IL CASO FILOMENA

                                                             
I riferimenti a singole persone, fatti e luoghi
                                                                                   qui descritti, sono frutto di pura invenzione.





Cap. 1


La solita corriera, sgangherata e traballante, che tutte le mattine collegava la Provincia a Balatazza, arrancava lentamente sullultima ripida salita col suo carico grondante miseria e umanità. Il suo passaggio saturava l’aria di fumi puzzolenti di gasolio e diffondeva un sordo rumore di motore, quasi prossimo a scoppiare, rompendo il silenzio che regnava nei campi. L’eco del suo rimbombo contro la collina copriva il monotono latrato di alcuni cani randagi che, a quel cupo frastuono, rispondevano aumentando la frequenza e l’intensità dei loro versi dall’articolazione quasi umana, come se volessero urlare al mondo intero la disperazione dei loro miseri padroni, ormai privi di voce e di forza. Per quei poveri contadini, intenti a zappare i loro piccoli campi o dediti alla potatura delle viti, il suo passaggio, sempre puntuale alle otto del mattino, era il segnale che attendevano per consumare la misera colazione che le loro mogli avevano deposto nei tascapani impregnati di sudore. Aveva appena varcato il piccolo fiume, attraversando un ponte ad una sola arcata, il "Ponte grande", sotto il quale luccicava una striminzita pozza d’acqua stagnante, meta d’estate di pochi coraggiosi ragazzini in cerca d’un po’ di refrigerio. Adesso s’inerpicava per una strada semi asfaltata e piena di buche, attenta a non rotolare per i ripidi burroni che si aprivano sulla destra, e timorosa allo stesso tempo per i massi minacciosi che pendevano, quasi trattenuti da una forza misteriosa, dal costone roccioso alla sua sinistra. L’autista del mezzo, un grasso signore sulla cinquantina, pelato e con dei baffetti sottili che lo facevano assomigliare ad un personaggio di Marco Polo, che da anni percorreva quella strada e che conosceva ad occhi chiusi, ormai non faceva più caso alle insidie che quel tratto nascondeva; ma quella curva a quasi novanta gradi, una delle ultime prima di giungere in paese, l’affrontava sempre con grande attenzione, dopo avere suonato a ripetizione il clacson gracchiante di quel vecchio pullman, ormai prossimo ad una meritata pensione. Un altro signore, un po’ più anziano, che fungeva da bigliettaio, portava a tracolla una macchinetta dalla quale, dopo avere impostata la cifra corrispondente alla tariffa ed avere azionato una leva, fuoriusciva un candido scontrino, appena macchiato d’inchiostro nero. Magro e di media altezza, portava una divisa blu ed un paio di occhiali con lenti molto spesse. Se il primo era il braccio della compagnia, questi ne era la mente, dal momento ch’era suo compito accogliere i passeggeri, chiedere la loro destinazione, emettere il biglietto, e naturalmente, come spesso avveniva, scambiare due chiacchiere. Chiacchiere che non si limitavano ad indagare la contingenza del viaggio, ma che si estendevano alle loro motivazioni ed alla loro frequenza. Cosicché, di tanti paesani, sapeva più cose lui che il loro stesso medico di fiducia, riceveva più confidenze lui che la loro stessa moglie. Al volo intuiva, e riusciva ad averne conferma, in fiducia e con delicatezza, se il tizio si stava recando in ospedale a trovare un parente ammalato di tbc, o andava in uno dei tanti casini della provincia per incontrarsi con una prostituta: poiché in paese c’erano quelli che, sposati o meno, lo facevano in un giorno fisso della settimana e sempre con la stessa donna alla quale erano ormai affezionati. A lui nulla sfuggiva dei suoi passeggeri, ma, a giudicare dal suo comportamento schivo e riservato quand’era fuori servizio, non era il classico pettegolo di paese: la sua strisciante invadenza era una pura curiosità morbosa, alla quale quel mestiere l’aveva da tempo abituato.
Alle origini quella strada era una semplice mulattiera, una trazzera percorsa da cacciatori e contadini a dorso di mulo; poi, con l’avvento della prima carrozza che collegava il paese con la vicina stazione ferroviaria, era stata ampliata e sistemata, sì da permettere anche il passaggio dei carretti carichi di zolfo; l’arrivo della corriera, infine, l’aveva promossa a strada provinciale, e da bianca mulattiera, ricoperta di polveri di gesso e calcare, era diventata un’indispensabile via di comunicazione, nera di bitume e cocente d’estate.
La corriera, a quell’ora, viaggiava quasi sempre semivuota, ed i pochi passeggeri che trasportava, erano dei poveri contadini assonnati e stanchi per i pesanti lavori ai quali erano costretti per lavorare un fazzoletto di terra, sempre più dura da dissodare e sempre più arsa dal sole. Dalle contrade circostanti si recavano in paese per sbrigare una pratica o per pagare la tassa presso l’esattoria comunale; dopo tante proteste, poiché non capivano come mai quella famigerata tassa sul "salito", di sapore mafioso, raddoppiava di anno in anno, come le loro fatiche. Al contrario dei loro sempre più miseri ricavi che invece si dimezzavano da una stagione all’altra.

Quella mattina, in quel tratto di strada, erano soltanto due i passeggeri, oltre all’autista ed al bigliettaio: un anziano signore armato di zappa, ed una ragazza che all’apparenza mostrava una ventina d’anni, ma, a ben guardarla, forse non aveva compiuto i diciotto. Il primo, salito in contrada Pietre Vive, si apprestava a scendere a metà della salita, la seconda invece se ne stava seduta al centro della corriera, vicina al finestrino dalla parte dello strapiombo, e non smetteva d’osservare la campagna circostante, ricca di vigne e di alberi di mandorlo. Al contrario quei due, che il panorama lo conoscevano a memoria, non avevano smesso d’osservare la ragazza, senza farsi notare, almeno così credevano: l’autista attraverso lo specchietto retrovisore ed il bigliettaio, con la sua macchinetta a tracollo, sempre in andirivieni da una parte all’altra della corriera, vuoi per spostare un giornale, vuoi per pulire il sedile che un viaggiatore aveva lasciato in disordine. Ma il vero motivo dei suoi spostamenti derivava dal fatto di volere indagare più da vicino quella ragazza alla quale aveva rilasciato un biglietto per Balatazza, ed in quel momento non aveva osato domandare cosa andasse a fare in quello sperduto paese. Chiederglielo adesso gli sembrava sconveniente, quasi volesse intromettersi nei suoi affari privati. Con gli altri passeggeri, quasi tutti conoscenti, normalmente chiacchierava del più e del meno, per fare trascorrere più in fretta quell’oretta di tempo necessaria per giungere in paese dalla provincia. Ma con questa, che vedeva per la prima volta, persa l’occasione iniziale, al momento del rilascio del biglietto, non era riuscito ad attaccare bottone; anche perché lei se ne stava in disparte e non mostrava alcuna voglia d’intrattenersi in chiacchiere, anche se avrebbe avuto tanta voglia e necessità di notizie su quel paese! Evidentemente, il suo carattere riservato ed il fatto di trovarsi a viaggiare sola donna tra due uomini, non la incoraggiava a sbilanciarsi in discorsi compromettenti. In ogni modo, se ne stava lì in disparte, sicura del fatto suo.
I due uomini ogni tanto si scambiavano delle occhiate significative, come per dire:
"Cosa verrà a fare questa ragazza a Balatazza? Conosco tutti gli abitanti, uno ad uno, ma questa non l’ho mai vista, né appartiene a qualche famiglia del paese!".
"E chi lo sa!", gli faceva eco l’autista, inarcando le ciglia e scuotendo il capo mostrando meraviglia.
Poi, non resistendo alla voglia di spettegolare, avvicinatosi all’autista, gli sussurrò sottovoce:
"Forse è la nuova maestra che aspettiamo da giorni".
"Ah, finalmente!", fece eco l’autista, alzando il capo in segno d’approvazione.
E più la corriera s’apprestava a finire la propria corsa, più aumentava la curiosità del bigliettaio. La presenza della ragazza era passata inosservata quando, in provincia, era salita su quel mezzo insieme ad altre persone, che nel frattempo erano scese alle fermate intermedie; adesso, il fatto che fosse l’unica passeggera diretta al capolinea, e che da sola si recava in un paese a lei estraneo, lo intricava maledettamente.
Una brusca frenata ed un’improvvisa accelerata fecero sobbalzare la corriera, anche a causa del leggero rinculo dovuto alla sterzata per evitare una macchina che procedeva allegramente nel senso opposto. Il bigliettaio si ritrovò sbattuto violentemente contro un sedile, fortunatamente illeso, mentre la ragazza, presa da un grande spavento e vedendosi già scaraventata nel precipizio, gridò:
"Mamma mia!", coprendosi il volto con le mani.
"Niente paura, signorina!", la rincuorò l’autista, che, dopo la brusca sbandata, era tornato padrone del mezzo. E rivolto al bigliettaio:
"L’ho sempre detto che questa maledetta curva riserba sempre qualche sorpresa e che due occhi non bastano; era quello stupido di Caliddu, che più tardi dovrà fare i conti col padre. Quello sì che lo mena a dovere, e con la cinghia di cuoio dei pantaloni!".
"Anch’io ti ho sempre ripetuto che giunto in quella curva devi rallentare e non curiosare nello specchietto retrovisore: c’è mancato poco che finissimo nella scarpata sottostante", disse il bigliettaio, rivolto all’autista, dopo essersi rialzato dalla scomoda posizione in cui si era trovato catapultato.
Ed approfittando della situazione, rivolto alla ragazza che nel frattempo si era ripresa dallo spavento, quasi a volerla distrarre e tranquillizzare, allo stesso tempo:
"Questo è l’unico punto poco agevole di tutto il tragitto, e, benché saperlo è già un vantaggio, resta lo stesso pericoloso. Glielo predico tutte le mattine, a quel testone del mio collega, di prestare un po’ più d’attenzione, e se non mi da retta, un giorno o l’altro ci ritroveremo in fondo al burrone. Ma dite: siete per caso la nuova maestra che aspettano a scuola da qualche giorno?".
"No, non sono la nuova maestra", rispose laconicamente la ragazza con fare gentile ma perentorio, che non permetteva ulteriori divagazioni né su quell’argomento, né su altri.
Da un po’ di tempo si era resa conto di essere indagata dai due, che non perdevano occasione per osservarla: ora attraverso lo specchietto retrovisore, ora approfittando di un piccolo sbandamento a causa di una curva. Non aveva ancora messo piede in paese, e già, come prevedeva, era oggetto di una morbosa attenzione.
"Ma il bello deve ancora venire! Vedranno se sarò capace di fare valere le mie ragioni! Se non mi danno retta, metterò il paese a soqquadro", pensava ogni qualvolta i due le mettevano lo sguardo addosso, ed era costretta ad abbassare gli occhi o a mirare l’orizzonte che si allontanava man mano che la corriera s’inerpicava per quella ripida salita.
E pensando che la sua missione non si sarebbe compiuta nell’arco di una giornata, forse per guadagnare tempo, o forse perché una domanda posta ad una persona in servizio non poteva destare sospetti, fattasi coraggio, chiese al bigliettaio che, dopo quella sua strana domanda, si era seduto a fianco del guidatore, ormai rassegnato al silenzio:
"Sapete dirmi se in questo paese esiste un albergo o una pensione?".
Quella domanda inaspettata ed insperata, per don Calò fu come una vittoria, fu la conferma che chi semina bene alla fine qualcosa raccoglie.
"Esiste una piccola pensione, gestita da due signorine: dicono che non sia molto confortevole. Ma cosa volete? Questo è un piccolo paese, e raramente giungono delle persone alla ricerca di un albergo. Ad ogni modo, se v’interessa, si trova ad un centinaio di metri dalla fermata della corriera. Se non doveste trovare posto, chiedete di don Calò, che poi sarei io, e sicuramente sapremo trovare una soluzione alternativa", rispose il bigliettaio, girandosi verso la ragazza, contento e meravigliato allo stesso tempo, per essere riuscito, finalmente, a rompere quello strano silenzio. E soddisfatto, quasi fosse lui l’artefice dell’improvvisa loquacità della signorina, chiese immediatamente:
"Avete intenzione di fermarvi a lungo, in paese?".
A quella domanda non seguì una risposta, ma un gesto che voleva significare:
"Dipende da tante cose! E poi a voi cosa importa?".
E solo Dio sapeva da quante cose dipendeva la sua permanenza in quel paese. Poteva essere sufficiente una sola mattinata, una giornata intera, oppure …. La sua missione era così ardua e complicata che era impossibile fare delle previsioni temporali: e non soltanto temporali, dal momento che poteva risultare un totale fallimento e una bruciante delusione. Ci aveva pensato e riflettuto a lungo prima di accingersi a quel passo così delicato e importante per la sua vita futura. Quella passata, ormai, era andata com’era andata, non proprio esaltante, soprattutto dopo le ultime novità. Ma per far sì che il futuro, che aveva di fronte, fosse un tantino migliore, valeva forse la pena tentare il tutto per tutto, a scapito della sua stessa reputazione, mettendo in atto il suo piano che aveva in mente da qualche tempo. Sarebbe rimasta in paese uno, due o più giorni, se solo avesse intravisto una via d’uscita al suo caso, che si presentava disperato e forse anche umiliante. Aveva passato una notte insonne, tra l’inquietudine e la paura, poi assopitasi, aveva sognato diavoli e megere che la trascinavano per i capelli in un pozzo senza fine, dove cadeva a precipizio senza sosta, alla ricerca di un appiglio che ponesse fine a quella discesa vorticosa. Gli appigli c’erano, ma quando tentava di afferrarne uno, quello le scivolava tra le mani e la corsa all’ingiù continuava, all’infinito. Si era svegliata sudata e col cuore in gola dalla fatica e dall’affanno, quand’era già l’alba, e quindi ora di prepararsi per non perdere la corriera che, in meno di mezz’ora, l’avrebbe portata in provincia; poi da lì, con un altro pullman, avrebbe raggiunto uno sperduto paese di collina, di nome Balatazza.
Il bigliettaio don Calò, stavolta si era arreso davanti a quella ragazza che non aveva voglia di manifestare né le intenzioni né le ragioni per cui si stava recando in quel paese. Aveva soltanto saputo che non era la nuova maestra, e che forse sarebbe rimasta a dormire nella pensione delle due sorelle. Troppo poco, per uno come lui abituato a conoscere particolari scottanti e situazioni imbarazzanti. Ma, se aveva fallito sulla corriera, c’era sempre tempo per tentare di sapere chi era quella ragazza e quali pensieri si stavano agitando nella sua giovane mente. Aveva gettato l’amo dell’alternativa alla pensione delle due sorelle, e, come altre volte era successo con persone in cerca d’ospitalità, la sua cameretta sarebbe stata a disposizione di quella ragazza; che, chissà perché, cominciava a fargli tenerezza, vedendola sola ed un po’ confusa, e sicuramente alle prese con un problema forse più grande della sua giovane età.
Dopo qualche minuto, la corriera, affrontate alcune curve e percorso l’ultimo chilometro di strada quasi pianeggiante, si arrestava davanti al bar di donna Gigina, dove la corsa aveva termine. L’unica passeggera, preso il solo bagaglio che possedeva, una borsetta che appoggiò alla spalla sinistra, scese i due gradini che la separavano dal marciapiede, e dopo avere rivolto un cenno di saluto ai due che l’avevano portata a destinazione, si diresse all’interno del bar. Il bar di donna Gigina era situato nel primo edificio che la corriera incontrava venendo dalla provincia, ed ormai era considerato un’istituzione per il paese. Davanti al suo ingresso facevano capolinea le corriere che terminavano la corsa in paese e vi sostavano quelle in transito. Sin dal primo mattino si sentiva il rumore dei motori della macchina che stava preparando la granita, e riempiva la via d’un odore piacevole di limone e di essenze varie. Al passaggio della prima corriera, le brioche erano già calde, pronte per essere riempite di granita e gelato, secondo un atavico uso paesano. Ed era un andirivieni ed una confusione continua, tra i passeggeri che approfittavano della sosta di qualche minuto per bere un buon caffè, gli abituali avventori che casualmente incontravano un amico in transito e necessariamente dovevano offrire qualcosa da bere, l’autista che invitava a fare in fretta per non giungere tardi a destinazione. Donna Gigina, che aveva sempre tutto sotto controllo, correva a destra e a manca per soddisfare la clientela nel migliore dei modi. La ragazza, che entrando fu subito oggetto d’attenzione da parte di tutti i presenti, si accomodò ad un tavolo nel secondo dei due piccoli locali che costituivano il negozio, e restò in attesa che qualcuno, terminata la momentanea ressa, andasse ad occuparsi di lei.



