I RAGAZZI di MONTE OTTAVIO
Racconto ambientato
negli anni sessanta utilizzando frasi ed espressioni di Stefano D'Arrigo
tratte dal suo romanzo HORCINUS ORCA
Un pensiero a Peppi e Totuccio che ci hanno lasciati per sempre.
LE SUSPRATE
"Che sigarette susprate?", addumannò Totuccio sdillaniato ed allupato con una taliata isterica, issando le ciglia verso il cielo che sperluciava come specchio, con al centro un sole rosso di fuoco lavico. L'avidità che guttuliava da quella semplice domanda era talmente soprapelle che non una disinteressata informazione voleva, ma carcariava una pressante richiesta d’aiuto, un "datemi da fumare perché non ne posso più", come spissiava fare.
"Palmall, suspriamo! Ne vuoi una?", gli rimandò una voce con aria babbiona e sonnolenta, lanciandogli addosso una nuvolaglia fumosa che colpì il ciuffo di capelli sparpagliandoli in aria, in modo informe. Ciuffo che
Totuccio, com'era aduso fare, con mossa repentina e meccanica riportò immediatamente in avanti a coprire la spaziosa e lucida fronte. Era un vero dilemma quel ciuffo malandrino: spostato in avanti gli lasciava nuda la lucida nuca, sistemato all'indietro lasciava intravedere una fronte spaziosa, in mezzo, sede naturale, gli dava le sembianze di un gallo cedrone nell’atto di emettere un chicchirichì.. Nel porre quella domanda, prima smorfiò con aria incredula, quindi ridacchiò d’un riso tutto
grifonesco.
Federico, senza attendere risposta di voce, poiché erano stati sufficienti un movimento di collo ed una dilatazione di guancia, seguiti da una scaccaniata
gallinacea, estratta una sigaretta dal pacchetto di Palmall ancora pieno, che barbagliava come specchio al sole per via della coloratissima confezione sigillata da una lucida pellicola trasparente, l'allungò a
Totuccio. Questi, con l'avidità di chi è a digiuno da tempo assai remoto, accarezzandosi la nuda e lucida nuca che sembrava il culo bianco di una verginella e sparpagliando all'indietro, con gesto repentino e studiato, il ciuffo di capelli scompigliati, in pochi secondi accese la sigaretta e cominciò ad emettere alte volute di fumo, per rifarsi della prolungata astinenza. Passeggiando su e giù, giù e su per la piazza, in silenzio e senza
prescia, i cinque amici assomigliavano ad uno di quei treni merci del capoluogo che, tra sibili di ciminiere e monotoni nfunfù, nfunfù di pistoni e stantuffi arrugginiti, avanzano lentamente con un
ciuff! ciuff! emettendo un denso fumo acre e nero che ti scompiscia le tonsille. Manco il tempo per due giri di boa che le sigarette erano già ridotte a cicche; i cinque amici le lanciavano a distanza col dito medio trattenuto dal pollice e quindi liberato come una
fileccia. In segno di sfida, di strafottenza e di momentanea abbondanza, contro l’onnipresente e tirribilia malasorte.
"Fumiamo ancora!", disse con enfasi Federico. Ed estratto dalla tasca dei pantaloni un pacchetto di Luck Strike distribuì una sigaretta a testa. Il fumo delle sigarette appena accese andò a sospingere il vecchio che lentamente cominciava a sfumuliare verso l'alto. Mai forse quella piazza aveva visto tanta abbondanza di fumo, nonostante sentisse il lingueggiare del fuoco di caldo, né tantomeno i cinque amici che, con evidente voluttà, stavano finalmente gustando ed assaporando il loro momento di gloria. Gli occhi di Totuccio commentariavano da soli, era come
alloccato, e da qualche momento scambiava, ricambiato, cenni di soddisfazione cogli amici, ora aggrottando l'alta e nuda fronte traslucida, ora con sorrisi peccaminosi di compiacimento accompagnati da scàccani indescrivibili, la cui eco rimbombava dal negozio del barbiere alla farmacia, al bar, al tabaccaio; finalmente vomitò la domanda che tutti attendevano da quando s'era aggiunto al vaporoso crocchio di
sfessati.
"Da dove arrivano queste sigarette così profumate?", addumannò sommessamente e quasi sottovoce per non azzoppare il magico e peccaminoso momento, inimmaginabile fino a qualche istante prima. Intanto che poneva la domanda voltava e rivoltava la sigaretta, leggeva la marca, annusava l'odore fumoso ed il fumo odoroso. Ma soprattutto si sgargiava le guance con risate di compiacimento.
"Fuma, e non pensarci! Ieri è arrivato un mio cugino dall'America
Argintina!", gli rispose Salvatore che subito trovò cenni di conferma dagli altri con un: "Vero è, proprio ieri arrivò
Angiluzzu!".
"Allora, evviva l'America Argintina e gli americani argintini, evviva
Angiluzzu!", rispose Totuccio con una straordinaria scaccaniata che si udì a notevole distanza.
"Evviva l'America, le Palmall e le Luck Strike", gli fecero eco Federico, Peppi, Fefè e Salvatore.
I cinque, allineati come in formazione d'attacco, andavano avanti e indietro, su e giù, avvolti da una densa nuvolaglia, effetto delle veloci susprate il cui ritmo avrebbe ridotto in fumo un'intera pagliera in tempi rapidi. E scialibando come dentro un miraggio, si gettavano scariche di scorreggette per saluto, trottando per la piazza come in sella a delle onde e qualcuno li inseguisse a calci nel didietro. Per Totuccio giunse a malincuore il momento del doloroso commiato, che lui definiva doveroso ed ineluttabile per via dei gravosi impegni presi con la famiglia. Era o non era gestore del bar? Doveva quindi correre e controllare che tutto filasse liscio.
