persona adatta per la teoria
del pastore tedesco. Non era infatti siciliana, come me.
Gennaro stravolgeva la mia ricerca ideale della
femmina. Per lui le donne erano solo incubatrici (macchine umane per
procreare), poiché riteneva sé stesso unica fonte basilare della
propria continuazione. La donna era solo un mezzo, concepito anche come
diletto dell’uomo, a metà strada tra una mercenaria, una cagna, e un
suddito. E non so se avesse torto. Era schematico e seguiva sempre un
repertorio immutabile. Una forma mentis che non poteva cambiare. Ad un
tasto premuto corrispondeva la possibilità di seguire solo poche
opzioni. Io gli dicevo sempre "alt, sc… invio". Una
macchina. Ma era affettuoso, e affidabile. Uno dei pochi.
Dopo qualche mese dal litigio con Ilaria, riprendemmo
a salutarci, nonostante io l’avessi offesa chiamandola oca e
mandandola a cacare. Un altro miglio di mare percorso, senza trovare
terra.
Non riuscivo a smuovermi. Un’enormità mi inseguiva
da dietro, il cielo era nero, gli alberi si piegavano verso terra. Il
vento contro cui cercavo di lottare mi impediva ogni movimento. D’un
tratto caddi, mi rialzai, poi fui sballottato in una zona aperta,
rivestita da un verde, riparata da ogni burrasca. Lì potei spostarmi
liberamente. Nel mezzo della radura cominciai a sentire dei sibili,
degli echi, come se qualcuno chiamasse, come se qualcosa mi indicasse.
Dalle zolle di terra le voci giunsero ora distinte
alle mie orecchie. Ebbi paura, non erano comuni, e cominciai a correre a
perdifiato. Raggiunsi i miei compagni che procedevano in fila indiana
dall’altra parte del prato. Il vento era cessato e la paralisi che
avevo rotto con la fuga nella spianata sembrava appartenere alla
memoria. Ci addentrammo in una foresta di tronchi rossi. Il sole era
tramontato e il buio ci colpì. Persi di vista gli altri, li chiamai,
poi scivolai. Un torrente mi trascinò all’interno di una grotta. Il
lago era placido e caldo, pesci color mandorla mi giravano attorno
copiosi. La volta era alta, piena di pipistrelli che giravano all’intorno.
Uscii dall’acqua e mi diressi verso due scalini ricavati nel suolo in
direzione opposta all’entrata. Un corridoio stretto e basso si apriva
tra due pareti. Camminai per circa ottocento passi, di colpo i piedi mi
sprofondarono in una galleria molle come melma. Mi chinai, col palmo ne
raccolsi un po’: sembrava grasso misto a sangue, e in ogni caso aveva
densità ematica. Andando avanti mi accorgevo sempre più di addentrarmi
in un organismo iperconnesso tra vari punti distanti o vicini per tutta
la sua estensione. Aperture e varchi erano contigui e frequenti. Mi
trovavo in una specie di labirinto, oserei dire vivente. Pensai di
vagare in uno schema costruito con abilità, ma l’immaginazione mi
portò ben presto a ritenerlo autoevoluto. Era troppo spontaneo nelle
sue ramificazioni per aver potuto subire la mano direttrice di un essere
dall’esterno.
Delle aperture si estendevano al di sopra della mia
testa e al di sotto dei miei piedi che se non avessi fatto attenzione,
che se non avessi tastato nel buio, come fa uno che non vede quando è
alla ricerca di un qualcosa che non conosce in un luogo che la sua
abitudine di movimenti circoscritti non gli palesa, sarei caduto.
In questo paragone, fui indotto per un attimo a
pensare: fino ad ora non avevo mai fatto caso a un particolare che rende
la vita di ogni uomo diversa da quella di un altro e di tutti gli altri.
Questo particolare che è assente in lui vanifica la percezione di
determinate cose, che divengono astratte ed esistenti solo nell’immaginazione
o nel vuoto di una parola. Cos’è il sole per chi non lo vede, che
spiegazione potrebbe darsi? Una luce che proviene da una stella che dà
calore e vita? E cos’è una luce? E quel sorriso che ci facevano da
piccoli, che diviene smorfia ipocrita crescendo solo per simulare
simpatia o calore, come si potrebbe materializzare, come si potrebbe
intendere?
La velocità che accompagna l’attimo del presente
ci ruba alle gioie e alle disgrazie che appartengono ad un’illusione
che se colpisce lontano da noi, non capiamo cosa annienta, se si
avvicina di un solo passo allora forse riflettiamo amaramente per tutto
il tempo che abbiamo perso. Non avrei trovato una via di uscita dal
labirinto, non sarei sbucato fuori da quella tortuosità che mi
costringeva a delle considerazioni asfissianti. Non potevo destarmi
mentre ero sveglio. Mi slanciai furiosamente in una corsa senza senso e
caddi in un buco.
Un bambino nasceva da una famiglia agiata, le coccole
gli erano prodigate a tutte le ore e i giocattoli erano tutti suoi.
Compiva quell’inverno quattro anni e di regali ce
ne furono. Insignificante comparve però una maschera di cartone. Fu la
sua preferita, ci giocò, ci dormì, ci si specchiò, e i mesi passarono
senza accorgersene.
A cinque anni per lo stesso anniversario pretese come
regalo un’altra maschera e i genitori l’accontentarono, sebbene si
stupissero della richiesta, visto che già ne aveva una. Le stagioni si
susseguivano, e il fanciullo cresceva tranquillamente e normalmente. L’unica
stranezza che lo caratterizzava era la maschera, che lui voleva ad ogni
compleanno. Se qualcuno gli chiedeva il perché di questa sua esigenza,
si chiudeva come un riccio e non parlava.
A quattordici anni gli regalarono una nuova maschera,
che lui ripose nella sua stanzetta insieme alle altre. Ma non desiderava
come ogni ragazzo un regalo particolare, un costoso oggetto, una diversa
sorpresa? Tra una maschera e l’altra arrivò il momento dello
spuntare delle sue ali. Tanti compagni e conoscenti furono invitati.
E il cielo lo guardava.
Lui andò dentro casa, e mentre la gente che lo
festeggiava guardava attonita, si lanciava. Volando per quello spazio.
La morte non lo accolse subito, e quando ricoverato in ospedale al
termine della sua vita tra pianti e disperazioni furono chiesti a quel
figlio i motivi dell’insensatezza dei sui gesti e di quelle maschere,
lui finalmente rispose: "Perché..."
Forse è l’alba, comunque un sole comincia ad
entrare nella mia stanza, comincia a svegliarmi, ma io sono desto da
tempo, per non accorgermi di stare ancora sognando.
"Sai qual è il modo più
lento per morire?
Il modo più lento per morire…
è vivere"