Cap
. 2

L’attesa di Filomena durò qualche minuto quando, un signore allampanato e sorridente con un vassoio in mano, le si accostò per chiederle gentilmente cosa desiderava. Filomena, che nell’attesa era rimasta estasiata dall’odore di dolci che emanava dal piccolo locale attiguo, ordinò un cappuccino ed una brioche.
"Mi permetto di suggerirle un ottimo gelato con brioche appena sfornata", le suggerì il signore che fungeva da cameriere con un sorriso accattivante, ma si vedeva che era lì per dare una mano alla padrona del locale, e non un cameriere di professione.
"Grazie!", rispose Filomena, "Preferisco un cappuccino con caffè abbondante".
Il signore annuì alla conferma della ragazza, e si allontanò verso il banco dove donna Gigina, brontolando ordini incomprensibili, con un’enorme pala di legno, stava travasando in alcuni contenitori metallici il gelato appena preparato con una vecchia macchina che finalmente smise di emettere un fastidioso rumore.
Filomena aveva appena compiuto diciott’anni. Di media statura ed un visino che emanava simpatia, non era molto formosa, ma portava dei lunghi capelli neri che la facevano sembrare appariscente. Era partita alle prime ore dell’alba da un paesino dell’agrigentino per giungere a Balatazza dopo circa due ore di corriera. Si sentiva un po’ stanca per il viaggio non proprio comodo che aveva appena affrontato, ma soddisfatta per essere giunta a destinazione, come sperava. Una buona colazione l’avrebbe rimessa in forma, prima di cominciare a mettere in atto il suo piano. Avrebbe dovuto fidarsi di persone mai viste prima, di quel don Calò conosciuto sulla corriera, o magari del gentile signore che si apprestava a portarle un caldo cappuccino. Sembravano persone per bene, che sicuramente conoscevano tutti gli abitanti di quel piccolo paese, e che si sarebbero prestate a darle le informazioni di cui aveva bisogno.
"Un po’ di solidarietà non si nega mai a nessuno, immaginarsi ad una povera ragazza sola, alla ricerca della propria identità! E poi sono tutti gentili, dalle nostre parti, soprattutto con le donne: basta che apri bocca e si fanno in quattro per venirti incontro", pensava. "Se poi dovessero risultare poco affidabili, potrei sempre rivolgermi al parroco, al maresciallo dei carabinieri o al sindaco. Per il momento meglio evitare le autorità, poiché c’è sempre tempo per coinvolgere anche loro".
L’arrivo del signore che fungeva da cameriere con la colazione ordinata in precedenza la distrasse da quei pensieri. Fu gentilissimo, fece un sacco di moine nel disporre sul tavolo la tazza, la brioche ed un pasticcino. Vedendo l’espressione un po’ imbarazzata di Filomena, la prevenne:
"Il pasticcino lo offre la casa. Posso esserle utile, signorina? Se ha bisogno di qualcosa non ha che da dirlo, e sono a sua disposizione".
"Grazie!", rispose Filomena, "Lei è molto gentile, ma per il momento va bene così".
"Posso almeno conoscere il suo nome, nel caso…" continuò il cameriere sempre sorridente.
"Mi chiamo Filomena, e forse dopo avrò bisogno di chiederle alcune informazioni.".
"Carmé! Vai a tirare le ciambelle dal forno", urlava donna Gigina.
"Faccia colazione con calma, fra poco sono da lei", disse Carmelo allontanandosi di corsa, quando ormai tutto il locale era saturo di odore di bruciato, e gli strilli di donna Gigina si percepivano distintamente anche per strada.
"Possibile che devi stare sempre dietro a tutte le gonnelle che entrano in questo locale? Guarda che fine hanno fatto le ciambelle nel forno! Sono tutte nere da buttare via! Adesso, chi lo sente il Colonnello che fra poco deve partire per Palermo, con la corriera delle nove!".
"Me ne infischio del Colonnello e del suo cane Lilli! Vorrà dire che a quello smorfioso e viziato cagnolino darà da mangiare i biscotti anziché le ciambelle! Un giorno o l’altro gliel’avveleno quella bestiaccia, abituata a ciambelle e uova", brontolava Carmelo in risposta agli strilli di donna Gigina, mentre mimava le leziose moine di quel piccolo bastardo ogni qualvolta veniva imboccato dal suo padrone.
E l’avrebbe fatto veramente, se non fosse stato che, quando incontrava il Colonnello, la sua ieratica figura, enfatizzata da quel monocolo incollato all’occhio sinistro, lo intimoriva a tal punto da farlo sprofondare in ossequi e salamelecchi, non disdegnando qualche carezza a Lilli che il padrone si portava sempre dietro al guinzaglio. Anche se, non appena questi girava le spalle, mimava un gestaccio od una pedata da affibbiare a quella povera bestiola, piccola e indifesa.
Filomena, si sentì quasi chiamata in causa dagli strilli di donna Gigina, ma fece finta di niente e continuò la colazione al pensiero che fra poco avrebbe dovuto aprire i suoi segreti a Carmelo, se voleva portare a termine la sua missione.
Questi si presentò dopo qualche minuto al tavolo di Filomena con due tazzine di caffè, dopo avere urlato a donna Gigina che non voleva essere disturbato.
"Assaggi questo buon caffè e dopo mi dica pure in cosa posso esserle utile", le disse con fare suadente.
Filomena non se lo fece ripetere due volte, e, fattasi coraggio, cominciò il suo racconto:
"Mi spiace disturbarla e soprattutto infastidirla coi miei problemi, ma lei è la persona più gentile che abbia incontrato arrivando in questo paese. Ho bisogno di sapere dove abita una signora che tutti conoscono come "La Curta", disse d’un fiato, onde evitare ripensamenti.
"Giovanna La Curta!", fece eco Carmelo, scuotendo la testa e mostrando non poca meraviglia. "Pace all’anima sua! Quella megera è morta lo scorso anno, sola e abbandonata da tutti. Ma cosa volevi sapere da quella persona che in vita sua, almeno così dicono in paese, ne ha combinato una più del diavolo? Posso darti del tu, vero?".
"Quand’è così, nulla! Mi conviene mettere l’anima in pace e tornarmene al mio paese. Avrei voluto sapere tante cose da quella signora, ma, visto che non c’è più, non può essermi d’aiuto", disse con tristezza, mentre sentiva inumidirsi gli occhi ed un brivido percorrere la sua schiena. Tutto poteva aspettarsi, ma non che l’unica persona che poteva ridare un significato alla sua vita fosse morta e sepolta. In quel paese non aveva più nulla da fare, e non le restava che prendere la prima corriera per la provincia e tornarsene a casa sua.
"Non mi resta che tornarmene a casa", disse sconsolata.
"Aspetta un momento! Se la Curta è morta, resta la figlia che sicuramente conosceva i segreti della madre. Ma se non mi dici di che si tratta, non posso certo aiutarti", le rispose Carmelo che già intravedeva una storia intricata, una di quelle strane storie di paese di cui andava matto.
"E’ una storia lunga!", rispose Filomena con un sospiro, "Non avrei voglia di ricordare il mio passato, ma visto che ormai sono qui, e lei mi sembra una persona a posto, tanto vale che gliela racconti per sommi capi. Due anni addietro è morto mio padre, una persona importante nel mio paese. Gestiva una piccola impresa, e la sua morte ci ha procurato un sacco di guai, anche economici. Anche mia madre, un mese fa, ha deciso di lasciarci, e da allora la mia vita è cambiata completamente. In punto di morte, forse per paura di lasciarmi sola, mi confidò che io ero stata adottata, usò proprio questa parola, quando ancora avevo poche ore di vita, e che, se volevo trovare i miei genitori naturali, dovevo recarmi a Balatazza e seguire le istruzioni scritte in questo foglietto. Devo dire, a onore del vero, che mi hanno sempre trattato con tanto amore, come se fosse stata la loro vera figlia, e mai ho avuto il sospetto di quanto le sto raccontando. Mi hanno fatto studiare, ho preso un diploma, e sarò loro sempre riconoscente. Ma da quel giorno non vivo più, e mi sento tanto confusa: ho appena perso la seconda mamma, e sono alla ricerca della prima".
E così dicendo, le mani tremanti dall’emozione, estrasse dalla borsetta un foglietto che consegnò a Carmelo, invitandolo a leggere. Carmelo, forse più emozionato di Filomena, prese il foglietto che lesse d’un fiato, per poi rileggerlo con attenzione sottovoce, marcando alcune parole.
"Effettivamente qui si parla di Giovanna La Curta, proprio la persona morta lo scorso anno. Ma fa cenno anche ad una clinica della provincia che mai ho sentito nominare, la "Clinica della vita". Tua madre ti ha mai parlato di Balatazza o fatto per caso il nome di qualche persona?", disse Carmelo che già studiava come muoversi in quella intricata vicenda.
"No, mai! Tutto quello che mi ha detto glie l’ho appena riferito. Io di questo paese, fino ad ieri, non conoscevo neanche l’esistenza", gli rispose Filomena.
"Volevi incontrare la Curta per conoscere il nome della persona di cui parlava tua madre? Quella disgraziata è morta alcoolizzata, immaginarsi se avrebbe potuto ricordarsi di fatti avvenuti vent’anni addietro! Allora era in gamba, faceva traffici d’ogni tipo ed era benvoluta da tutti. Poi la morte in miniera del figlio l’ha fatta impazzire di dolore, s’è data all’alcool ed è morta di cirrosi. Come ti dicevo, l’unica persona che può aiutarti è la figlia, sperando che abbia avuto qualche confidenza dalla madre e che sia disposta a parlare. Perché sai, quando ci sono di mezzo le promesse, i giuramenti di non fare cenno ad alcuno di certi fatti compromettenti, qui la consegna viene rispettata, pena la propria pelle, e nessuno parla volentieri".
"Lei conosce la figlia di questa Curta?", chiese con ansia Filomena che dopo la brutta notizia della sua morte aveva perso ogni speranza di rintracciare la sua vera madre.
"Certo che conosco Tanuzza! E’ passata dal bar proprio ieri pomeriggio di ritorno dalla provincia. E’ una persona di buonsenso, ha un marito e due figli, e se avesse la possibilità di aiutarti sono sicuro che lo farebbe volentieri. In fondo, cos’ha da perdere? Non certo la sua reputazione, già compromessa dal comportamento della madre".
"Vorrei raccomandarle di non fare cenno ad alcuno di quanto le ho appena raccontato. E’ meglio che la gente non sappia di questa mia vicenda, altrimenti sarei subito sulla bocca di tutti", si raccomandò Filomena.
"Stai tranquilla, nessuno saprà di questa storia. Rilassati una mezz’oretta, e poi andremo a trovare Tanuzza che, vedrai, non è poi tanto Curta come la madre", rispose Carmelo alzandosi per andare a brontolare con donna Gigina che non aveva smesso un attimo di chiamarlo ad alta voce.
Un sorriso illuminò il volto di Filomena, ascoltando le ultime parole. L’idea che la Curta potesse avere generato, ironia della sorte, una Tanuzza alta quanto o più di Carmelo, l’aveva messa di buon umore. Ed anche un filo di speranza scaldò il suo cuore triste, e si sentì rincuorata da quelle parole. Capì di trovarsi in buone mani, e che sarebbe stato opportuno fidarsi ciecamente di quanto le andava dicendo Carmelo. In fondo non aveva alternative, e si sentiva fortunata, una volta tanto, di avere trovato subito la persona giusta. Nella sua giovane mente si era fatta strada l’idea che bastasse andare a Balatazza, parlare con la Curta e tutto si sarebbe risolto, come in un sogno. Solo che adesso la realtà si presentava un po’ diversa da quella immaginata in sogno tra le calde lenzuola. Di fronte alle difficoltà che cominciavano ad affiorare, si chiedeva cosa volesse veramente. Voleva scoprire la sua vera madre a tutti i costi, così com’era stata trasportata a farlo nell’impeto della rivelazione? Oppure, il suo era soltanto un desiderio morboso, sicuramente legittimo, ma dettato da un certo senso di rivalsa verso i suoi genitori adottivi? Le importava veramente trovarsi di fronte a chi l’aveva ripudiata sul nascere, dopo averla tenuta in grembo per tanti mesi? Ogni futura madre si mostra felice del piccolo essere che si porta in grembo, e mostra contenta il suo pancione che darà alla luce un figlio di cui un giorno, almeno così spera, andrà orgogliosa. Santa Cucciufa non faceva nulla per nasconderlo alla vista dei passanti, anzi con orgoglio lo mostrava dicendo: "Toccate! Toccate, com’è duro!", e quelli si sprofondavano in complimenti ed auguri. La sua, invece, avrà forse avuto di che vergognarsi a mostrare il risultato di una colpa? Se non l’aveva voluta allora, la sua figlia, perché avrebbe dovuto desiderarla adesso, dopo vent’anni? Sicuramente lei era al corrente di tutto, conosceva l’identità dei nuovi genitori, aveva visto sua figlia crescere, giocare, andare a scuola, e ciononostante la ignorava di proposito.
La mente di Filomena era un guazzabuglio di strani pensieri, d’incertezze, in confusione totale. Ai momenti di rabbia e di odio, subentravano pensieri più dolci ed acquietanti, di comprensione.
"Chissà quanto avrà sofferto per quella gravidanza, quali e quanti gravi problemi avrà avuto per non potere godere della nascita di una figlia. Forse non aveva un marito, sarà stata sedotta e poi ignorata, lasciata sola per la sua strada. Che bel padre sarebbe costui, un padre vigliacco; no, questo non vorrei mai incontrarlo. Lei invece mi ha fatta nascere, mi ha affidato ad una famiglia che si è sempre presa cura di me, come una vera figlia, ed è sparita per sempre. E se mi avesse venduta? Sì, forse mi ha venduta per poche lire, complice quella maledetta della Curta. Forse si è trovata in difficoltà, si è consigliata con quella megera ubriacona e si è fatta imbrogliare. E i miei genitori adottivi? Anche loro sono colpevoli per avermi comprata, certo per amore, ma mi hanno comunque comprata!".
Si ritrovava con tanti genitori, e tutti colpevoli. Non era facile per lei stabilire chi lo fosse di più e chi di meno, se giustificare i secondi per troppo amore di avere una figlia, o accomunarli ai primi. In confusione totale, ora guardava la tazzina di caffè, ora mirava il soffitto, completamente assente da quanto le succedeva intorno. Ci fosse stata una corriera, vi sarebbe salita immediatamente per tornarsene al suo paese, dov’era cresciuta, anche se in quel momento si sentiva priva di forze e di volontà. Si girò di scatto, sentendosi afferrare per un braccio.
"Se sei pronta, possiamo andare alla ricerca di Tanuzza. A quest’ora dovrebbe essere a casa, o da donna Vicenzina, dove ogni giorno presta servizio per qualche ora", disse Carmelo, liberatosi finalmente di donna Gigina, alle prese col suo fornitore di caffè. Urlava, infatti, che da quello non avrebbe più comprato un solo chicco di caffè, perché l’ultima fornitura era stata una truffa, a causa della tostatura sbagliata.
"Vuoi fregare proprio me, che da cinquant’anni faccio caffè dalla mattina alla sera? Guarda che faccia schifata fa don Tatà, alle prese con quella tazzina piena di brodaglia! Io ci tengo a fare un buon caffè ai miei clienti", gridava in faccia al povero fornitore che, piccolo piccolo, in un angolo, mentre cercava di giustificarsi, raccattava le confezioni di caffè che donna Gigina gli aveva lanciato da dietro il bancone.
"Andiamo, prima che ci veda e cambi bersaglio!", disse Carmelo, prendendo Filomena sotto braccio e quasi scappando dalla porta secondaria. Girarono a sinistra e, dopo il primo isolato, imboccarono la via dei Santi che portava dritto all’abitazione di Giovanna la Curta.