"Grazie delle susprate, ma ora devo tornare al bar a controllare che qualche disgraziato allupato non rompa il vetro della macchinetta, com'è successo stamattina. Affamati come sono di fumo, sarebbero capaci di svuotarla di tutte le sigarette americane di cui è stata riempita 'sta
matina", disse Totuccio, facendo cenno d'andarsene con aria solenne da capufficio indaffarato e non un quilibet qualsiasi che passa inosservato, ti passa sotto il naso e manco lo vedi.
"Aspetta!", gli disse Federico. "Tieni queste due per fumarle più tardi, anzi tieni tutto il pacchetto, visti gli impegni gravosi che ti aspettano. Ti pare bastevole?".
"No, prendi questo!" gli fece eco Fefè, in vena di cerimonie e complimenti, porgendo un altro pacchetto a
Totuccio.
"Fumati questo Luck Strike!", aggiunse Salvatore per non essere da meno.
"Il mio ti fa schifo? Prendi anche questo!", l'apostrofò Peppi, con fare sardonico.
E così dicendo porsero i pacchetti a Totuccio che accigliato, con fare tra il commosso, il perplesso ed "il non so quale miracolo sia successo", la fronte aggrottata ed i capelli sempre più scompigliati all'indietro, stringendosi la cinghia dei pantaloni si avviò verso il bar scaccaniando più che mai "bastevole!
bastevolissimo!", tutto pomponella e teatranteria, rischiando di restare assincopato dallo sforzo, ed annacandosi sui fianchi come cavallo arabo, per via di una pàpula al piede destro che lo faceva zoppiare vistosamente.
Con cruccio e risentimento, da giorni andava sostenendo che
zoppiare, per una persona normale era normale, ma non per lui che aveva intrapreso la carriera di agrimensore, pregna di impegni e responsabilità, come e più d'un vescovo; se infatti la cosa è plausibile per un prete, che può zoppiare sotto la nera veste e la gente non se n'accorge nemmeno, non altrettanto per uno che studia per vescovo, perché il vescovo sfigura se non è fatto bell'e fatto, per via dei suoi impegni istituzionali! Giustappunto come un agrimensore, che deve lavorare di metro, piantare paletti, fare misure, avere a che fare col Catasto. A quelli non puoi presentarti
zoppiando, come una mammatessa infilata per culo, non ti prendono in considerazione. S'annacava insomma, per via della pàpula, come se gli avessero titillato le tonsille inferiori, o come se gli avessero messo una mano nel sottocavallo, sprovando col medio lo sbocco di bocca, il culo
ovverossia, come una gallinella se ha l'ovo.
Si muoveva come un cavallo che trasporta un grosso carico, incordato al sottopancia, ed arranca a fatica sotto il pesante fardello sculettando ed annacandosi ora a destra ora a manca, ondoso a simula di onde. Così avanzava Totuccio verso il bar,
scaccaniando, girandosi di tanto in tanto verso gli amici, alzando la mano destra, per mostrare la sigaretta fumosa, che sembrava ridere del suo riso, e per un segno di doveroso gesto di ringraziamento. Fosse allegro e di buon umore, o triste, turbato ed inquietato, Totuccio reagiva a scàccani, con caratteristiche risate a crepapelle che solo lui sapeva dosare con assoluta maestria. Come quando, per celia, nei lidi di Girgenti gli amici gli buttarono a mare le mutande, e lui li inseguì per la spiaggia, come una giumentella non più tenuta per la criniera, con una mano davanti ed una dietro, scaccaniando contrariato con farsa da
tragediatore. E non la finiva più di sgridiarli: "Disgraziati, mi avete spareggiato il corredo appena
ingignato!".
I quattro, che fino a quel momento avevano tenuto un rispettabile contegno di circostanza, come santi di màrmaro per celiare la farsa, come chi col fatto appena accaduto non c'entra e con indifferenza se ne sta in disparte a commentare l'accaduto, quando Totuccio infilò la porta del bar e fu orbo alla vista, si sgargiarono in uno squasso di sonore risate, piegandosi in due e trattenendo a stento le lacrime, dimenandosi a
gettasangue: come se stavolta, la mano nel sottocavallo ce l'avessero proprio loro, sprovati come gallinelle nello sbocco di bocca e titillati nelle tonsille inferiori.
* * * *
Di buon'ora, come tutti i santi giorni, i quattro amici, s'erano incugnati nel bar di
Totuccio, per ammazzare le lunghe e monotone ore del mattino. Scherzando o giocando a carte, o pomponelleggiando con qualche canzoncina, attendevano che i soliti avventori, amici o conoscenti, giungessero per ordinare un caffè che, questa era la prassi, veniva offerto a quanti si trovassero nel locale. Non un caffè a testa, s'intende, ma tirandosi il paro e disparo per chi dovesse iniziare per primo, una miserabile sucatina dalla stessa tazzina che, passando di bocca in bocca, bagnava soltanto la lingua e soddisfaceva appena il palato; era come alliccare una sarda e trarne soddisfazione ma non sostanza, era come un mangiare a
merdarella. Era passato il capufficio, quindi il postino, infine il maestro. La cerimonia, che da messinscena da opera di pupi si trattava, s'era ripetuta come da copione, e come da prassi consumata la stessa sigaretta nazionale stava facendo il giro di bocca tra gli amici. Susprandola delicatamente per farla durare il più a lungo possibile ed in punta di labbra, quasi fosse una gara di resistenza. Spesso prese a credenza dal tabaccaio, che a malincuore segnava su una libretta che aumentava di spessore un giorno dopo l'altro, le sigarette si vedevano solo di lontano, come le reliquie sottovetro dei santi nelle processioni, che passano sempre a quella certa distanza, calcolata giusta, per non essere scandagliate se sono finte o vere, rose o rosate, di osso o di cera.
