Scrive Nicolò:
Il
Maestro Calogero Barba, ispirandosi alla mia “Spera” ha dipinto
l’acquerello riprodotto. Il soggetto riprende parte della ex miniera
sotto il Calvario (per me il rudere di quell’antica costruzione
potrebbe diventare il logo di Montedoro. In fondo, a sinistra appare il
rilievo che sta alla destra (per chi guarda) della rocca di Sutera.
Nell’opera del Barba mi pare ci sia una sovrapposizione del lavoro
nelle miniere con la colata di una gigantesca “Spera” (quasi una
colata vulcanica): questo ha visto l’artista nelle mie rime.
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Caro
Federico, non so se ti ricordi di quando si faceva la “spera” (chissà
quante ne hai fatte tu!): si prendeva un pezzo di zolfo, si metteva
dentro una buca, in basso si poneva una lattina che si riempiva
d’acqua. Si accendeva lo zolfo che sciogliendosi andava a finire nella
lattina, rapprendendosi in svariate forme. Ho composto la poesia “La
spera” che se lo desideri potrai pubblicare sul sito, come anche
queste note. Nella poesia c’è, come sempre, una parte di fantasia ma
anche una parte di verità per quello che le miniere, lo zolfo, hanno
rappresentato, in un passato poi non così tanto lontano, per la vita
della nostra comunità. montedorese, come di tante altre comunità
vicine alla nostra.
Mi chiedo, nella poesia, perché la spera si chiama così. L’ho
chiesto durante un mio viaggio a Montedoro: ho scoperto (me lo ha
detto Peppi Salvo/Marinaro e me lo ha confermato Padre Amedeo – ma poi
l’ho letto anche su Google) che spera è chiamato l’ostensorio
(SPERA GRECA). Un magnifico esempio di tale oggetto sacro si trova
conservato nel Museo Diocesano di Rossano Calabro- primo in Calabria -
istituito nel 1952 dall'arcivescovo Don Giovannino Rizzo – nostro
emerito compaesano -come segno e memoria di un glorioso passato che vide
Rossano emergere soprattutto in età Bizantina.
In alcuni paesi della Sicilia si chiama spera anche il pane che si
prepara in occasione di feste religiose.
Spera (o Sfera) è chiamato anche il Sole: da ciò le mie conclusioni.
Fintantoché qualcuno non mi sa dare un’altra derivazione del termine,
vale la mia supposizione.
Ti faccio avere anche la recensione che della poesia ha stilato
la Prof.ssa
Giusi
Leone che pubblicamente ringrazio.
Grazie Nicolò |
Caro Nicolò,
credo di avere poco d'aggiungere all'illuminata recensione della
Prof.ssa Leone che, anche se nostra conterranea, credo poco adusa a simili
pratiche ludiche infantili, ha colto nel segno il significato e la
valenza di quel giuoco innocente che ci traslava momentaneamente in un
mondo fantastico, lontano dal triste quotidiano. E non potevamo non
inventare quel giuoco fatto di zolfo, dal momento che tutti quanti
eravamo se non fatti, almeno intrisi di quel giallo minerale che abbiamo
calpestato, annusato, accarezzato in scintillanti cristalli, nelle
sembianze di piccoli animali (ancora a casa mia credo abbiamo un piccolo
cane fatto di zolfo), e mangiato sotto forma di pane: pane giallo
costato caro a tanti minatori di cui abbiamo ancora vivo il ricordo del
loro sacrificio.
La tua poesia mi riporta quindi a quei bei tempi quando, per
sopravvivere alla noia quotidiana, era facile inventarsi i giuochi più
strani dal momento che non ci aspettavamo i pacchi regalo di cui godono
i nostri figli in questo nuovo millennio. Chiudiamo gli occhi e
godiamoci quei magici momenti!
Federico |
Appartenenze
Recensione di Giusi leone
Succede, talvolta, che la mente,
accartocciata nel quotidiano andare, si lascia sorprendere dal ricordo.
Ricordando, perciò, ritentive sovrastano la cognizione dell’essere
altro dal passato e ogni esistenza, dunque, cambia la propria sembianza.
Tuffarsi nelle rimembranze ridesta sensazioni andate e immagini sopite
nel camposanto della memoria… e la nostra storia risorge come araba
fenice dalle ceneri dell’oblio.
Leggendo Nicolò Falci, m’accorgo di dimenticate assonanze che
ricompongono le nostre radici, spezzate dall’avanzare temporale di
percezioni altre legate, invece, al contemporaneo sopravvivere.
Egli, come tanti, legato alle consuetudini della sua vita, si lascia
sorprendere dal ricordo e vi si immerge nuotando senz’aria, in apnea,
in quel mare di odori e sapori e suoni sommersi che gli riportano il
tempo andato.
In cerca d’aria riemerge e respira di un tempo rinnovato, invece,
nella coscienza di ciò che è stato.
Ritrova, pertanto, il gusto del ricordarsi. Del rivedere se stesso,
accanto ad altri, nella dimensione del passato e nell’estensione della
propria appartenenza.