Cap. 3


Avevano percorso appena un centinaio di metri, quando i due s’imbatterono in una persona, brutta all’aspetto, un occhio semichiuso e l’altro così dilatato che sembrava volesse uscire dalla sua orbita. Costui, figura d’antico guerriero saraceno, che pareva dirigere il suo sguardo sbilenco verso un orizzonte immaginario, si accostò a Carmelo e, inarcando le ciglia dell’occhio meno offeso, gli mollò una pacca sulle spalle, mormorando fra i denti:
"Bravo maestro Carmelo, ti va bene, eh!".
Carmelo borbottò qualcosa che sembrava un saluto, ma che voleva significare di farsi i fatti propri e di non immischiarsi in cose che non lo riguardavano.
"Come vedi", disse Carmelo a Filomena, "Devono sempre mettere il naso negli affari degli altri. E’ sufficiente che ti vedano in compagnia di una persona estranea, di una bella ragazza, che già ammiccano cercando di farti capire chissà quali intrallazzi sotterranei ci siano tra i due. Finché resti in questo paese, devi purtroppo abituarti a simili situazioni imbarazzanti".
Prima che giungessero nei pressi dell’abitazione della Curta, infatti, la scena precedente si ripeté un paio di volte.
L’abitazione di Tanuzza la Curta era situata nella parte alta del paese, ed era del tutto particolare. Si trovarono davanti ad una scalinata esterna, e saliti una decina di gradini, ai cui lati erano disposti alcuni vasi di basilico, Carmelo e Filomena si trovarono su un ampio terrazzo, ricoperto per metà da un pergolato di viti. Nella parte non coperta erano disposte due tavole rettangolari, che poggiavano su altrettanti cavalletti, ed erano ricoperte di salsa di pomodoro, ormai quasi rassodata, pronta per essere travasata nei recipienti di terracotta. Una miriade di mosche vi ronzava intorno, ed infastidiva un paio di bambini che, alle prese con alcuni giocattoli, cercavano disperatamente di allontanarle dai loro volti; visi che sembravano arrossati, oltre che dal sole, dai depositi rossastri che quegli insetti lasciavano al contatto con la pelle, dopo avere fatto visita alla salsa esposta ad asciugare. La famiglia di Tanuzza abitava alcune stanze che davano direttamente sul terrazzo, mentre la parte sottostante, adiacente al piccolo e caratteristico porticato, era adibita a stalla per le loro bestie.
"Sai dirmi dov’è la mamma?", chiese Carmelo a quello che sembrava il più grande dei due.
"Ci ha detto di stare qui a giocare, che lei torna presto", rispose il moccioso mentre strisciava tutto l’avambraccio destro contro il naso, ignorando l’esistenza del fazzoletto. Carmelo e Filomena sorrisero a quella scena e si sedettero su una panca, in attesa di Tanuzza, mentre i piccoli ripresero i loro giuochi, incuranti della presenza dei due ospiti.
"Osserva che bel panorama si può godere da questa terrazza!", disse Carmelo per ammazzare il tempo, ma soprattutto per distrarre Filomena che vedeva tesa e pensierosa. In effetti, Filomena non era e non poteva essere tranquilla; fra poco avrebbe potuto sentire dalla bocca di Tanuzza, forse l’ultima depositaria dei suoi segreti, se era in grado di collaborare alla ricerca di una verità per lei determinante. La sua bocca poteva restare cucita o pronunziare una sentenza senza appello. Le sue orecchie già rimbombavano di frasi come: "Sei figlia di quella buona a nulla! Tua madre è quella gran puttana di …. Ma che sei venuta a fare a Balatazza, potevi startene al tuo paese dove eri benvoluta e rispettata! Non vedi che ti stai cacciando in un mare di guai?". Incurante dell’invito di Carmelo e presa dalla disperazione, portò istintivamente le mani a coprire le sue orecchie per non sentire quelle frasi assillanti, quando questi la sollevò di peso dalla panca e l’invitò ad accostarsi al muretto della terrazza. Filomena acconsentì malvolentieri.
"Guarda! Quella laggiù è la Chiesa, e quella la grande piazza che abbiamo attraversato per venire fino qui, lungo la via dei Santi", cominciò Carmelo.
"Bello il panorama, bellissimo il paese! Ma vedi, Carmé, ti do anch’io del tu, il fatto è che non ci sto con la testa, mi verrebbe voglia di piantare tutto e tornarmene al mio paese. Mi sento come un imputato in attesa della sentenza definitiva. Chi sarà mia madre, hai idea di chi possa essere mia madre?", gli rispose Filomena quasi urlando e con le lacrime agli occhi.
"Se lo sapessi, non ti avrei portata da Tanuzza la Curta, e non è detto che lei lo sappia. Non possiamo metterci a fare delle ipotesi strampalate che non abbiano un minimo di serietà. Sei venuta fin qui per scoprirlo, e devo darti atto che sei stata molto coraggiosa. Adesso devi mostrare di essere all’altezza della situazione. Fra poco Tanuzza ci dirà quello che sa, in gran segreto, e tu potrai decidere da persona matura e responsabile, cosa fare o non fare".
"Oh! Guarda chi c’è!", risuonò una voce da sotto il terrazzo.
"Tanù! Ti stavamo aspettando!", rispose Carmelo, facendo un gesto con la mano.
Tanuzza finalmente stava facendo ritorno a casa sua. Meravigliata di trovare degli ospiti inaspettati, nel salire le scale cercò di rassettarsi il vestito, si sistemò alla meglio i capelli, ed evidenziando di proposito un certo affanno dovuto alle scale, fece la sua comparsa sul pianerottolo del terrazzo, poggiando sulla panca una borsa che teneva in mano. Portava bene i suoi quarant’anni suonati e, come aveva detto Carmelo, non poteva definirsi una "Curta", come la madre. Infatti dalla gente era chiamata Tanuzza e basta. Anche se un po’ trascurata nel vestire, poteva definirsi una bella donna: due seni ben evidenti ed una faccia pulita e sorridente, anche se bruciata dal sole. Non era il tipo, infatti, da tirarsi indietro quando c’era bisogno d’aiutare il marito nei campi o andare alla ricerca di spighe nelle varie contrade, quando necessario, dal momento che a casa sua non regnava l’abbondanza. Mentre s’avvicinava a casa s’era meravigliata nel vedere Carmelo ad aspettarla, ma giunta sul terrazzo la sua meraviglia aumentò a dismisura nel vederlo in compagnia di quella ragazza a lei sconosciuta. Da brava attrice, provata da tante vicissitudini della vita, cercò di dissimulare la forte ansia che improvvisamente s’era impossessata di lei.
"Guardate quanta roba mi regala donna Vicenzina, tutte le volte che vado a casa sua per fare qualche ora di servizio", disse mentre mostrava il contenuto della borsa. "Scarpe, vestiti, giocattoli e persino una confezione di aspirine che qui non solo è difficile trovare, ma costano un occhio della testa. Il mese scorso mi ha anche regalato una collanina d’oro. Dovreste vedere quanti pacchi riceve dall’America! Ma perché non entrate in casa?".
"Grazie! Restiamo pure in terrazza, qui si sta veramente bene!", disse Carmelo per non metterla in imbarazzo.
"Permettetemi almeno d’offrirvi qualcosa, accomodatevi, torno subito!", disse in evidente affanno.
E mentre Carmelo e Filomena si accomodavano intorno al tavolo, Tanuzza invitò i bambini ad andare a giocare sotto il porticato e sparì in casa.
Dopo pochi minuti comparve sul terrazzo depositando sul tavolo un vassoio con una bottiglia e tre bicchieri, quindi, rientrata in casa, tornò subito dopo con un piatto pieno di dolci, di chiara fattura casalinga.
"In cosa posso esservi utile?", disse mentre, comoda intorno al tavolo assieme agli altri due, cominciava a riempire i bicchieri di rosolio, invitandoli a servirsene. Ormai si era ripresa dall’ansia e dalla sorpresa iniziale di trovarsi in casa quei due maestri, almeno così pensava. Visto che Carmelo era il maestro di uno dei suoi figli, la ragazza poteva essere una collega. Già altre volte i messi comunali erano andati a trovarla per invitare il figlio ad essere più assiduo alle lezioni, visto che preferiva passare più tempo in campagna col padre che seduto sul banco di scuola. Stavolta, evidentemente, si erano scomodati i maestri, pensava.
"Ci risiamo!", disse per rompere il silenzio, "Mio figlio deve averne combinata una delle sue".
"Non si tratta di tuo figlio stavolta, ma di una faccenda un po’ imbarazzante", disse Carmelo con ancora in mano il bicchierino. E dopo il primo sorso proseguì, stiracchiando il discorso: "Avremmo voluto fare alcune domande alla buon’anima di tua madre. Ma visto che purtroppo siamo giunti un po’ tardi, magari tu puoi esserci d’aiuto, nel caso fossi a conoscenza di certi fatti".
"Allora non si tratta di mio figlio?", domandò sorpresa.
"No, ti assicuro che stavolta tuo figlio non c’entra. E’ una storia che riguarda la signorina qui presente e che si chiama Filomena. Non ti dice nulla questo nome?", chiese Carmelo per introdurre il discorso nel modo meno traumatico possibile.