Ogni tanto s'affacciavano sulla piazza e con la mano a parocchio sulla fronte spiavano il sole, facesse abbaglio o meno. All'imbrunire occhìavano al sole, alla luce che restava: e vedendo che era giusto il momento in cui il sole al tramonto sembra mandare, come estremo addio, un ultimo grande sprazzo di luce, attimi di vero fulgore, e poi è tutto un precipitare della notte, si animavano di passione, si agitavano con spasimi di cuore. Sembrava un gesto ridicolo, quasi volessero salutarlo da soldati. Per quella mandria di giovanotti sembrava una specie di rito matino e serotino, un segno di ringrazio per avere visto ancora il giorno e perché speravano di rivederlo ancora domani, al tramonto ma anche al sorgere, alto e immenso sole di fuoco, quando il cielo si alzava in un'altissima curva di fiamme. Anche se poi spesso lo maledicevano perché soprattutto nei giorni di mezzagosto lo scirocco africano, di cui si nutrivano mattina, mezzogiorno e sera, si poteva pigliare e mettere nei sacchi; sempre in attesa che soffiasse un venticello spiritoso in mezzo all’aria pesante che si respirava in quella piazza, una fresca borietta di grecale che rinfrescasse i pensieri. Poi, o perché la calata del sole era stata troppo rapida e forte da seguire, o perché si spremevano troppo a smirciare in quella luce, come in cerca di qualcosa, gli occhi pigliavano a fare lacrima. Lacrima di un lontano pianto, segreto, che cadeva di nuovo dentro, come in una tazzina di porcellana, dove si conserva per essere usata ancora, perché anche quella sorgente si essicca col tempo, la vita stessa si essicca. Ma non erano lacrime di pianto, pareva non le sentissero nemmeno e non se le asciugavano. Erano lacrime d'occhi, lacrime che si lacrimavano da sole, poiché lontano era il fumichìo delle reste di zolfo. I loro occhi sembravano rigonfi di tutte le lacrime che possono riempire un occhio, e l'occhio trattenere e mai versare, di tutte le lacrime di cui è capace l'animo umano quando è veramente felice e quando è veramente infelice, quando felicità e infelicità non si sa più che cosa precisamente sia l'una e che cosa sia l'altra. Non avevano sosta, avevano trovato un posto che già ne scandagliavano un altro, come un cane che va cercando col fiuto il posto dove fare gli affari suoi. Che poi manco di guerra venivano, per essere così apatici, sempre con l'uovo storto, ma stavano come gli altri sotto quella gran coppola di cielo dove non c'era solo sventura. Assomigliavano al cane di Nardazzu, caduto sulle zampe davanti, col petto a terra e la lingua di fuori, che fa bave e schiuma, una forma umana mezza confusa, grigia che si faceva nera, anche se il sole splendeva alto e rosso di fuoco; se ne stavano con profilo
grifonesco, fisso, cogitoso, con una mente strambata. Quasi figura sfigurata del genere umano, a cuocere nel quaglio del loro massacrante stillicidio, o imboattati sani sani e conservati vivi sotto pece: mala tempora che correvano a precipizio.
Parlavano e parlavano, di cose di nullo conto, con voce scannarozzata che sfuggiva dalla bocca come un
mugulamento, una nota lamentosa che si sperdeva in tanti respiri strozzati; fino al punto di rendersi scienti d'avere perso il filo del ragionamento, o d'averlo ritrovato e averlo seguito tutto fino in fondo, fino all'altro capo, che era la stessa cosa che perderlo o riperderlo. Allora ricominciavano daccapo con sempre meno interesse di prima, come avessero un organetto e lo suonassero senza suono. Si giravano e rigiravano senza sosta, in un culo di sacco, come fosse sempre il tramonto, che colorava il loro viso di sfumature accoranti di malinconia, e sentissero il calamitare del sole per aria, senza potergli resistere, e tramontassero anche loro dietro il sole ma all'opposto del cielo, sottoterra. Oppure, quelle bocche d'oracolo se ne stavano mute come fossero di roccia, perché non avevano nessun bisogno di parlare con parole, quello che pensavano lo portavano scritto in faccia.
