La festa di San Calogero

           

                  
    SAN CALOJARU di li carusi.
                                 (
Nicolò Falci)

Di Naru ma nannu avìa purtatu
Na bella statua di jssu pittatu
A ma patri ca porta lu nomu
Di chiddru santu ca fu un grann’omu.

E ma zzi Tanu ch’avìa un grann’incegnu
C’avìja fattu na vara di lignu,
e lu juarnu a Caloriu vutatu
lu santu cci vinìa assistimatu.

Si uncivanu nni chiddr’acchianati
Midemma carusi ora abbucati
E cu lanterni e grida tunanti
Si partianu pi la via di li santi.

Anchi s’un’era di li cchiù famusi
Era San Caloriu di li carusi:
apprìassu ad iddru picca parrina
ma un gran rumuri di tammurina.

A quarcunu na gran vuci nisciva:
"Ebbiva San Calojaru ebbiva!"
Quarchi fisci partiva ogni tantu
E sinni iva n’cialu gantu gantu.

Cu ddri belli tammura culurati
Li carusi parivanu surdati
Divoti di lu santu africanu
Ca na notti mitì un fiaudu sanu.

Chissa sì era festa piddiveru
Anchi siddru la chiesa nun c’intrava!
Ora antri santi hannu cchiù valuri
Ma Caloriu di tutti è lu signuri.

                          
                             Evviva San Caloiaru di Naru

Mi piace questo Santo, così atipico nell' agiografia tradizionale dei santi tutti preghiera e pietismo; questo Santo, nero come il carbonio in cui solo gli occhi sono bianchi e che sembrano fissarti dandoti un brivido intenso di paura. E questa festa così vicina all'inizio dell' estate, quando l' ardore dell'incipiente stagione si fanno già sentire e nelle campagne fervono i lavori della raccolta; questa festa col suo rullo assordante di tamburi che fin dalla prima mattina invade le strade del paese scotendoti bruscamente dal sapore della notte.
Forse in ciò c' è il ricordo delle prime esperienze infantili, vissute con intensità e fuori da ogni regola; forse il ricordo di quell'aria di leggenda e di primitivismo che circondano la figura di questo Santo, e che ti facevano sgranare gli occhi nelle serate senza fine di quelle estati passate trai gruppi di vicini che si fermavano davanti le case.

Lui infatti non è un Santo comune, come ce ne sono tanti, ma un evento particolare della natura, come lo sono gli uragani e i terremoti, qualcosa di straordinario e di tremendo insieme, un Santo barbaro, dinanzi a cui niente può resistere. Lo prova la leggenda dei sette feudi di messi mietute tutte in una sola notte, senza mai fermarsi e mentre il sudore gli scendeva copioso dalle tempie: e il sole che le bruciava, fino a farlo diventare tutto nero come il carbone. Come poi il sole se ne stesse là anche di notte, a crogiolarlo come una lucertola ferma su un masso brullo, questo non c' interessa e, per favore non chiedetemelo.
Ricordo i festeggiamenti che per San Calogero si facevano a Montedoro, quand' ero ancora bambino, negli anni vicini alla guerra. Non festeggiamenti sacri, come se ne suole per i comuni santi, con tanto di regole e di adempimenti, ma manifestazioni così, nate e poi mantenute chissà per quale bizzarra volontà, quando l'estate era ormai alle porte e oscure linfe invadevano tutto il nostro essere, facendolo quasi esplodere. Chi badava a preparare la bara con la statua del Santo( una statuetta di non più di 60-70 centimetri di altezza) e poi ad organizzare il giro del paese, erano i fratelli Alfano, di felice memoria, "lu zì Ciccu e lu zì Tanu Arfanu", bravi calzolai del paese nonché anime candide, che alla faccenda accudivano con devozione e meticolosità, certamente per un lontano voto. Si partiva dalla loro casa e dalle varie stradei bambini, che già si erano dati voce, sbucavano allegri e sbrindellati, coi tamburi di latta e con le trombette di carta, che i genitori avevano loro portate da Naro, che era come la roccaforte del Santo, dove erano andati a fare il "viaggio". E c'era anche un tamburo, che accompagnava quella specie di improvvisata processione, il tamburo di " lu zì Minicu Lisina" , amico per la verità più del dio Bacco che dei Santi. E qualche "fisci" c' era pure,che scoppiava ai vari crocicchi, tra il gridio irrefrenabile di noi ragazzi. E giù spintoni e piccole liti, che non tenevano per nulla conto della compostezza e del silenzio che la situazione richiedeva. "Viva San Caloriu" ; e di nuovo spintoni e liti. E i due bravi fratelli a fare raccomandazioni di stare composti e silenziosi, "di una processione si tratta". Ma no c' era verso. Tornando a casa dopo la " processione" , si mangiava "il pane benedetto"(come del resto si fa anche oggi) , che le donne avevano preparato per adempiere a una promessa fatta al Santo per una grazia richiesta e che riproduceva nelle forme la parte del corpo per la quale si era chiesta al Santo la guarigione: una gamba, un braccio, la testa e via dicendo.
Oggi la situazione è completamente cambiata. Una statua nuova, a grandezza naturale, commissionata allo scultore Emma di San Castaldo all'incirca nell' anno 1985, sostituisce la piccola statua di "lu zì Ciccu". La figura è sempre nera(e come si poteva fare diversamente?) come nero è il manto che la copre, ma con fregi d' oro, che lo distinguono dal nero compatto della figura.
La statua è statua acquistata per volontà di due pie donne, che si sono interessate a raccoglierne i soldi tra le persone del paese: Paolina Puma in Scalia e Serafina Sferruzza. E la processione non parte più dalla casa dei due fratelli, ma dalla Chiesa, dove la nuova statua ha trovato stabile domicilio, a metà della navata, sulla parte destra. Adagiato su un carro, pieno di veli bianchi e di fiori, che per l' occasione assume la forma di una nave, il simulacro del Santo esce verso il tramonto dalla Chiesa, per essere portato nei pressi di un' edicoletta fuori dell' abitato, fatta costruire da un prete montedorese, che ancora tutti ricordano per la sua bontà e semplicità: Don Calogero Piccillo.
L' edicola sorge sopra un sasso di gesso, tra gli alberi fraganti di eucalipto, ed è dedicata allo stesso Santo. C' è anche la musica, chiamata da uno dei paesi vicini. E alla fine i fuochi d' artificio.
Gli organizzatori della festa sono un gruppo di donne,i cui nomici piace ricordare: Pina e Calogera Messana, Margherita Bufalino, Giuseppa Morreale in Galante, Maria Bonadonna, Giuseppina Nobile Orazio in La Porta, Anna Salvo in Ingrao. Una di queste è morta, altre si sono trasferite altrove.
Quello che comunque è rimasto dell' antica tradizione sono i tamburi. All'inizio si trattava di un solo tamburo, quello di "lu zì Minicu Lisina". Adesso sono tre, ben agguerriti e solenni. Vengono dalla non lontana Favara. Dal mattino alla sera sono loro i veri padroni del paese, col loro ritmo assordante, simile a una fiumana che tutto travolge innanzi a sé. Si fermeranno solo alla sera, quando l'effigie del Santo sarà riportato al suo solito posto e la calura del giorno cederà il passo alla frescura della sera.
Giuseppe Alfano