"Per me è un nome come un altro, e mi fa piacere che la signorina si chiami Filomena. Ti assicuro che non la conosco, non l’ho mai vista!", rispose un po’ risentita, dopo avere osservato la ragazza che se ne stava muta e con gli occhi bassi, rivolti al tavolo. L’accenno alla madre l’aveva messa in apprensione. Cosa volevano sapere da lei, adesso che la madre non c’era più?
"Ebbene!", proseguì Carmelo un po’ in imbarazzo, guardandosi in giro come per accettarsi che fossero soli e che nessun altro potesse sentire le sue parole. "Questa ragazza, che viene da un paese dell’agrigentino, sta cercando i suoi veri genitori che non ha mai conosciuto. Pare che tua madre, a suo tempo, fosse al corrente di tutto. Abbiamo qui una lettera, scritta dalla madre adottiva di Filomena, purtroppo morta anche lei, che dice di rivolgersi a tua madre per avere notizie certe: a te, su questo argomento, non ha mai confidato niente?".
Tanuzza diventò rossa in viso, si fregò le mani in segno di nervosismo, si alzò dalla sedia e fece un giro intorno al tavolo, quasi volesse riflettere e prendere tempo, prima di dare una risposta esauriente.
"Cosa volete che sappia degli affari di mia madre? Ormai è morta, tu sai come, e non ho voglia di ricordare il suo passato. Questa ragazza avrà circa vent’anni, e vuoi che mi ricordi se tanti anni fa mia madre mi ha fatto una confidenza di questo tipo? E poi sono affari e storie che non mi riguardano, perché in genere in queste faccende c’è invischiata sempre gente che non mi piace. Io ho un marito e due figli, e non posso rovinare la mia famiglia. Comunque, io non so niente di questa storia", finì Tanuzza, riprendendo posto alla sua sedia.
Le sue parole, accalorate sì ma alquanto confuse, convinsero Carmelo che sicuramente Tanuzza era al corrente di qualcosa di grave che non voleva o non poteva rivelare, e che aveva i suoi buoni motivi a volersene stare zitta per sempre. Non si aspettava del resto che alla prima domanda mettesse in tavola tutti i suoi segreti.
"Vedi, io ti capisco e non posso obbligarti a dirmi quello che sai. Però guarda questa povera ragazza, rimasta sola e orfana una seconda volta dei nuovi genitori che le erano stati affibbiati per pura convenienza. Non ha forse diritto di conoscere chi l’ha messa al mondo e perché è stata abbandonata? Immaginati al posto suo, solo per fare un esempio, s’intende!", le rispose Carmelo, cercando di sensibilizzarla nei suoi sentimenti più cari.
Intanto Filomena era scoppiata in lacrime, ed invano tentava di rivolgere qualche accorata parola a Tanuzza che, intenerita dal suo sguardo supplichevole, le si era avvicinata e tentava di consolarla.
"Se solo potessi aiutarti, lo farei volentieri. Conosco una persona che forse potrebbe darmi qualche informazione. Vi prego di non tornare più a casa mia, per via dei vicini che potrebbero sospettare chissà che cosa. Mi farò viva io nelle prime ore del pomeriggio".
Per non dare adito a sospetti, come diceva Tanuzza, Carmelo e Filomena uscirono da una porta secondaria che comunicava con una via laterale, e si diressero verso il nuovo anfiteatro del paese per una passeggiata liberatoria. La visita a Tanuzza non aveva sortito l’effetto desiderato; del resto era soltanto un tentativo, ma non era stata del tutto inutile.
"Forse siamo riusciti ad intenerirla, e magari a renderla complice nella ricerca di notizie utili alla tua causa. Oppure Tanuzza, prima di parlare, ha bisogno di consultarsi con qualcun altro al corrente dei fatti. Vedrai che prima o poi qualcosa riusciremo a scoprire", andava ripetendo Carmelo a Filomena.
"Buongiorno, signor maestro!", tuonò una voce alle loro spalle, mentre conversando si dirigevano verso casa.
Girandosi di scatto, Filomena riconobbe il signore della corriera, il bigliettaio tanto gentile.
"Lo dicevo che la signorina era la nuova maestra", proseguì don Calò.
Preso alla sprovvista, Carmelo annuì e confermò, con presenza di spirito, che la signorina avrebbe avuto un incarico provvisorio presso la scuola, giustificando così la sua compagnia e la sua presenza in paese.
"Forse la signorina dovrà fermarsi per qualche giorno in paese, e visto che la pensione delle due sorelle è sconveniente per lei, potresti ospitarla nella tua cameretta?", chiese Carmelo a don Calò.
"Sono a sua disposizione, anzi vorrà dire che ne approfitterò: se la signorina è d’accordo, potrebbe dare qualche ora di ripetizione a quella svogliata di mia figlia che preferisce il giuoco ai libri", confermò don Calò, contento di avere preso due piccioni con la classica fava.
"Non ho nulla in contrario", disse Filomena un po’ impacciata, all’idea d’essersi promossa insegnante.
"E’ una brava persona", disse Carmelo a Filomena quando si furono allontanati, "Un po’ impiccione, a dire il vero, ma, tutto sommato, è un buon padre di famiglia".
Accompagnata Filomena a casa di don Calò, Carmelo si diresse verso la piazza con l’accordo che sarebbe passato a prenderla entro un’ora.
Carmelo e Filomena avevano appena guadagnato l’uscita secondaria, che Tanuzza era già a casa della comare Rosina. Si era liberata con molta gentilezza e maestria dei due rompiscatole, ma ora bisognava fare qualcosa per arginare un’eventuale fuga di notizie. Quella ragazza le faceva veramente pena, ma assecondare il suo desiderio di notizie, anche se legittimo, poteva risultare pericoloso per la sua incolumità e quella della sua famiglia. L’ordine della mamma, quando ancora era in sé e non consumata dai fumi dell’alcool, era stato di mantenere la massima discrezione, e di non rivelare ad alcuno, per nessun motivo, quanto era accaduto tanti anni addietro. Lei e la sua comare, allora ingenue ragazzine, avevano intuito quanto si stava contrattando in quella casa. Nascoste nell’alcova per giuoco, erano rimaste sconvolte alla vista di quella tunica nera poiché, chi l’indossava, avrebbe dovuto prestare le sue opere di bene in tutt’altro posto che a casa della Curta. Quel silenzio, del resto, era stato pagato abbondantemente, e tale doveva restare per sempre. Avesse saputo o semplicemente sospettato qualcosa quel mafioso di don Turiddu, che ritenevano di avere conosciuto quel giorno a casa loro, sarebbero stati guai seri. Loro due, infatti, ritenevano che don Turiddu pensasse che nessun altro fosse al corrente di quei fatti, e che ormai, morta Giovanna la Curta, poteva dormire sonni tranquilli.
Don Turiddu, adesso ch’era diventata la persona più danarosa e più in vista del paese, che aveva preso moglie ed aveva due bei figli che frequentavano l’Università, aveva solo bisogno di continuare i suoi traffici in santa pace. Le bravate fatte in gioventù erano soltanto lontani ricordi in cui ogni tanto amava crogiolarsi per scacciare i momenti di monotonia e malinconia, frequenti in quel paese dove le distrazioni erano quasi inesistenti. Allora rivedeva i caroselli con le macchine per le impervie strade della provincia, le sparatorie tra i brulli ed assolati "chiarchiari", frequentati soltanto da corvi e conigli, l’imprudente ed emozionante scorrazzare tra gli alberi della stupenda pineta. Il ricordo della pineta evocava il fantasma della sua prima ragazza, bella e affascinante. Annina rovinava tutti i suoi sogni, restava con ostinazione davanti ai suoi occhi, e non riusciva a liberarsi facilmente della sua presenza. Purtroppo non era solo un sogno, perché quando l’incontrava in piazza era costretto, per convenienza e quieto vivere, a sprofondarsi in saluti e strette di mano, anche al di lei marito. Poi stringeva i pugni, per rabbia, fino a ferirsi con le unghie il palmo della mano. Da quando era tornata in paese, dopo anni di assenza, ancora bella e sorridente come allora, giorno dopo giorno, la sua presenza continuava a sconvolgere la sua ormai tranquilla vita coniugale. La rivedeva sdraiata sotto quel pino, sentiva i suoi turgidi seni di ventenne, i suoi abbracci, le lunghe ore d’amore soli con la natura, poi le liti furenti, la fine d’un sogno che sembrava dovesse durare in eterno. Aveva dimenticato tutto di lei e d’ogni suo legame, in quei lunghi anni, ed aveva maledetto il giorno del suo ritorno in paese: poi piano piano, il suo gusto sadico di sempre era tornato imperioso, come una volta, e adesso cercava ostinatamente la sua presenza, il suo alito, che mai avrebbe potuto dimenticare. L’incontro c’era stato, e più che fortuito, desiderato e voluto da entrambi. Per Turiddu, era stato un giuoco intromettersi nel suo letto la prima volta, alle spalle del bravo e tranquillo marito; un desiderio ed una voglia irrinunciabili, le volte successive. Ormai, Annina e don Turiddu erano sulla bocca di tutti, ed i loro incontri non erano più un mistero per nessuno.