La carestia di fumo era perenne, scotrumbava a lingue di fuoco, perciò non potevano dire:
"Incasciamoci oggi un po' di fumo, mettiamoci al sicuro con una bella scorta che domani forse sarà la nostra manna e
minna. La carestia che antivedettero i nostri, anni prima, adesso è passata! No, adesso è una delle peggiopeggio mai viste". Ma non c'era un'unghia, una scarda di fumo da incasciare come scorta per il domani. Non c'era da stare allegri, come quando
s'appresentava il tantaratàtantà del gettabandi Lisina che mazzoliava sul tamburo a tracollo per gettare un bando di dazio, o rincaro di pane, o di sale, o di chinino di Stato, tanto per dire. Loro s'immedesimavano in questo stato di cose
miserrime, e sentivano ch'era sempre la loro pelle che Lisina mazzoliava sul tamburo, era per essi che sonava a morto il
gettabandi. Le mani acconghigliati alla bocca, la faccia di giallocanario come un melloncino di Malta, gli occhi un po' a lacrima un po' a riso che fissavano il vuoto, come se le poche parole uscissero di bocca da sole e loro sbrigassero altre faccende con la mente; il gettabandi diventava voce e tamburo, come la voce del grammofono che getta fuori le parole dal disco, e anche se sono parole di sangue, a lei, alla tromba, non fa né caldo né freddo. Del resto il gettabandi non è il cantastorie che espone il cartellone coi pupi e fatica, travaglia, soffre, si contorce, muove i fili di polso suo, fa l'opera di persona, sopra e sotto al fatto successo, vive e fa vivere, in una sola parola, la parte. Lui è solo ambasciatore di finanza e dogana, d'ordinanza di sindaco e prefetto, porta la pena che gli mettono in bocca, è l'eco che ripete quello che gli gridano. Quel gettabandi batteva e mazzoliava sulla loro pelle, essiccata in qualche chiarchiaro della zona, amplificava la loro miseria e non solo in fatto di fumo, perché questo era solo una conseguenza dell'altro più grave, atavico: la miseria! Morbo, che se investe come Dio comanda, sembra un poco tutti gli altri morbi messi assieme. Intanto se ne stavano lì, come accapigliati e confusi in una mischia furiosa col tempo, la testa
leggia, acquagliati tra tavoli e sedie, col grande patema d’avere una zita, s'agonivano
inconversariati, a commiserarsi, a piangersi addosso ogni sventura, a liquefarsi di tristezza e malinconia, in attesa che la pesante màzzara, che spingeva in avanti la lancetta del tempo, facesse suonare il liberatorio battaglio di mezzogiorno. Poco mancava che si cantassero da soli un bel miserere, e se a qualcuno fosse venuto in mente di passare col piattino, questo non di spiccioli si sarebbe riempito immediatamente ma di lacrime amare, di sangue, di bile. E sempre si
addannavano, e pure addannandosi, speravano sempre, in attesa di una qualche nenticchiella di novità, e si consumavano la vista guardando quel fumo sigillato in quella specie di cassaforte protetta dallo spesso vetro. Parlavano e riparlavano di cose di nullo conto, e così, poveri poeti che si suonavano la chitarra a morto e tra nota e nota alliffavano con gli sguardi quella specie di cassaforte, impavidi
minchionelli, non s'addobbavano né panza con fumo, né sottopanza con donna di niuno genere. Non erano come certe fere di mare che muoiono per smisurato scialibi di pancia, e che restano assincopate aspettando il rutto che non viene, per vie delle sarde, triglie e sgombri che si sono accantarate dentro, poiché mangiano non tanto per necessità quanto per vizio; no, per loro era valido l'opposto, loro rischiavano di morire assincopati per mancanza di vizio, di fumo fumoso, cioè. E non era neppure un enimma la loro faccia smorfiosa di sfinge. Si
addannavano, e pure addannandosi, speravano sempre, e si consumavano la vista sopra quelle scatolette colorate e variopinte, dilatando le pupille come un gatto abbagliato da una luce troppo forte.
Era come se al centro della piazza si alzasse un pennone con una bandiera gialla, di quelle che alzano le navi che hanno avuto qualche caso di terribile morbo a bordo, ed un drappo nero col teschio e le tibie incrociate sopra, bianco su nero. Quella bandiera di funeraglia segnalava che a bordo gli uomini, marinai e passeggeri, erano ormai parte morti e parte definitivamente
speranzati, e che la nave messa in quarantena batteva bandiera di morte, portava un carico di scheletri. E loro sembravano quegli uomini di bordo, i marinai, i passeggeri senza alcuna speranza.
Casualmente il professore aveva detto qualcosa che forse dava una risposta a questo stato di cose e forse non la dava, e qualcuno s'era posto il perché. Perché, aveva risposto, perché c'è sempre un perché in ogni cosa. Non ci sono misteri nella vita, sembrano misteri. Basta fare un piccolo sforzo e domandarsi: perché? E il cosiddetto mistero subito si risente, non è più tanto fitto e impenetrabile, la visiera gli comincia a tremolare sulla faccia, al signor mistero. Basta fare un piccolo sforzo e domandarsi: perché? Solo che lì non c'era mistero e non bastava domandarsi: perché? Era tutto chiaro e lampante come la luce del sole che abbagliava sin dal mattino. Eppure sembrava tutto indecifrabile, arcano sopra arcano, il tuono spaventoso, senza sprazzo né scintillìo di luci, che nel cielo della notte, rimbombante e
scuroscuro, fa il botto finale, l'ultima bomba della cassinfernale, che chiude in bellezza e mistero la luminaria dei giochi d'artificio. Erano tutti giovani, giovanissimi, evidentemente; ma la loro non era giovinezza, non era vecchiezza, ma sembrava una vecchia giovinezza, una giovane vecchiezza.
Era come se il sonno avesse pigliato loro solo metà della mente, e metà mente invece non gli riuscisse d'impossessarsene; ed era come se con quella metà mente sognassero e con questa vivessero, sicché, pure facendo tutte e due le cose, non ne facevano veramente nessuna delle due, né tutto sognavano né tutto vivevano, ma facevano una cosa sola di tutte e due, un di più e un di meno: sognavano, come si dice, a occhi aperti.