La spera, un rituale antico, un oggetto di
sacra natura, risorge dalla memoria del Poeta stimolata, forse, da una
nota o da una fragranza o da un gesto.
Percezioni repentine dettate dalla solerzia dei sensi ritessono
situazioni e condizioni d’anime legate ad una vita di stenti e
sopraffazione.
La spera… il ricordo di questa
cerimoniale pratica che, in forma molto rudimentale, scioglieva la
polvere di zolfo trasformandola in liqueforme sostanza, gli ripropone l’angoscia
un tempo vissuta dagli zolfatai.
L’orrore della fame e della miseria costringeva molti uomini a calarsi
nelle viscere della terra rischiando la propria vita attimo dopo attimo.
Insieme ad ognuno di loro si calavano nell’ansia giovani spose e figli
infanti, destinati anch’essi ad un futuro di stenti e di fatiche per
un pezzo di pane.
Il colore giallo di quel minerale si estende coprendo immense distese e
varcando or ora i confini del reale universo e del metafisico pensare.
Rivede, perciò, e quasi tocca, con la sua pelle, lo sbalordimento del
calore ardente del sole e il patimento del crudele rogo degli inferi.
In quello stato di grande prevaricazione emotiva si ritrova, quindi,
spettatore e protagonista insieme a li surfarara, vittime di un
fatalismo anonimo, e al fratello Tanu, attempato alchimista e
creatore di immaginifiche forme.
Sorprende, perciò, tra i versi, la capacità percettiva dell’Autore
di riuscire a cogliere della mente del fratello il patrimonio nascosto
di un immaginario colmo e fertile di figure e forme.
Figure e forme, rivisitate, appartenenti a quel contiguo passato ricco,
a quel tempo, di una flora ed un fauna selvaggia ormai cancellate dall’avanzare
lesto e indisturbato del cemento armato.
Affiora, intanto, ancora, il ricordo nel ricordo e riappare la spera,
sotto altre apparenze, con distinte fattezze: l’ostensoriu…
il forziere dell’ostia consacrata, l’incubatrice della fede, la
speranza di chi non ha speranze.
La forma di quell’oggetto religioso ripercorre nelle sue sembianze l’immagine
che si rappresenta, verosimilmente, al movimento dello zolfo che
discioltosi, ad alte temperature, si precipita colando nel calderone
sottostante la bocca che lo effonde e accogliendolo riceve sulla
superficie della sua acqua la magia della creazione. Nell’acqua si
spandono icone di diverse natura dando forma ai pensieri fantasmagorici
di Tanu.
Estasiato, ancora, come allora, il Poeta, si riappropria dei suoi
ricordi, li rivive in ancestrale adorazione e incontra la sua carta
bianca incidendo con euforico inchiostro la resurrezione di un momento
obliato.
Memore di una antichità sommersa si prostra, riconoscente, dinanzi al
ricordo ritrovato e narra di quei suoi giorni, di quella solerte e
ritrovata memoria che lo riconduce ad originarie appartenenze.
Giusi Leone |
LA
SPERA
Quanta pena e quanta suffirenza
pi ddru surfaru giallu e ‘ncarcinatu
ca comu oru era all’apparenza
ma a tanti c’arrubbà fin’a lu jhatu.
Giallu era, comu suli ardenti,
ma mpiàrnu si faciva s’abbrusciava
e lu so fìatu n’ammazzà di genti
ca ijva sutta terra e lu scippava.
Sul’accussì addivintava pani,
dannu travagliu a li surfarara
ca spissu nun parìanu cchiù cristiani
santìannu contru chiddra vit’amara.
Ma ni sti jorna jivu a pinsari
di quannu ancora nichi n’antri s’era
-ca picca n’abbastava pi jucari-
e cu l’amici si facìa na SPERA.
Davamu fuacu, allura, a ddr’oru
giallu,
ca s’addrumava e scinnìa squagliannu
jìann’a finiri sutta - ancora callu,
‘mmiazz’a lu fumu, lu fìatu e frijiannu -
nill’acqua ch’era intra na
pignata.
La lava ca puddrava s’addinsava
e cu na facci attenta ed estasiata
la so criatura Tanu si taliava.
Ed iddru cci vidiva tanti cosi:
caracituli comu ni li grutti,
o jhuri ca parìanu veru rosi,
draghi ed arbuli chini di frutti.
Ed anchi si nun era magarìa,
un magu ddru ma frati si sintiva:
avìa tratu di lu surfaru c’ardìa
tutti li formi ca ‘n testa c’aviva.
Picchì accussì la SPERA fu
chiamata?
Mi dissiru ca spera è numinatu
l’ostensoriu cu l’ostia cunsacrata
ca ni li prucissioni è viniratu.
Si ci pinsati, è veru, c’assumiglia!
li gammi lungarini di la SPERA,
- ca ni parianu vera miraviglia-
‘un parinu di Suli na raggera?
Ddru suli ca di l’ostia è
sintinella
(e pi riguardu ‘mmiazzu si la teni)
nun è midemma iddru spera bella
c’a tutti n’antri duna tantu beni?
NICOLO’ FALCI
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