Cap. 4

"Cara comare Rosina, ti ricordi di quella bambina di cui parlava quel signore dalla tunica nera tanti anni fa?", chiese Tanuzza alla sua amica più cara.
"Quel monsignore che parlava con tua madre, mentre eravamo nascosti nell’alcova a giocare? Cos’è successo?", domandò con meraviglia Rosina, vedendo Tanuzza agitata e rossa in viso, normalmente sempre posata e padrona dei suoi nervi".
"Il fatto è che quella bambina di cui parlava tanti anni addietro quel signore, almeno penso sia quella, ormai ventenne, poco fa è venuta a trovarmi a casa assieme a Carmelo, il maestro di mio figlio, e puoi immaginare il motivo: cerca sua madre! E poi, monsignore o meno, scordati per sempre di quella tunica nera!", disse d’un fiato Tanuzza, nervosa come mai.
"La cosa che non ho mai capito è perché, in una faccenda così delicata, hanno voluto metterci in mezzo un prete! Non aveva altro da fare che proteggere un farabutto come don Turiddu?".
"Il fatto è che mia madre, pace all’anima sua, era una donna di chiesa, e con lui aveva molta confidenza. Tu, ti fideresti di una persona che non conosci per una questione così delicata? E poi chissà quante pressioni avrà fatto su mia madre, per convincerla a commettere un sacrilegio così grave, e quante ne avrà subite, quel povero Don Giovannino, per avere fatto quello che ha fatto!", rispose Tanuzza che evidentemente ci teneva a giustificare, se non proprio a difendere, sia l’operato della madre che del prete. "Da quel giorno", continuò Tanuzza, "Mia madre diventò triste e sospettosa di tutto, e cominciò a diradare le sue visite in chiesa, mentre prima ci teneva tanto e non perdeva una sola messa. Ricordo che quel prete era tornato una seconda volta; quando chiesi a mia madre cosa volesse da lei, perché ad un certo punto si era anche messo a gridare, mi mollò una sberla dicendomi di dimenticare ciò che avevo visto e sentito, e che quello era lì per chiederle di aiutare una persona che stava tanto male. Da allora, né io né mia madre, siamo più tornati su quell’argomento, cosicché si è portato ogni segreto nella tomba".
"Secondo te", intervenne Rosina, "Chi potrebbe essere la mamma di quella ragazza? Suppongo che hai sempre pensato ad Annina, anche se esplicitamente non ne abbiamo mai fatto il nome. A noi basta un cenno, una strizzata d’occhio, perché le parole a volte pesano come macigni e non servono".
"Hai letto bene nel mio pensiero: ed il padre chi, se non don Turiddu? All’epoca, e sono passati esattamente gli anni che dimostra quella ragazza, ricordo che ha fatto molto scalpore la loro relazione, che sembrava dovesse sfociare in un matrimonio, troncata invece violentemente. Nessuno ha mai capito il perché di quella lite. Lui è rimasto in paese ed ha fatto la vita che sappiamo, lei invece è sparita per tanti anni, per poi tornare con un marito", disse Tanuzza che finalmente si era liberata di quel grosso peso che le pesava sullo stomaco.
Le due comari, depositarie di tanto segreto, di cui ogni tanto chiacchieravano senza convinzione per ammazzare il tempo, adesso, alla luce delle ultime novità cominciavano a delineare uno scenario plausibile di quanto era potuto succedere vent’anni addietro. Le loro supposizioni, che prima avevano la consistenza di uno sputo, adesso risultavano legate ed amalgamate insieme da una colla molto resistente al punto da diventare convinzioni. I due amanti, quindi, avevano avuto una figlia della quale si erano sbarazzati utilizzando il prete come portavoce, e Giovanna La Curta come intermediaria con una famiglia di un paese della provincia limitrofa. Tutto quadrava alla perfezione! Finalmente erano riuscite a sistemare quasi tutti i tasselli di quel puzzle, a cui mancava soltanto quello principale, la testa: ed era la ragazza spuntata misteriosamente quella mattina! Anche il prete era stato sistemato al suo giusto posto d’alfiere in scacchiera: non era forse il cugino di don Turiddu, l’amante di Annina? Erano convinte, anzi sicure, di sapere ogni cosa su quella triste storia, ma si guardavano bene dal farne cenno ad alcuno. Giovanna la Curta l’aveva ordinato e fatto giurare alla figlia, ed un giuramento, in quel paese, andava rispettato.
Se il segreto tramandato dalla Curta alla figlia Tanuzza resisteva, anzi aveva resistito negli anni, non altrettanto si poteva dire della presenza di Filomena in paese, com’era nelle intenzioni di Carmelo. Già la sua sosta nel bar di donna Gigina, era stata subito giudicata anomala dai soliti avventori, abituati a vedere sempre e solo le facce dei paesani, raramente quella di una donna di una certa età, e quasi mai un viso di ragazza, estranea e spaesata. La faccia di Filomena era come un libro aperto dove si potevano leggere le sue ansie e le sue pene, e si capiva al volo che era lì per chiedere aiuto al primo passante, così com’era successo. E la visita alla Curta, di cui ignorava persino la morte? Era lampante che Filomena, giungendo in paese, andava alla ricerca della vecchia Curta e non della figlia Tanuzza. Come poteva pensare Carmelo che la loro visita a quella casa potesse passare inosservata, nonostante le precauzioni? Cosa andavano a fare o a cercare un maestro ed una ragazza estranea in casa di una vecchia megera, adusa a pratiche non del tutto in linea con la morale comune?
La gente, al passaggio di quella strana coppia, si affacciava alla finestra a controllare, sospendeva momentaneamente i lavori in cucina per confabulare con la vicina di casa, cominciava a fare supposizioni, allenava la memoria per riesumare antichi ricordi e particolari piccanti. E se tanti erano gli episodi chiacchierati di cui era stata attrice la Curta, altrettanti occhi a suo tempo avevano visto ed osservato tutto, da dietro le persiane, memorizzando date e persone. Adesso era il momento di trovare un nesso tra quella ragazza e qualche episodio del passato col quale potesse avere un plausibile rapporto.
"Posso anche sbagliarmi!, disse Ginetta alla sua vicina, "Ma quella ragazza che ha appena fatto visita a Tanuzza, assomiglia un po’ a don …. no, no, non è possibile!".
"A quale "don" ti riferisci?", intervenne l’amica, più pettegola di Ginetta.
"Cattivi pensieri, cara comare! A furia di vedere la Curta recarsi in chiesa, e tanti "don" fare la spola con la sua casa, quella ragazza mi era parsa assomigliare ad uno di loro", finì di commentare Ginetta.
"Ma sei sicura che quella ragazza sia andata in casa della Curta a domandare chi fosse la sua madre?", chiese l’amica che conosceva bene Ginetta e la sapeva sempre ben informata.
"Non fatemi parlare! Vi devo proprio dire che me l’ha confidato Carmelo che ho incontrato poco fa in piazza? Lo sapete che tra me e Carmelo non esistono misteri. Mi ha pregato di non dirlo ad alcuno, ma sono sicura che voi saprete mantenere il segreto!", confermò Ginetta all’amica, incrociando gli indici e portandoli sulla bocca.
Così, di confidenza in confidenza, di segreto confidato in segreto all’amico e alla comare, con preghiera di non dirlo ad altri, nel giro di poche ore, la voce che una ragazza di nome Filomena, di circa vent’anni, fosse giunta in paese e che andasse alla ricerca della sua vera madre, fece il giro del paese. E tutti erano curiosi di vederla, di conoscerla per farsi raccontare i particolari della sua storia, nel caso fossero a conoscenza di notizie che potessero essere utili alla sua causa. Non per soddisfare la propria morbosa curiosità, s’intende, ma per il bene di quella povera fanciulla abbandonata miseramente in tenera età! Cominciarono i pettegolezzi, circolarono storie fantastiche prive di ogni fondamento di verità, e chi aveva supposizioni da fare non esitò a confidarle all’amico fidato. La notizia in breve tempo varcò i confini cittadini e isolani raggiungendo parenti e amici, da anni fisicamente lontani dai vecchi luoghi di giuoco della prima fanciullezza, ma sempre vicini alla grande piazza del paese col cuore e la mente.
E’ risaputo che la Sicilia, oltre ad essere terra di terremoti è anche patria di Vespri e di "Quarantotto". I primi, lontani nel tempo ma sempre vicini nella memoria, avevano interessato i francesi cacciati in malo modo dall’Isola, mentre i secondi, più vicini al nostro secolo, l’avevano messa a soqquadro contro i Borboni. Stavolta vespri e quarantotto sembravano scoppiati insieme, a Balatazza, tra mogli e mariti, potenziali attori nella triste storia di Filomena. Vecchi rancori e antiche gelosie mai sopite erano diventati pericolosi detonatori pronti a fare esplodere cariche di malcontento mai esternate per quieto vivere. Quella sembrava essere l’occasione propizia per manifestare i segni dell’insofferenza di vecchi soprusi patiti e mai denunziati apertamente, anche dove non sembravano evidenti gli elementi di dissapore, immagazzinati e mai digeriti in anni di vita coniugale. Se in ogni donna esiste una matrice latente di sopportazione, dovuta alla loro particolare resistenza psichica, le mille anime femminili di quel paesello, esasperate dalla lunga tolleranza, sembravano essersi coalizzate contro i loro uomini in un vespro il cui esito poteva risultare esiziale per gli altri oltre che per loro stesse. Finalmente adesso esplodevano all’unisono, quasi una vendetta contro chi, per anni e anni, aveva usato e abusato della loro proverbiale pazienza.
Annina e don Turiddu erano sulla bocca di tutti, additati come gli amanti che avevano procreato Filomena, ma nessuno in pubblico osava andare al di là della battuta, del gesto o delle mezze parole, senza mai menzionare i loro nomi. Tra gli spessi muri di gesso era diverso, perché difficilmente i discorsi, fatti sempre sottovoce naturalmente, avrebbero varcato la soglia di casa. Fossero arrivati alle orecchie del marito di Annina, un secondo Tobia, non l’avrebbero infastidito più di tanto, rassegnato com’era al fato divino, e sempre intento a scrutare il cielo e le stelle. Le sensibili orecchie di don Turiddu, invece, aduse a captare nell’aria ogni minima carica elettrostatica, avrebbero fatto fuoco e fiamme nel volgere di pochi minuti. Perciò Carmela, la moglie di don Turiddu, ostentava tranquillità e non faceva cenno delle dicerie che circolavano in paese, anche se ingoiava amaro e si disperava.
"Curnuta e vastuniata, ecco come mi sento! Mentre io, col marito che mi ritrovo, non posso neanche fiatare, quella puttana di Annina è libera di fare ciò che più le garba: e proprio con quel disgraziato di mio marito! Ma se li scopro insieme, giuro che stavolta faccio succedere un quarantotto!", erano i pensieri di Carmela, ormai per nulla affascinante per don Turiddu che aveva solo occhi per la sua antica fiamma Annina. L’idea che potesse avere avuto una figlia da quella sgualdrina, la mandava in bestia e non le dava pace. Attraversava la sua grande casa da una parte all’altra, sbattendo le porte dalla rabbia e alzava i pugni in aria in segno di vendetta, quasi fossero le prove generali di una improbabile riscossa.
"Il paese mi sembra impazzito! Si sentono strane voci in giro, si parla di una ragazza alla ricerca di sua madre! E che minchia! Proprio qua, quella povera disgraziata, doveva venire a cercare sua madre?", tuonò don Turiddu rincasando per l’ora di pranzo.
"Tu non ne sai proprio nulla, di questa storia, non è vero?", rispose con ironia Carmela, quasi imbaldanzita dalle prove di resistenza fatte in precedenza, e facendo evidente riferimento ad Annina. Credendo fosse giunto il momento della riscossa, aveva preso la palla al balzo e tentava di rilanciarla in faccia al marito.
"Io? E cosa dovrei saperne, io! Allora credi alle panzane che racconta la gente di questo paese? Tu lo sai bene, perché non te l’ho mai nascosto, cosa ho fatto con Annina, in gioventù: ci sono andato a letto, abbiamo fatto l’amore cento, mille volte, ma una figlia con lei mai e poi mai! Se ci provi anche tu ad infangare l’immagine d’Annina, t’ammazzo!", urlò rosso di rabbia. E sollevata Carmela come un fuscello, la scaraventò sulla poltrona più vicina, mentre tovaglia e stoviglie rotolavano sul pavimento. Quindi sbatté la porta della cucina, già duramente provata dalla rabbia di Carmela, sbatté la porta d’ingresso della sala e, discesi i dieci gradini che portavano all’ingresso principale, l’accostò con delicatezza, quasi avesse già smaltito tutta la sua rabbia in pochi secondi, e si diresse verso la piazza.
Carmela si ritrovò abbracciata alla pentola, ormai vuota, che aveva appena portato a tavola. Avrebbe voluto piangere, ma tutto si era svolto in modo così repentino che l’unica reazione a quella scomoda e ridicola posizione fu una sonora ed isterica risata.
"Alla faccia di quel farabutto di mio marito e di quella puttana di Annina!", esclamò, bevendo un mezzo bicchiere di vino che si era miracolosamente salvato dalla furia bestiale di don Turiddu.
 