Diceva il professore: "Parabola significa tarantola ballerina", in altre parole vita e perché, quella maniata di ragazzotti doveva pigliarli per parabola col significato, con la morale, e col significato morale significarsi la tarantola ballerina, ovverossia l'argomento che avevano per le mani, mettendoci sotto la parabola, a spiega e commentario. L'antico detto palermitano stava a significare che la tarantola è costretta a girare vorticosamente in tondo, senza costrutto, allo stesso modo di chi sta cercando una verità e gli capita di dover tornare al punto di partenza dove tutto è avvolto nel dubbio e nel mistero. Loro erano la tarantola ballerina di quella parabola, senza né capo né coda.
Da qualche giorno in un angolo del bar era stata sistemata una di quelle macchinette dalle quali, inserendo una moneta e manovrando una specie di piccola gru, si poteva estrarre un pacchetto di sigarette americane: solo s'eri fortunato di
culo. Un tizio, che tra il rincoglionito e lo sdillaniato, s'accaniva da qualche tempo a consumare sonanti monete, di fortuna evidentemente n'aveva avuta assai poca se, dopo l'ennesimo tentativo bilioso andato a vuoto, aveva mollato un pugno di rabbia rabbiosa alla copertura di spesso vetro della macchina, rigandola leggermente in un lato, una fessurina di poco conto, impercettibile ai più, non si vedeva nemmeno, tant'era sottile da sembrare un graffio, anche se in realtà profonda ad un occhio ben attento e indagatore. I mugugni della padrona del bar, più per il fragoroso rumore di botta che per il danno causato, l'avevano costretto a desistere da ulteriori tentativi ed a tornarsene a casa
ammammaluccato. I quattro amici, biliatissimi, si guardavano in faccia con rassegnazione, intanto che i loro occhi si posavano su quei pacchetti di sigarette, ammirando con voluttà ora il loro splendeggiare acciaiato, ora il luccichìo da sole al tramonto, intanto che giacevano lì accatastati uno sull'altro in bella mostra ed aspettavano soltanto una mano fortunata per essere prese e fumate. Il fuoco dei loro occhi convergeva su quella macchina, immobile ed insensibile al loro penìo, come un santo di marmo che non suda; era un continuo domandare e rispondere, breve e muto, alle volte di solo ciglio alzato o solo occhio
impupillato, altre di solo labbro smorfiato o anche di sole mani spalmate per aria, occhìando ed apostrofando in un muto ribelloniamento schiumoso. La qual cosa non era della domenica, ma forzatamente di tutti i santi giorni, non una volta sola, ma di continuo di continuo, volta su volta; un continuo penìo, ci fosse abbaglio di luna o arraggio di sole, o un nero miscuglio di cielo avesse aperto le sue cateratte. Era come se i loro occhi fossero sdoppiati, un occhio reale, col quale vedevano tutta la loro miseria, ed un occhio sognante, volto verso quel miraggio di sigarette, irraggiungibile e indecifrabile, un sogno incuneato in qualche angolo della loro mente. Dalle loro labbra usciva un rantolo che s'udiva appena, come giocassero piuttosto a fare bolle d'aria col fiato. Erano conzati per le feste, detto in parole povere.
"Federico!", commentariò ad un tratto Salvatore, somigliantissimo ad un
pupitto, sempre alliffato, stirato e lucidato, con faccitta e manette come si spalmasse ogni ora crema e
vasellina, i capelli sempre imbrillantinati con la scriminatura di lato, ma mortizzo e
sfantasiato, con aspetto di funeraglia, con le occhiaie di chi ha vegliato notti e notti per un malato e poi ha pianto il suo lutto, guardando la macchina, con la voglia che gli usciva dal risvolto dei pantaloni e che si leccava la lingua per farsi la bocca. "Perché non inventi qualcosa? Non è giusto che quelle benedette sigarette susprande se ne stiano lì immobili ad essiccare e noi qui a contemplarle, come tanti stupidi straviati ed
allazzariati. Possibile che dobbiamo fumare sempre trinciato di spina santa e rantoliare di desiderio?", proseguì, come se si sentisse pizzicare il culo a mandolino. La faccia rosata di sole e gli occhi sfavillanti, sembrava trovasse strano di non vedere negli occhi dei suoi amici lo stesso sfavillio che c'era nei suoi e che gli veniva dal piacere di stare al mondo. Parlava a Federico, ma girando gli occhi in tondo, cercava conferma in quelli degli altri amici, li stava a guardare ora l'uno ora l'altro, come s'aspettasse una risposta dall'uno o dall'altro, perché li diceva a parole muti, cogli occhi però li faceva parlanti. Rivolse quelle parole con sguardo accuttufato ma compiaciuto ed eloquente, uno sguardo che sembrava rivolto non tanto alla persona, quanto a quello che la persona gli rappresentava in quel momento, la tecnica fantasiosa o la fantasia tecnica che gli avrebbe risolto il problema più immediato.
