IL NAVIGLIO 
            di 
  PORTA CICCA


Come massaia ch’empito il pentolone
col fuoco poi lo scalda fino al bollore,
e l’acqua gorgogliando innalza al cielo
di vapori colorati un fitto velo,

e assiste soddisfatta all’artifizio strano
di maga esperta, e pronta tiene in mano
l’indumento che vorrebbe colorare
tanto ansiosa di calarlo e rimestare,

così una massa di vapori immani,
enormi nubi dai colori strani,
salivan dal naviglio ticinese
coprendo alla visione anche le case.

Pareva un serpentone, lungo e informe,
la cui testa era lì, e la coda enorme
sparendo della vista alla visione
generava nel cuor sacra emozione.

Tra i fumi che nell’acqua avean la vita
avanzava una massa indefinita:
era un barcone di sabbia e pietre pieno
guidato da un nocchier che col suo remo

a destra e a manca toccava le due sponde
per stare in mezzo al fiume, come Caronte:
e cercava di scansar quella gran secca
giunto oramai vicino a Porta Cicca.  

Di donna un canto si levava arcano
in mezzo a quell’ambiente da vulcano:
sbatteva i panni sulla pietra dura
sciacquando nella roggia ogni lordura.

E un coro di donne rispondeva al canto
empiendo il fiume e le viuzze a fianco;
mentre un urlo sovrumano lì vicino
avvisava ch’era giunto un arrotino.

Un carretto tutto pieno di carbone
sostava nei paraggi d’un portone,
mentre un uomo con faccia a funerale
scaricava dentro un buco il minerale.

Non appena l’uomo nero ebbe finito
giunse al volo la custode di quel sito,
che in un baleno pulì le scure macchie
e tutto ritornò come uno specchio.

Uno squarcio di sole, cosa gradita,
cominciò a illuminare tutta la ripa,
mostrando verso destra pure l’alzaia,
intenta al suo lavor la lavandaia.

Tutt’a un tratto un nebbione prepotente
coprì ogni cosa alla vista della gente
che dal ponte Scodellino avea la brama
di mirare del naviglio il panorama.

Per non mostrare scarno il suo apparato
alla nebbia chiedeva un po’ d’aiuto:
con la promessa che a metà di aprile
sarebbe apparso già verde e gentile.