Cap. 5



Intanto che il sarto nervosamente imbastiva la fodera d’una giacca con del filo bianco, teneva banco e controbatteva alle insinuazioni dei suoi due giovani aiutanti. Sosteneva che quella povera ragazza, rimasta orfana per la seconda volta, andava aiutata nel migliore dei modi, ed un paese civile come Balatazza avrebbe dovuto attivarsi per farle rintracciare i suoi veri genitori. I due, invece, erano convinti che era tempo sprecato, perché, se mai esisteva veramente in paese chi l’aveva messa al mondo, mai e poi mai, costui, sarebbe uscito allo scoperto.
"Per farsi prendere in giro da tutti? Se non hanno avuto coraggio allora, pensate adesso! Lei, che ha sempre una risposta pronta per tutte le evenienze, al loro posto cosa farebbe, caro don Cirasa?", sostenevano i due impertinenti, in vena di prendere in giro il loro capo.
"Ma che domande sono queste? Non vorrete farmi passare per uno che se ne va in giro a seminare figli! Ne ho avuti due e mi sono bastati, per tutti i guai che mi hanno fatto passare. Io a vent’anni avevo già messo la testa a posto, ed andavo a giornata da mastro Carrubba. Sostengo solamente che bisognerebbe fare qualcosa per aiutarla".
"Perché allora, non va lei a parlare con don Turiddu? Lo sa bene che si dice in giro che sia figlia sua e d’Annina!", ribattevano i due giovani.
"Secondo me, se don Turiddu sostiene, come so per certo, che quella non è figlia sua, c’è da credergli: con tutto il bene che voleva e vuole ad Annina, credete che sia capace di dire il falso? Quello, della moglie sua se ne fotte, ed altrettanto del marito di Annina, quel povero parassita. Se fosse figlia sua, come tutti dicono, con tutti i soldi che possiede, potrebbe benissimo prendere Annina e quella ragazza sottobraccio ed andarsene via da questo paese. Se non lo fa, è perché ha i suoi buoni motivi", disse seccato il sarto, con l’aria di chi conosce notizie riservate, e che, per essere un po’ più loquace, vuole essere stuzzicato a dovere.
"Certo che ha dei buoni motivi!", lo interruppe uno dei due, "Si fotte Annina come e quando vuole, sotto gli occhi di tutti, lasciando per fesso il marito e riempiendo di botte sua moglie. Ed è sempre più riverito da tutti".
"Basta!", urlò don Cirasa irritato, "Hai cominciato appena ieri ad andare da mastro Peppino per farti la prima barba, e vuoi dare lezioni ad uno come me che conosce tanti segreti di questo paese? Cosa credi che mi racconti don Turiddu quando viene a prendere le misure, e viene spesso, del suo nuovo vestito? Ti dico che quella ragazza non è figlia sua! Ha uno zio prete, don Giovannino, che a suo tempo bazzicava dalla Curta: e allora? Quanta gente trafficava con la Curta, pace all’anima sua? Diciamo allora che quella ragazza, Filomena, sia figlia di don Giovannino e non ne parliamo più!".
Nella foga del concitato discorso si era punto un dito con l’ago, perciò, lanciata su una sedia la giacca che stava sistemando, era corso alla ricerca di un po’ di garza per asciugare qualche goccia di sangue. Calmatosi, era tornato al suo posto di lavoro, e aveva ripreso a cucire col dito bendato per non sporcare il vestito di don Tatà.
"Io l’avrei un’idea!", disse l’altro aiutante per gettare un po’ d’acqua sul fuoco. "Si mormora di Rosetta, la signorina tutta casa e chiesa, la perpetua insomma. Ai tempi pare che facesse scintille con quel signore che di tanto in tanto torna in paese dall’America".
"Chi, Vincenzo? Anche lui è nella lista. Pensandoci bene i conti potrebbero tornare", intervenne il sarto che sembrava avere dimenticato l’impertinenza del suo aiutante. "Ricordo che filavano, quando frequentavano il liceo. Ma se tiriamo in ballo gli amori di gioventù dei nostri paesani, facciamo notte prima di elencarli tutti. Dubito che la nostra signorina Rosetta sia rimasta vergine, con tutte le avventure che le vengono attribuite, ma dubito anche che possa avere avuto una figlia con Vincenzo. Baci e abbracci sì, ma nulla di più. Quella, le vere avventure le ha avute dopo, quando Vincenzo era ormai lontano mille miglia dalle sue gambe. Se c’è una cosa che non riesce a capacitarmi di Rosetta, è il suo fervente misticismo, dopo una vita tanto libertina".
"Voi sembrate seduto al banco dell’opposizione. Dite sempre no, quella no, quell’altra non c’entra, bocciate sempre tutto. Voi che conoscete ogni cosa, non potreste farci sapere finalmente chi, secondo voi, potrebbe essere la madre di Filomena? Nota la madre, potremo darci da fare a cercare il padre", disse l’aiutante che si sentiva ferrato su quell’argomento e non voleva darsi per vinto.
"Dici bene, caro Daniele, dici bene! Ma é una questione di cultura: te la sentiresti, come fanno in certi paesi del sud America, d’impiccare una persona per il solo sospetto che abbia rubato una banana? Io no! E qui sta la differenza, la cultura: certo che ho un’idea ben precisa! Te la farò sapere quando avrò avuto tutte le prove inconfutabili", gli rispose con un sorriso ironico il sarto don Cirasa, che aveva cominciato a disfare le cuciture andate di traverso, come quella maledetta discussione.
"Chissà dove andremo a finire con le vostre teorie innocentiste: il vostro garantismo ci porterà nella tomba prima del previsto. Ormai chi resta in galera? Non certo chi ruba miliardi o spara e uccide, ma chi si appropria di un grappolo d’uva o di qualche uovo dal pollaio del vicino. Le galere pullulano di drogati se pizzicati con qualche grammo di droga in tasca, perché ritenuti spacciatori, mentre chi riesce a dimostrare che quella droga la teneva per uso personale, i ricchi cioè, vengono messi immediatamente fuori. Venite a parlarmi di prove, cercate le prove che non si trovano mai, ed intanto i mafiosi, ritenuti tali a furor di popolo, continuano nei loro traffici e circolano indisturbati a fare sgarbi ed incutere paura. Se questo è il vostro garantismo, lo rifiuto, caro don Cirasa! Le prove inconfutabili di cui parla, non le troverà mai e poi mai!", esplose il lavorante, rosso di bile.
Don Cirasa, punto nel suo orgoglio da quelle pungenti parole, e offeso nel suo amor proprio, buttò per aria i suoi piccoli occhiali, si liberò del metro che teneva sempre intorno al collo, lanciò contro il suo blasfemo aiutante la giacca che stava imbastendo, e, bianco di rabbia a stento repressa, mugugnando parole incomprensibili, si ritirò in un angolo battendo ritmicamente i piedi per terra, mentre su tutto il locale scendeva un silenzio di tomba!
Così come animatamente si discuteva dal sarto, si chiacchierava dal barbiere, nei caffè e persino dal falegname, tra il rumore fastidioso della sega elettrica e l’odore piccante della vernice alla nitro. L’oggetto della discussione, ovviamente, era sempre la presenza in paese di Filomena, e l’attribuzione di paternità ad Annina e don Turiddu, a Vincenzo e Rosetta, ed a tanti altri.
In quei giorni in paese, a quella storia se n’era accavallata un’altra di natura diversa. Nei pressi della Chiesa era stata eretta una statua di bronzo a Padre Pio: un bel monumento circondato da un’aiuola ricca di piante e fiori. Sostenitore e principale artefice del monumento era stato don Peppino, fanaticamente devoto di quel monaco dalle stigmate, al quale attribuiva ogni miracolo che accadeva non solo nel paese ma in tutto il circondario.
"Sapete dell’ultimo miracolo avvenuto l’altra notte?", disse un lavorante al suo mastro d’ascia e di raspa.
Mastro Peppe, comunista e miscredente da sempre, era intento a segare una gamba ad una sedia; non rispondeva, facendo finta di non sentire. Per convinzione non poteva credere ai miracoli, tantomeno a quelli paesani. Per lui l’unico e vero miracolo era di tirare fino a sera, e riuscire a guadagnarsi la giornata: costruiva armadi e librerie, lucidava tavoli e restaurava vecchi mobili, nel tentativo di farli diventare antichi e ridare loro il fascino dei tempi andati.
"Don Peppino dice che sul ginocchio sinistro di Padre Pio sia spuntata una figura che assomiglia alla faccia di Cristo. Si vedono gli occhi, il naso e la bocca. L’ho visto anch’io, e vi assicuro che fa un certo effetto!", ritornò alla carica il lavorante.
Il falegname, data l’insistenza del garzone, lo degnò appena di uno sguardo, sbuffando, come per dire: "Proprio a me vieni a raccontare simili storie? Lo sai che non ci credo!". Poi, pensandoci bene, per non sembrare scortese, gli rivolse la parola:
"Visto che insisti, appena mi capita di passare da quelle parti, vado a curiosare anch’io. Ma c’è una cosa però che non mi convince: perché hanno fatto una statua a Padre Pio, quando abbiamo il nostro Cardinale Guarino, in attesa di essere beatificato? Per lui dovremmo tifare e sperare che faccia presto qualche miracolo! Altrimenti, quando lo vedremo santo?", gli disse il mastro, con piccante ironia, diventato d’un tratto loquace.
Il lavorante rimase senza parole, quasi sconvolto dalla improvvisa resipiscenza del mastro, e non se la sentì di replicare. Il mastro, incuriosito, più per controbattere alle dicerie dei paesani che per convinzione personale, la stessa sera, facendo bene attenzione a non farsi notare, si recò nei pressi della statua, ne esaminò con attenzione il ginocchio sinistro, lo controllò da diversi punti d’osservazione. E rimase sbigottito nel constatare come effettivamente si intravedeva una figura umana, ed anche una folta barba, oltre a quanto gli era stato riferito. L’indomani gli capitò d’incontrare don Peppino, e glielo fece presente che anche lui aveva visto l’immagine prodigiosa di cui tutti parlavano con meraviglia e devozione.
"Mi prendi in giro, mastro Peppe? Sei forse diventato credente? Si vede che il santo ha fatto un altro miracolo! E di un altro miracolo avremmo veramente bisogno: che faccia ritrovare i veri genitori a quella povera ragazza", gli rispose don Peppino, col suo faccione allegro e sorridente.
"Il fatto è", gli disse il mastro, il naso grondante ardente furore politico colore del vino, "Che voi su quel ginocchio ci vedete l’immagine di Cristo: e vi sbagliate, caro don Peppino! Ma non vedete che quella faccia é di Che Guevara, il mitico combattente sudamericano? Ho notato persino la sua folta barba ed il classico berretto da combattente! Il grande Che, dal viso dolce e romantico, ma carismatico, che ha combattuto contro le dittature militari nell’America Latina, e che oggi finalmente riposa a Santa Clara, a Cuba, dove vinse la più importante battaglia della rivoluzione cubana, e da lì continua a sorridere. Il tempo non sembra avere contaminato né diluito l’incredibile fascino che esercitava il comandante Guevara. Il Che, è tuttora quel Cristo senza Dio che predicava l’Uomo Nuovo. Imbalsamato dalla retorica ufficiale, quando ancora era in vita, ma mai mummificato, forse proprio grazie alla sua coraggiosa auto ironia. Un combattente bohemien, disordinato e caotico ma, paradossalmente, disciplinato e puntuale. Una miscela di grande umanità e di estrema durezza, un uomo capace di grandissimi gesti d’amore e di una freddezza degna di un ghiacciaio della Patagonia. Inflessibile con la debolezza altrui e ancora più severo con la propria, grande intellettuale, quasi un monaco ossessionato da una rivoluzione che non è mai divenuta mondiale, come sognava lui, ma che si è fermata là dove aveva avuto inizio grazie anche a lui, un sognatore che ha sempre creduto in un estremo valore: il sacrificio. Non tutte le epoche e le circostanze richiedono lo stesso metodo e la stessa tattica di lotta, ma noi seguiremo sempre il suo fulgido esempio, caro don Peppino! Niente era impossibile per lui, e l’impossibile, lui, era in grado di renderlo fattibile. Al grande Che, dovremmo erigere una statua di bronzo!".
"Come fai a confondere il volto di Cristo col tuo Che Guevara? Miscredente eri, e miscredente rimani!", fu la risposta di don Peppino che, rosso in faccia, contrariato dalla battuta blasfema del mastro d’ascia e disorientato dalle complicate parole su di un personaggio che non gli andava proprio a genio, si allontanò senza avere la forza di replicare oltre.
"Scappate, scappate pure! Ma andate a controllate bene la folta barba ed il berretto da combattente del grande Che Guevara!", lo inseguì a parole Peppe, il mastro d’ascia di Balatazza.
Evidentemente, altri erano i pensieri di don Peppino, in quel momento, che pensare ad una statua di bronzo, di cui andava fiero per fede e devozione.
Dopo la fuga di notizie, che nel volgere di poche ore avevano fatto il giro del paese, Filomena si era trincerata in casa di don Calò. Carmelo, che intendeva agire con astuzia e discrezione, era stato tradito dall’ansia di risolvere il caso in fretta, ed era stato sufficiente farsi vedere in compagnia di Filomena per scatenare il putiferio. Mezza parola detta all’amico e l’altra metà a Ginetta, erano bastate a comporre un mosaico che neanche un abile poliziotto avrebbe saputo fare meglio, in così poco tempo. Cosicché quella ragazza, nel volgere di una mattinata, si ritrovava miracolata non una ma dieci volte, tanti erano i probabili genitori che le venivano attribuiti. Che poi equivaleva a nessuno!
"Come mai Carmelo oggi non è venuto a fare lezione?", chiese il Direttore alla segretaria della scuola.
"Non lo sa, signor Direttore? Carmelo è indaffarato con quella ragazza, Filomena, giunta stamani in paese in cerca dei suoi genitori. Ha chiesto un giorno di permesso, ma temo che non gli basterà un’intera settimana per sbrogliare una matassa così intricata".
"Si è messo a fare il poliziotto, il nostro maestro? Perché non lascia che sia qualcun altro ad occuparsi di questa faccenda, i carabinieri, per esempio".
"Buoni quelli! Non hanno tempo per cercare i ladri di polli, in questo paese, e pretende che si mettano alla ricerca di chi ha messo al mondo Filomena?", rispose con ironia la segretaria.
"Carmelo al massimo riuscirà a fare il pettegolo, in questa faccenda, altro che il poliziotto! Si rivolga al Sindaco, al Parroco, all’assistente sociale! Che può saperne un maestro di queste cose?", continuò il Direttore.