Intanto che supplicava, faceva segno con l'indice ed il pollice ch'era faglio e si rovesciava le tasche sotto gli occhi di tutti, squagliandosi di desiderio per quelle sigarette, gettando lacrime di parole dalla bocca, rantoliando appunto. Come e più di quando s'innamorava di qualche fanciulla, dal momento ch’era un gran
gettatribolo, sempre con qualche occupazione di cuore, qualche peso che gli gravava sulla bocca dell’anima. Ed allora, incotturiato di pensieri, la passione, come canazza affamata, gliela potevi leggere in una faccia, parlante, accuttufata e triste come la Madonna dei sette dolori per un verso, e quella beata e sorridente dell'Assunta in cielo per un altro. Allora, stringendo le pupille, le aguzzava sugli scòlleri di femmina, che riteneva lettifera per natura ed all’asciutto di uomo; si sentiva bene incavallato e temprato alla meglio, si sentiva tutto attizzato di rinfocolio di vita, e nell’infervoramento che ne seguiva, ogni volta pigliava l’inchiavatura del cantastorie, che la fa sempre tragica e ci mette accenti pomposi, come se gli venissero dal cuore, e schiumava tutto di valentia mascolina. Si sentiva come sprovato nel suo mascolino di natura, pizzicato là, al
nerboschino, nel peso davanti, e che sonasse col flauto di pelle una musica che a quella piaceva
assaissimo, pronto a darle una bella sconquassata, incrignerandola di dritto e di rovescio. Sapeva bene però che quella era pervasa da un incantesimo che lui doveva rompere, con porte e passaggi da aprirsi a lusinghe e sciabolate, ignorando che a femmina, se le va a genio un uomo, lo afferra e se lo piglia, e sennò non esistono flauti di pelle, non esistono giovanotti, per quanto temprati alla meglio, capaci di spezzare quell'incantesimo e giungere ad una
'ncarcata per il dilettevole di entrambi. Allora, annorbato per femmina, restava pervaso da tutto quel fottisterio di pensieri a rimuginare, a pensare, a
sfessarsi, come infestato da terribile malattia da letto. Sognava di stare in un'alcova tutta foderata di trine e pizzi, con ricami e svolazzi, nappe e
nappine, tendine, veli e velari, per non farsi sporcare dalle cacatine di mosche. Sognava di fare coppia con lei, tranquillo e solingo, come fosse in acqua di paradiso, tra azzurri guanciali scavandosi la tana in mezzo al letto; sognava di starle sopra, col suo groppone teso, e abbrancandola stretta alla vita sottile,
s'incafollasse dentro a lei, sussultando in fretta, ma leggero, leggero che nemmeno pareva, cercandole dietro il collo, come per pigliarle il tuppo di capelli. Allora si raggrinzava tutto, smorfiando al cielo, come pigliato da improvvisi brividi di freddo, con espressione sconvolta e felice, quasi privo di respiro, come se
agonisse, con sguardo ironicamente esterrefatto e sembrava piatisse con l’occhiolino che ti guardava a
piantolino. Fissava il vuoto con l'occhio velato e si lamentava, quasi rantolava, un dolidoli che straziava, una specie di spasmo come avesse un'unghia incarnata o capocchie di spillo infocate nelle carni, continuo,
cupo-cupo. A ben guardarlo sembrava avesse spasmo di cuore, che le lagrime gli zampillassero grosse come ceci nei fondi di bottiglia e che si martoriasse di ngà, ngà come una mocciosa per mancanza di minna o una gallina pigliata da gallo. Il patema più grande l'aveva per la nuova zita, nel paese vicino, che a sentire lui doveva essere come una specie di calamita per attirarsi addosso tutto quello che di benigno o di maligno poteva capitare, corteggiamenti e proposte di giovanotti, come se fossero sbarcati gli alleati e la sola mira fosse proprio lei, la zita. Poiché quando l'aveva conosciuta, gli dava quasi ad intendere che s'affrontava di lui, poi, la sfrontata, impupandosi di grazia femminina, se n'usciva a fargli l'occhiolino, la cascamorta,
frascheggiandogli, vaviandosi e cernendosi tutta, con tutto il suo flessuoso più flessuoso di culo a mandolino. Si comportava come se con un cuore la sapesse morta e con l'altro viva, vivace, vivissima. Pareva avesse l’occhio che si
invitriava, incupito di desiderio, e che mandasse flebile lamento, una specie di musica in sordina che accompagnava il sospiro di sollievo. Dopo aver
voleggiato, occhìando a destra e a manca, come avesse assaggiato femmina del suo harem, girando la pupilletta lentamente intorno, gli occhi velati, da
insonnambulato, gli si accendevano di brillii come se dentro gli ritornassero gli spiriti che sembrava avere persi, alzando le palpebre rattrappite sembrava tornare a vita, e contempo sospirava spremendosi. Poi, quasi per magia, l’occhio che si era essiccato riprendeva a zampillare, come se il ricordo gli rigurgitasse fuori dall'anima, ancora pervaso dalle meraviglie e dai piaceri di un altro mondo. Poco ci mancava che bisognasse
annacarlo, facendogli cullaculla, come un moccioso che non trova requie se non attacca i suoi labbruzzi in qualche
minna. Nulla poteva farlo desistere da quell'atteggiamento, povero criato, neanche se fosse arrivato a scoppolargliela il suo re in persona. Il tutto per una triina di giorni.
La domanda accorata, quasi una supplica, illuminò gli occhi di Federico che non aspettava che una simile richiesta. Ebbe una mossettina scattosa dentro, quasi di orgoglio trattenuto, e questa gli trasparì solo nel modo come strinse le labrette e schiacciò i mascellari. Rimase qualche istante pensieroso con aria
sopraccigliata, s'incupì di sguardo, girò intorno alla macchina pendoliando con la testa, quasi volesse studiarla per poterla attaccare nel suo punto più debole, allisciò con attenzione la sottile ed impercettibile fessicella del vetro alliccandosi il dito di tanto in tanto, e si addunò che una soluzione adatta c'era, anche se quella macchina dondoliava e ziculiava come tavole di letto che fanno
'nzùghiti 'nzùghiti sotto due pesi allupati. Abbassò gli occhi e li tenne chiusi, come cogitasse. Li riaprì, testìando a destra e a manca come se con la mente seguisse l'operazione che già cogitava di mettere in atto, li richiuse quasi volesse verificare quanto escogitato.