Festa di San Calogero


Dal 1989 la festa di San. Calogero, a Montedoro, ha assunto una sua caratteristica tanto da. farla annoverare tra le feste religiose che hanno delle manifestazioni esteriori che coinvolgono tutto il paese. La devozione al santo eremita ha una lunga tradizione e nel libro di Luisa Hamilton "Vicende e costumi siciliani" del 1910 si legge che "i mietitori, quando concludevano La giornata, agitando in alto l' ultimo mannello raccolto, rivolti verso occidente, esclamavano tutti insieme: "Evviva San Calò". Così quando c'era la "pisa'" venivano cantate delle lodi ai santi fra le quali si diceva: "Binidittu San Calò ca nni guarda l'armari!".
Per tanti anni la devozione verso il santo taumaturgo, originario della Calcedonia, vissuto nel quarto secolo, si è manifestata, a Montedoro, .facendo il pane devozionale - con delle caratteristiche forme anatomiche a volere significare l' infermità per la quale si era richiesta la grazia - e nelle promesse più impegnative con il "viaggio", pellegrinaggio a Naro in occasione dei festeggiamenti per il santo miracoloso. Pellegrinaggio che veniva fatto a piedi, con le cavalcature e con i carretti per proseguire., negli ultimi tempi con gli autobus e le automobili. Fino a qualche decennio addietro, si può dire che, quasi in ogni famiglia, c'era almeno un componente che portava il nome di Calogero, negli ultimi anni sta diventando sempre più raro. Le varianti del nome, nel. tempo, a Montedoro sono state: Caluzzu, Caluzzieddru., Caliddru, Liddru., Lillo.
Un comitato, formalo in gran parte da donne, raccoglie le offerte dei fedeli ed organizza. la festa il 18 giugno lo stesso giorno nel quale si celebra a Naro. La mattina, due tamburinai, suonano per le vie del paese e alle dieci e trenta, in chiesa, si svolge una funzione, durante la quale, vengono benedetti i "pani di San Calogero" che vengono esposti su degli appositi tavoli, dove, possono essere ammirate le varie forme anatomiche per le quali si è chiesta la guarigione per l' intercessione del santo. Il pane, diviso in piccoli pezzi, verrà distribuito ai vicini di casa e ai parenti come segno di condivisione. Nel pomeriggio la banda musicale Licalsi di Serradifalco ha. fatto il giro suonando per le vie del paese per poi accompagnare la statua del santo in processione dopo la messa solenne. Una potente maschiata e stata sparata all' inizio della processione che ha visto come prima tappa l' edicola di San Calogero che sorge su un masso gessoso all' uscita del paese per andare a Bompensiere. I fedeli rendono omaggio alla icona dell' edicola e poi riprende la processione fino ad arrivare in chiesa dove una predica del parroco riafferma i valori che San Calogero ha trasmesso nel tempo. La serata si è conclusa con lo sparo di fuochi d'artificio. Il giorno 19 la parrocchia organizza un pellegrinaggio con il pullman a Naro per coloro che non possono andare con le autovetture.
Lillo Paruzzo