"Signor Direttore! Scartiamo i carabinieri che sicuramente diranno che non è affare loro andare a mettere il naso tra le gambe di due improbabili genitori. Il Sindaco è in Provincia per impegni improrogabili, il Parroco e soprattutto don Giovannino sono molto presi per la prossima festa del Patrono, e l’assistente sociale di cui parla, non esiste! Vuole occuparsene lei? La ragazza è ospite di don Calò, l’affittacamere".
"Povera ragazza! Da Carmelo a don Calò, come dire dalla padella alla brace! Vado a vedere di che si tratta, e tra mezz’ora spero di essere di ritorno".
Il Direttore era una persona grassoccia, di bassa statura e con una folta barba nera che faceva evidente contrasto coi suoi capelli ormai bianchi: si chiamava don Caciotta, e questo nome ben si addiceva alla sua figura. Non si capiva s’era stato il suo nome a condizionarne lo sviluppo fisico; ma se avesse dovuto scegliere il nome da grande, a sviluppo avvenuto, non avrebbe potuto trovare attributo più consono al suo aspetto. Più curioso e pettegolo di Carmelo, si avviò verso la casa di don Calò per fare la conoscenza di quella ragazza.
"Deve avere coraggio da vendere, questa Filomena", pensava il Direttore mentre, varcato il cancello della scuola, si avviava verso la piazza. In pochi minuti la segretaria l’aveva reso edotto dei particolari piccanti di tutta la storia, dei pettegolezzi volati di porta in porta, dei litigi, delle attribuzioni di paternità più o meno fantastiche. Non sapeva cosa andasse a fare da don Calò, ma, visto che tutte le altre autorità latitavano, era suo dovere intervenire. Se poi si fosse presentato un caso disperato, avrebbe anche potuto aiutarla con un piccolo incarico, dal momento che il Provveditore si ostinava a non mandare una supplente e lei diceva di essere una maestra. Un caso eclatante, oltre che interessante, come questo non gli era mai capitato, e già pensava di trarne spunto per un dibattito coi suoi alunni, sicuramente più fortunati di Filomena. Non era affare di tutti i giorni che una ragazza si presentasse in piazza dicendo: "Sono qui! I miei genitori si facciano avanti!". Comprensibile, quindi, il clamore che questa vicenda stava suscitando in paese e fuori. Sconsolato, meditava in che razza di mondo vivesse, dove una bambina appena nata poteva essere ceduta, anzi venduta, con la complicità di una megera e forse addirittura di un prelato, come andava mormorando certa gente. Si chiedeva chi potevano essere i genitori, e quale storia d’ignoranza e di miseria si celava dietro una faccenda così triste. Passò velocemente in rassegna tutte le ipotesi che, secondo il suo punto di vista, potevano portare ad una soluzione dell’enigma, che, da uomo arguto e riflessivo qual era, non gli sembrava di agevole soluzione. Andò indietro di vent’anni con la memoria, scartò le famiglie di buona e media condizione sociale, esaminò le più misere, dov’era problematico procurarsi il pasto quotidiano e più facile quindi disfarsi di un figlio non voluto, in cambio di poche lire. Ce n’erano tante con oltre sei figli, con abbondante fame e miseria, ma nessuna che in passato avesse dato motivo di dubbio comportamento. I figli li facevano nascere in casa propria, con tanto di pubblicità ed allegria, anche se ignari dei guai che sarebbero arrivati da lì a poco. Arrivò alla conclusione che quella ragazza dovesse essere il frutto o di un rapporto adulterino o di due giovani amanti che, per celare uno scandalo, avevano preferito affidare ad una coppia sterile il risultato non voluto del loro rapporto. E qui le cose si complicavano, poiché la sua analisi contemplava tutt’e due i casi. Quante volte occhi indiscreti, da dietro le persiane socchiuse, avevano visto penetrare furtivamente questo o quell’altro in casa di tal altra? E quanti studenti avevano fatto coppia fissa, negli anni di liceo o delle magistrali della provincia, lontani quindi dalla vista aguzza e penetrante dei paesani? Non potevano essere stati due di quegli sconsiderati ad avere fatto un figlio, per poi abbandonarlo nelle mani senza scrupoli della Curta? Un bel problema, a cui solo un mago avrebbe potuto dare adeguata soluzione. Oppure una mente dalla lunga e acuta memoria storica! Aveva trovato ciò che cercava: mastro Cilecca! A giudicare dal nome, non gli si poteva attribuire molta fiducia ma, in base ai risultati, dimostrava di saperne sempre una più del diavolo. A volte faceva cilecca, come stava a significare il suo nomignolo, ma molto spesso azzeccava in pieno. L’importante era porgli il quesito nel modo opportuno, andando diritti al cuore del problema, senza dargli modo di sproloquiare e di girare intorno all’ostacolo. A chi gli chiedeva notizie di certi fatti, era solito dire:
"Ponetemi una domanda precisa e concisa, ed altrettanto precisa e concisa sarà la mia risposta!".
Visto che della storia di quella ragazza ormai conosceva elementi sufficienti, giunto a metà della piazza, anziché proseguire verso l’abitazione di don Calò, decise di recarsi a casa di mastro Cilecca, per mettere alla prova le sue conoscenze ed i suoi ricordi e, perché no, anche la sua arte divinatoria. Don Caciotta non credeva a simili sciocchezze, ma in una situazione del genere anche un semplice suggerimento poteva avere la sua importanza, poteva essere uno spunto per dirigere le indagini in una direzione anziché verso un’altra. Attraversò la via dei Santi, e s’inerpicò verso la parte alta del paese, cominciando a salire, con passo lento e cadenzato, i cento gradini che una volta portavano alla vecchia scuola elementare. Quanti ricordi affollavano la mente di don Caciotta! Si rivide bambino salire per quella gradinata infinita d’un fiato, con la cartella di cartone tra le mani, ricordò i chiassosi compagni di quel tempo, il maestro burbero e severo, dai baffetti brizzolati, che tutte le mattine sembrava aspettasse le sue piccole vittime con la bacchetta tra le mani. A metà gradinata svoltò a sinistra, e dopo pochi passi si ritrovò davanti l’abitazione di mastro Cilecca. Bussò due volte a quella porta fatiscente e quasi cadente, con molta delicatezza, nel timore che quel portone, che sembrava appena accostato, gli rovinasse addosso.
"Cercate me, per caso, signor presidente?", disse una vocina alle sue spalle.
Don Caciotta si girò di scatto, e vide che la persona che cercava se ne stava tranquillamente seduta su una specie di panchina in muratura a prendere il sole, le spalle appoggiate al muro e le braccia allungate sulle gambe, in posizione di relax. Dimesso all’aspetto e nel vestire, portava dei lunghi capelli bianchi che cadevano disordinatamente sulle spalle, e, quel che faceva impressione a prima vista, due occhi rossi e spiritati che sembravano dovessero uscire dalle loro orbite da un istante all’altro. Le sue dita affusolate, fornite di lunghe unghie nere di sudiciume, quasi artigli d’aquila pronta a ghermire una preda, poggiavano divaricate sulle sue gambe distese in avanti. Il suo aspetto, da stregone satanico, era completato da un paio di scarpe a punta, che in origine dovevano essere bianche, e che sembravano recuperate dal vecchio repertorio di don Tatà Lima. A vederlo in quella posizione, don Caciotta, che non si aspettava che gli si presentasse alle spalle, rimase impressionato, ma si riprese subito scusandosi del disturbo che gli arrecava.
"Nessun disturbo!", mormorò mastro Cilecca. "Ne hai fatta di strada, da quando ti vedevo salire questa gradinata da bambino! Adesso che sei il presidente della scuola di Balatazza, sei una persona importante. Posso esserti utile in qualche cosa?".
"Mi ricordo sempre di voi, mastro Cil…. ", rispose don Caciotta, farfugliando qualcosa d’incomprensibile, appena si rese conto della gaffe che stava facendo. Tutti lo chiamavano mastro Cilecca, ma era un soprannome un po’ offensivo, per uno che si riteneva mezzo mago e indovino.
"Chiamami pure Cilecca!", intervenne il vecchio con fare distaccato, "Ormai non mi offendo, né mi meraviglio più di tanto. La gente parla e sparla, ma poi alla fine si presenta qui per avere consigli e conferme ai propri dubbi. Non pretendo d’essere infallibile come un Papa, quando parla seduto, ma dico le cose che sento e che credo di conoscere. Immagino sia venuto da me per qualche informazione, caro presidente della scuola di Balatazza", finì mastro Cilecca con un sorriso che gli si era improvvisamente stampato in faccia.
Sentirsi chiamare presidente della scuola di Balatazza con fare sardonico cominciava a dargli un po’ di fastidio. Ma poiché mastro Cilecca era un personaggio tutto particolare e s’era recato da lui per un motivo preciso ed impellente, non era il caso di prendersela più di tanto.
"Mi deve scusare se sono venuto a disturbarla, ma …." Cominciò don Caciotta.
"Minchia! Che sei sordo? Ti ho appena detto che non mi disturbi affatto! Vai al sodo! Oppure vuoi che parli io per tè! Scommetto che sei venuto a chiedere notizie di una certa Filù o Filomena, così ricordo l’abbiano chiamata a suo tempo", l’apostrofò mastro Cilecca.
Don Caciotta, permaloso e facilmente irascibile, diventò rosso come uno di quei peperoni che la moglie teneva sul balcone a stagionare, e che esposti al sole diventavano sempre più rossi e piccanti. Avrebbe quasi voluto mollare mastro Cilecca e Filomena, e tornarsene ai suoi impegni di scuola. Però, se quel diavolo spiritato aveva fatto il nome di quella ragazza senza che lui glielo avesse chiesto, era evidente che qualcosa doveva pur sapere, visto che sembrava avesse letto nei suoi pensieri. Fece finta di niente e continuò il suo discorso interrotto a metà, tralasciando le scuse ed i preamboli.
"Avrei bisogno di notizie su quella ragazza di cui lei stava appena parlando. Oggi è giunta in paese, e dice di essere alla ricerca dei suoi veri genitori. Lei, che di queste cose se ne intende, sa dirmi qualcosa?", disse d’un fiato don Caciotta per non farsi interrompere.
"Questo sì che si chiama parlare chiaro! Una domanda precisa, alla quale potrei dare una risposta altrettanto precisa. Ma vedi, caro don Caciotta, non sempre é così facile dare risposte adeguate a certe domande. La gente viene da me a chiedere le cose più strane e strampalate, per curiosità o per sfizio personale, credendo che io sia un mago, uno che legge nel futuro. Tu che sei una persona intelligente ed istruita, nientemeno che il presidente della scuola di Balatazza, queste cose le capisci bene. Se uno viene a chiedermi tre numeri da giocare al lotto, io i numeri glieli do volentieri con la furba avvertenza che, se non dovessero essere estratti subito, vanno giocati più volte di seguito. Per il calcolo delle probabilità, prima o dopo quei numeri saranno estratti dall’urna, e così quei signori torneranno da me a ringraziarmi per averli ben consigliati. A te, che stimo e rispetto, non posso raccontare fandonie, non voglio dire ciò che non so per certo. A meno che non ti accontenti anche tu delle mie sensazioni e dei miei ricordi. Ho davanti agli occhi il trambusto che successe vent’anni addietro a casa della Curta. Intervenne la levatrice per fare partorire una donna, portata lì nottetempo e coperta dalla testa ai piedi per non farsi riconoscere, fu chiamato il medico perché c’era stato un principio d’infezione, fu chiamato addirittura un prete: non si capì bene se per un’estrema unzione o per una assoluzione dei peccati dei presenti. Però il via vai di quella tunica nera, fai bene attenzione, c’era stato anche nei giorni precedenti! Tutto fu fatto nel massimo segreto, con discrezione: se ne parlò per qualche tempo e poi tutto cadde nel dimenticatoio, come succede spesso in questi casi. E poiché il medico e l’ostetrica sono morti, la Curta se n’è andata anche lei, e la mamma e la bambina sono sparite nel nulla, adesso è difficile stabilire la verità. Allora si vociferò di una bambina morta appena nata. Ma io so per certo che quella bambina era nata sana e robusta, e che era stata fatta sparire. Adesso quella bambina, Filù o Filomena come la vuoi chiamare, è tornata in cerca della madre".
"Che fine ha fatto la tunica nera di cui parla, il prete insomma?", disse agitato don Caciotta.
"E qui sta il rebus! Don Giovannino non ha mai voluto parlare e non parlerà mai, per via di una certa confessione cui si sottoposero tutti gli interessati: così dice lui! E tu, che sei uomo di cultura, sai cosa sono i segreti professionali: un prete ed un avvocato non riveleranno mai i peccati dei loro assistiti! Come vedi, ti ho raccontato tutta la storia", concluse mastro Cilecca.
"Lasciamo perdere il padre, su cui comincio ad avere qualche idea, ma la madre? Ci sono tante voci in giro. Si parla di Annina, di Rosetta, e di tante altre che all’epoca potevano avere tante occasioni per fare un figlio non voluto. O dobbiamo tirare ad indovinare!".
Mentre don Caciotta parlava, mastro Cilecca s’era alzato, ed entrato in casa n’era subito uscito con una bottiglia di vino e due bicchieri.
"E’ il vino di don Giovanni, il migliore del paese", disse invitando don Caciotta ad accettarne un goccio. Questi, astemio da sempre, declinò gentilmente l’invito, ed intanto che riempiva il suo bicchiere, mastro Cilecca, che non aveva perso una virgola della domanda del presidente della scuola, continuò:
"Indovinare? Non ti dice nulla la conversione di una sgualdrina e la sua assunzione come perpetua? Possibile che in questo paese avete dei paraocchi come l’asino di zi’ Carminu Murialìaddu? Quello, poverino, gira e rigira caparbiamente dalla mattina alla sera intorno al pozzo alla Cuba, tirando su acqua per riempire la grande vasca, e non può vedere ciò che succede nelle vicinanze. Anche voi girate come asini bendati intorno alla bella Annina, che non c’entra nulla in questa storia, e perdete di vista la cosa essenziale. Studiate per diventare dottori e presidenti, e poi venite ad elemosinare pareri e notizie, che sono i fatti della vostra vita, ad un povero mago indovino, che per dileggio soprannominate Cilecca!", sentenziò il mastro, alzando il bicchiere, colmo di vino rosso, in segno di brindisi e mandandolo giù in un solo sorso.
Don Caciotta, infastidito e quasi offeso da quelle frasi che alle sue orecchie suonavano come un feroce insulto, fece un gesto di stizza col braccio verso mastro Cilecca e tornò sui suoi passi, ripercorrendo la scalinata, questa volta in discesa, verso la grande piazza e quindi verso il nuovo Istituto scolastico.