"Tra fessura e fessura, filo duro e sottile; adattato con cura, s'apre pure l'ovile! Aspettatemi qui, torno subito, perché la cosa è
facillima! Vedrete che il fiele nasconde sempre qualche goccia di miele", sentenziò con aria tragediatora da abracadabra. Risolto
l'indovinindovinaglia, quell'enimma ormai ce l'aveva come in fotografia. Quando ci metteva un po' d'impegno potevi stare sicuro che la cosa riusciva perché, studiando bene le causanti, incalcava fitto il coperchio che aveva messo sopra le sue considerazioni, restando sempre orlo orlo al superfluo per l'essenziale. Le sue mani ammastriate avrebbero fatto il resto, sarebbe stato come richiamare mare con sale, od aceto con olio.
"E' fatta! Sento che oggi è giornata buona, sarà sicuramente uno sciàlibi", disse Salvatore
Parafallette, proclamandolo forte e bandiandolo in faccia a tutti, certo che Federico faceva sul serio e non
buffoniava, con un barbaglìo che fece stravedere una scaglia vampirica assetata di desiderio: proprio quella scaglia che ammaliava e tramortiva tante povere creature inesperte, come dire innocenti cacanido fresche di piume, tramortite da quella faccia accuttufata e beata, allo stesso tempo, quando si adagiava in gloria con gli occhi verso l'alto, in aspirazione di cielo.
Issofatto, dopo una mezzora Federico era di ritorno al bar, con uno strano attrezzo in tasca, un sottile filo di rame adunco da sembrare un attrezzo da dentista medioevale, adatto più a torturare bocche irrimediabilmente malandate che a curarle. Forte della trovatura trovata, rideva, e cogli occhi che gli brillavano andava ripetendo come riesumo della sua invenzione: "Pensate che trovatura trovai!". Felice della
trovatura, era come un vecchio soldato che avanza appoggiandosi alla sua lancia per bastone, mentre lui era in procinto di usare il suo filo per lancia.
Riunì gli amici in un angolo e, come comandante di briscola, spiegò loro che, se non si fossero scandaliati e strambati più di tanto ed avessero seguito i suoi consigli, senza fuirsela a gambe levate, alla stregua di
maganzesi, tenendosi i pantaloni in mano, come avessero la miccia al culo, né farsi prendere da furioso
tremolizio, fra pochi minuti avrebbe travagliato il pane e loro avrebbero fumato gratis per una simana intera. Si sentì un poco Cristo che diceva agli apostoli: andate in giro a predicare fra le genti il verbo divino. Dovevano però giurarsi il sangiovanni e fare
comparanza, dovevano sentirsi per un momento come Padre, Figliolo e Spirito Santo. Si comportò come i cristiani che spruzzavano l'acqua in fronte ai saraceni, sottomessi davanti a loro col ginocchio piegato, e che mentre con una mano li battezzavano, con l'altra tenevano la spada puntata alla loro gola. Dovevano insomma ubbidire ai suoi consigli e basta, come se camminassero su delle uova, attenti a non
scrafazzarli; come donna incinta grossa, che deve sgravarsi da un momento all'altro, e segue meticolosamente i consigli del medico. Allora come per magia, senza calibro dodici né cartucce caricate a palla, senza lume di lumi ma con l'abbaglio di sole, avrebbe alienato tutto quel ben di Dio che se ne stava immobile in quella maledetta vetrina, a fare dispetto e titillare la gola. Con un semplice gesto della mano
'ncatesimata, avrebbe smaterializzato quei pacchetti colorati e li avrebbe materializzati nelle loro tasche! A tale vista non si dovevano imbabbire né squatrasciarsi di risate per gioia o meraviglia: per cui Totuccio no, lui proprietario del bar doveva starsene alla larga, per non compromettere l'operazione, anche se in cuor suo sicuramente avrebbe approvato e spartito il goloso malloppo. Ma un suo micidiale scàccano, di gargarozzo sgraziato ancorché argentino, avrebbe messo a repenticolo la delicata operazione che richiedeva tatto e concentrazione infinita.
Fefè fu incaricato di distrarre la barista, il viso come squaglio di zucchero, bianca d'un bianco come stillasse latte, che si rinfrescava con un ventaglio
muscarolo, occhiandola nei grossi pendoli, ammaliandola, taliandola e ritaliandola negli occhi, maniandola e tastiandola se necessario, tenendola in un angolo come un cagnolo agguantato per il cozzo, e risalendola con lo sguardo dai piedi alla testa; in poche parole, se fisicamente non la si poteva spostare altrove, con la testa e cogli occhi doveva essere lontana un miglio, come darle uno zìttiti e dormi! Doveva guardarla a guardia, doveva misurarla cogli occhi e scenderle con lo sguardo fino a dentro i pensieri più nascosti. Non un fichidindiaro doveva essere, ma un venditore di miele, e lui una lapuzza che doveva tessere intorno intorno. Doveva insomma quagliarla in un sonno profondo. Peppi, gettando fuoco dalle narici, intesando gli orecchi, come canazzo di mànnira, doveva stare a vedetta a fare da
intinnere, doveva starsene di guardia alla porta per dare informe con un fischio dell'arrivo di Totuccio uscito per una commissione o di qualche scomodo avventore. Che sai come sono gli avventori dei bar di paese, nulla vedono e nulla sentono, al momento, ma prima o poi hanno da dire la loro. Salvatore, azzizzato con un capiente sacchetto, doveva essere, come spazzino, pronto a recuperare i pacchetti che si dovevano materializzare fuori della macchina, dopo avere trapassato il vetro come inanimati
fantasimi.