 
Cap. 6


Fatto inconsueto, nelle prime ore del pomeriggio in piazza si notava una certa animazione. Parecchie persone facevano capannello nei pressi dell’ex casa di Donna Letizia, ed altre ancora ne giungevano da ogni parte ad ingrossare il gruppo già abbastanza consistente. Uno in particolare, al centro dell’assembramento, Pasqualino, gesticolava indicando la via principale e con fare concitato stava raccontando il fattaccio avvenuto pochi minuti prima.
"La mia casa è situata proprio di fronte a quella della bella Annina. Avevo appena finito di pranzare e stavo gustando un bicchierino d’amaro Averna, quando sentii il rumore di una macchina avvicinarsi al portone per poi subito dopo fermarsi. Incuriosito, mi affacciai alla finestra e notai che da quella macchina, pur essendosi fermata, nessuno scendeva, come sarebbe stato logico; anzi, mentre il motore continuava ad andare, udii distintamente due colpi di clacson. Pensai fosse qualcuno che cercava il marito d’Annina, e quindi rientrai in casa a prendere la tazzina di caffè che mia moglie aveva appena preparato".
"Fesso!", l’apostrofò uno del gruppo, "Quello cercava Annina, altro che il marito! Si vede che il bicchiere d’amaro t’aveva dato alla testa!", suscitando l’ilarità di tutti i presenti.
"Certo che cercava Annina! Non sono tanto fesso come pensi tu!", continuò Pasqualino per nulla intimorito da quelle risate. "Infatti Annina, quel gran pezzo di donna, che da anni mi ritrovo stampata negli occhi e nel cervello, s’affacciò al balcone e fece un segno di diniego con la mano alla persona che se ne stava in macchina, e mimò con la bocca come per dire: non ora, torna più tardi! L’uomo che attendeva in macchina suonò ancora una volta il clacson, e, non vedendola ricomparire sul balcone, aperto lo sportello, si diresse come una furia contro il portone d’Annina, aprendolo con una spallata. Fin qui è ciò che ho visto coi miei occhi, perché quello che successe dentro non lo so. Ho sentito urlare Annina, urlava pure il povero marito, e soprattutto l’intruso che sembrava infuriato come un toro, a giudicare dal trambusto che s’udiva dalla finestra spalancata".
"E tu te ne stavi tranquillo alla finestra a guardare che il toro "si facesse" Annina? Non potevi intervenire? Magari, approfittando della confusione, avresti potuto finalmente allungare le mani e lustrarti gli occhi, dopo anni di sospiri e desideri repressi!", disse il saputello di prima, che sembrava volesse sfottere il povero Pasqualino.
"Sono sceso, infatti, per cercare di sedare la lite. Solo che quell’uomo, aveva già trascinato Annina per le scale e la stava depositando in macchina; non ho capito bene se lei si opponeva, o faceva finta di resistere. Insomma la cosa mi è parsa un po’ combinata!".
S’interruppe un istante per tirare un fazzoletto dalla tasca ed asciugarsi i sudori che ancora grondavano abbondantemente dalla fronte.
"Certo ch’era tutto combinato! Non si fa irruzione in casa di una donna sapendo che c’è il marito ad attenderti. Ma si può sapere chi era quell’uomo o deve restare un segreto?", domandò un altro dei presenti, morbosamente incuriosito, che stava seguendo attentamente tutto il racconto di Pasqualino.
"Se non l’hai capito, o non abiti a Balatazza, o sei proprio un minchione! Chi poteva essere se non don Turiddu, il suo amante di sempre! Ma il bello deve ancora venire. Don Turiddu con la sua amante a bordo stava per avviarsi, quando dall’angolo sbuca la moglie Carmela, che evidentemente aveva intuito le intenzioni del marito: avresti dovuta vederla, poverina, com’era rossa di rabbia! Si pianta davanti alla macchina, con le braccia ai fianchi, per impedire che i due prendano il largo, lanciando insulti contro Annina la puttana, così la definiva, urlando. A quella scena inaspettata, don Turiddu salta giù dalla macchina, e con uno spintone butta a terra la moglie Carmela, e via di corsa di là, verso la via dei Santi, con l’amante al suo fianco che finalmente poteva tirare un sospiro di sollievo!", gesticolava Pasqualino ed indicava la strada, mentre i presenti lo seguivano attentamente cogli occhi.
"La cosa buffa e divertente avvenne poco dopo perché, mentre Carmela era ancora a terra, arrivava di corsa dalle scale il marito d’Annina, il quale, poveraccio, altro non poté fare che aiutare la sventurata a rialzarsi ed a rimetterla in sesto. Chissà cosa avranno mormorato quei due poveri cornuti, in quel frangente! Quindi, presa Carmela sottobraccio, l’accompagnai a casa, dove mia moglie provvide a farla calmare con un bicchiere d’acqua", finì di raccontare Pasqualino.
"Così i due piccioni, finalmente, ce l’hanno fatta! Chissà in quale pagliaio si saranno rifugiati", commentò uno dei presenti che, alla sola idea che i due fossero già stretti in amplessi peccaminosi, traboccava di libidine.
"Altro che pagliaio! Quelle sono persone raffinate: li hanno visti dirigersi verso Racalmuto, in cerca di un albergo", sentenziò un altro che, in quanto a fantasia, non era secondo a nessuno.
La povera Filomena o Filù, come aveva detto mastro Cilecca, dopo la visita alla Curta assieme a Carmelo, era rimasta rintanata in casa di don Calò e non aveva avuto il coraggio di farsi vedere in giro per il paese. I curiosi che già se la mangiavano con la fantasia, l’avessero incontrata per strada l’avrebbero sbranata e fatta a pezzi cogli occhi. Almeno in questo Carmelo era stato previdente, dopo l’iniziale sortita e la sua grande fiducia di risolvere il caso in quattro e quattr’otto. Ed alle sue orecchie giungevano tutti i commenti del paese e tutte le ipotesi che la fervida e sfrenata inventiva della gente riusciva a creare. Neanche le notizie avute dalle persone a suo avviso serie e che potevano essere informate del fatto, contribuivano a sistemare la matassa che, col passare delle ore, anziché districarsi s’ingarbugliava ancora di più: mai in paese ad una ragazza erano stati attribuiti tanti padri e tante madri! Carmelo, che aveva chiesto un permesso, si recò da don Caciotta per spiegare i motivi che l’avevano indotto ad assentarsi momentaneamente dalle lezioni. E, di comune accordo, decisero di fare due passi per discutere con calma su come stavano andando le indagini.
"Caro don Caciotta", gli disse con aria costernata, "La cosa si fa veramente seria! Quella povera ragazza sta patendo le pene dell’inferno, e nessuno in questo maledetto paese che sia disposto a darle veramente una mano. Non so più a chi rivolgermi, e non mi resta che consigliare a Filomena di prendere l’ultima corriera per la provincia. Ha saputo la vicenda d’Annina e don Turiddu? Sono scappati proprio adesso che tutti li indicavano come i veri genitori della ragazza. E se prima avevo dei dubbi, adesso anch’io comincio a propendere per questa ipotesi".
"Non potevi dire minchiata più grande! Quei due sono scappati non da Filomena, ma dalle rispettive famiglie. Lo sai che da sempre erano amanti e che se la facevano alle spalle di Carmela e del povero marito di Annina. Finalmente hanno trovato il coraggio di andarsene per i fatti loro. Stamattina ho parlato con mastro Cilecca, e devo dirti che, nonostante la sua stramberia, è riuscito ad aprirmi gli occhi su certi fatti. Mi ha parlato di tuniche nere e di perpetue: e più di così non posso dirti!", gli rispose il presidente della scuola di Balatazza.
"Adesso capisco!", mormorò Carmelo portandosi la mano destra alla fronte, in segno di resipiscenza, con conseguente meraviglia. Ci fosse stato un muro nelle vicinanze, vi avrebbe sbattuto la testa. "La tunica nera di cui mi parlava Tanuzza la Curta! Altro che confessione ed estrema unzione, quello era lì a dare ordini e disposizioni. E chi glielo va a raccontare alla povera Filomena? Io no di certo! Se lei, che in questo momento rappresenta l’autorità del paese, ha il coraggio di farlo, l’accompagno immediatamente dalla ragazza che si trova a casa di don Calò".
"Io sono dell’avviso di non riferirle nulla di quanto abbiamo scoperto, e soprattutto di non fare trapelare la notizia: sarebbero guai e scandali a non finire", concluse don Caciotta, con aria seria da mortorio.
"Salute a tutti!"!
I due, che stavano discutendo con aria da congiurati, si girarono di scatto e videro che si era avvicinato Michele, un loro vecchio conoscente. Piccolo, minuto e leggero com’era, aveva manifestato la sua presenza solo quando era già a ridosso di Carmelo e di don Caciotta, che ebbero l’impressione d’essere stati spiati nei loro discorsi. Lo chiamavano Michele Tre Dita perché effettivamente solo quelli gli erano rimasti dopo l’esplosione di quella maledetta granata, nell’immediato dopo guerra, curiosando tra i rottami che le armate avevano lasciato in ogni angolo del paese. Non aveva trovato un lavoro adatto alle sue condizioni fisiche, per cui s’era dato al contrabbando di sigarette ed accendini. E girando di porta in porta, era diventato il confidente di tanti, aveva conosciuto storie e situazioni particolari, in paese e fuori. Una simpatica e brava persona, capace di presentare raccomandazioni e procurare un lavoro onesto a chi gli si rivolgeva con fiducia, nonostante la sua professione ai limiti della legge ed il suo andirivieni dalle patrie galere. Portò avanti le tre dita stracariche di anelli, e strinse affettuosamente la mano ai due, come meglio poté.
"E tu da dove sbuchi, diavolo d’un contrabbandiere!", l’apostrofò scherzosamente Carmelo.
"Scusate l’intrusione!", disse con fare cerimonioso e da vero gentiluomo. "Non avrei voluto intromettermi nei vostri discorsi, ma ho capito che stavate parlando di Filomena, una ragazza che mi sta particolarmente a cuore. Io ho conosciuto i suoi genitori adottivi, e l’avevo sconsigliata a venire a Balatazza, quando lessi quella specie di lettera preparata dalla sua mamma adottiva. Glielo dicevo che era una gran fesseria cercare i suoi veri genitori, e che non aveva senso, dopo tanti anni, rincorrere notizie che magari sarebbero potute risultare spiacevoli. Ma lei, ostinata e caparbia, ha voluto farlo ugualmente. Anch’io avevo intuito da tempo la vera storia di Filomena, e sono perfettamente d’accordo con voi che non é il caso d’informarla su come stanno veramente i fatti. Sarebbe uno shock per lei e per tutto il paese di Balatazza".
I due si guardarono sbalorditi. Non riuscivano a capire se Michele Tre Dita aveva letto nei loro pensieri o semplicemente aveva carpito i loro discorsi studiando il movimento delle labbra. Se così non era, allora quel filibustiere, che si presentava sotto le spoglie di un signorino elegante e gentile, era da tempo al corrente della verità!
"Sei proprio un gran figlio di puttana!", lo apostrofò Carmelo. "Noi stiamo qui a lambiccarci il cervello alla ricerca di una verità, così difficile da scoprire, e tu te ne vieni fresco fresco a fare il sapientino. Arrivi all’ora di mungere, come si dice dalle nostre parti! Se eri a conoscenza di tutta la storia, dovevi impedire che la ragazza venisse in paese a mettere in agitazione tanta gente. Lo sai quante persone sono state sputtanate dalle dicerie dei perditempo, quanti episodi, ormai sepolti da tanto tempo, sono stati riesumati, quanti dubbi sono stati avanzati su ragazze perbene? Per ultimo, le dicerie infamanti su Annina e don Turiddu, che li davano per veri genitori di Filomena, e che hanno accelerato la loro drammatica fuga".
"Buoni quelli! Ma quale fuga drammatica!", ghignò Michele Tre Dita. "Quelli, anziché ammazzarsi di botte e riempirsi di offese, dovevano sposarsi tra loro a suo tempo, quando avevano vent’anni, e non coi coniugi attuali. Lo sapevate o no che mentre erano fidanzati hanno avuto un figlio, nato morto, per loro sfortuna? E stavolta la Curta non c’entra, perché fecero tutto da soli, in una clinica della provincia. Vi giuro che non ho motivo di mentire. Quando la gente mormora ed insinua, spesso c’è sotto qualcosa di vero, come un ricordo storico, anche se non tutto va accettato ad occhi bendati, come oro colato".
Carmelo rimase ammutolito ed a bocca aperta come un baccalà, mentre don Caciotta, il presidente della scuola di Balatazza, si colorì di rosso, forse ricordandosi dei peperoni della moglie, che più li teneva esposti al sole, più si coloravano e diventavano piccanti.
E Michele Tre Dita, il contrabbandiere gentiluomo sbucato dal nulla? 
Quello rideva, rideva…..



 
Personaggi

Filomena                                Protagonista
Carmelo                                 Protagonista
Don Calò                               Bigliettaio
Donna Gigina                        Proprietaria bar
Giovanna la Curta                 Paraninfa
Tanuzza la Curta                   La figlia
Rosina                                   Comare di Tanuzza
Don Turiddu Malavitoso      Amante di Annina
Carmela                                 Sua moglie
Annina                                    La sua ex ragazza
Don Giovannino                    Prete
Don Tatà                               citazione
Santa Cucciufa 
Donna Vicenzina
Colonnello  
Ginetta  
Pasqualino  
Don Giovanni                       Produttore di vini
Vincenzo                              Studente
Rosetta                                 Fidanzata
Don Cirasa                          Sarto saputello
Mastro Peppe                      Falegname miscredente
Mastro Peppino                   Barbiere
Don Peppino                       Artefice della statua
Don Caciotta                       Direttore didattico
Mastro Cilecca                    Mago e indovino
Michele Tre Dita                  Contrabbandiere gentiluomo