A suo dire, sarebbe stato come giocare all'ammucciatella, come andare a fare la spesa alla putìa dicendo: "Tanti saluti e grazie", insomma.
Quando credette di avere fatto un buon fagottello di ammaestramenti, come padre al figlio che parte e non sa ancora il mondo, o come padre che sul morire confida al figlio il principale segreto della vita, la scienza sua, dicendogli a buon bisogno di farne buon uso e a stretto bisogno di farne stretto uso, decise ch'era l'ora di passare all'azione.
"Avanti, sursincorda, pronti e via!".
Ci vollero pochi ma interminabili minuti: l'attrezzo, fatato e micidiale, per un verso, come una Durlindana a tre punte, sacro e prezioso, per un altro, come calice con l'ostia nella sua nicchia, cominciò a volteggiare tra le dita sollecitissime ed assai mastre di Federico come minuscola guisina in acqua, e lui prese a dimenarsi come illusionista sul palco che fa sparire e ricomparire fazzoletti e piccioni. Le sue mani bianche e grosse, di sopra ombreggiate di una peluria fina lucente, come colorate di sole a vedersi, sbrigavano sicure quel lavoro da gioielliere, senza bisogno d'essere seguite dall'occhio, quasi si animassero fuori della sua persona. La sua mente, simile all'ago calamitato di una bussola, s'era messa nel verso giusto. Smorfiando cogli occhi e colle labbra dalla meraviglia, i pacchetti presero a volare fuori dal vetro come bianchi fantasimi e finire nel sacchetto, uno, due, cinque, dieci, venti, in un arraffarraffa interminabile, uno scannascanna senza fine.
Furono attimi di assoluto silenzio per gli attori, un tuono di silenzio, un silenzio tale che era come sentirlo, sembrava che uno sbrogliamento di pensieri si muovesse verso la bocca, un movimento di lingue facessero saliva di parole mute.
La femminella barista parlava e parlava a Fefè, cieca della cecità cieca di chi non vuol vedere, e sorda della sordità sorda di chi non vuol sentire, nonostante il trambusto inevitabile e l'aria surreale di quei frenetici momenti. Alienata nei suoi pensieri, c'era e non c'era, guardava ma non vedeva, come allisciata e sospinta da un grecalello delicato e gentile che faceva mulinelli di continuo, quasi trasportata tra le spire degli infiniti granelli di sabbia in un deserto di dune, e lì delicatamente depositata da mani sapienti.
"Accùra, accùra! Presto, presto, allestìtevi!", fece ad un tratto Peppi con sguardo trucchigno e bava alla bocca, facendo affacciatella verso la piazza, come pigliato dalla tarantola, con faccia aquilina e
tragediatora, smirciando alcune persone in sollecito appropinquo. La sua 'mpigna
vampirica, scura di pietra lavica, brunastra di pelle e di sangue sanguoso, che l'ora fosse maitina o serotina, lo faceva tuttuno con un satanasso infernale, come quando uno spicchio d'arancia ha il figlio, uno spicchietto incorporato, parte dentro e parte fuori; e, strabilio massimo per tutti, incredibilmente, lui era quello spicchio, come se lo avessero innestato di selvaggio. Come dire che quando l'Onnipotente lo scagliò in terra dal cielo non s'era comportato con senso di giustizia. Piccolo di statura e come nero di sole, sembrava arrivare da luoghi lontani e
scogniti. Nell'agitazione e confusione, per sbaglio o abbaglio, per fuliggini agli occhi, quel bambino che correva verso il bar, che di un bambino innocente si trattava, da uno che era, alla sua vista si fecero tanti, innumerevoli; a causa del forte abbaglio del giorno, invece di vedere doveva avere stravisto; la sua vista s'era offuscata per sbagliabbaglio ed era divenuto impossibile calcolare chi era in arrivo, come un branco di pesci che, fra salti e tuffi, spume e spruzzi, sa farsi, alla vista, tanta, innumerevole di una che è, e una di tante, innumerevoli che sono.
* * * *
Ma ormai la macchina, benché intatta nei sigilli, era già
svacantata, l'attrezzo adunco sparito, il sacchetto gonfio di fumo in piazza sotto un sole che sciabolava l'aria. E gli amici, intorno a Federico, a congratularsi per lo strabilio di fenomeno ch'era stato, come cane festoso col suo padrone. Caprioleggiavano e saltavano di gioia dandosi pacche sulle spalle, gettando iiih a non finire, ma pure qualche scorreggetta che suona sempre a musica, dando ad intendere che quel fumo dava loro alla testa, scoppiava il cuore col sangue in subbuglio, faceva insomma risonare dentro di felicità. E ubriachi come
signe, non più spagnati con brividori di pelle ma con libito in viso, le pupille a papuzza e risate
sciacquose, a buttare quel fumo per aria, verso il cielo rosso e terso, non più rosso ma nero, pieno di nuvolaglie fumose che, come mosse da scirocco terribilio a levante e tramontana freddosa a ponente, s'arruffavano a mazzomaurello verso l'alto del cielo, per straviarsi lassopra come bianche pecorelle al pascolo. Il cielo che di norma dava poco dolce e tanto amaro, quel giorno finalmente aveva deciso di concedere tutto dolce e niente amaro.
E Totuccio con noi, non più a lagnarsi per la scianca che gli aveva procurato lo scripintamento di una birfuca al piede destro, dimentico di zoppìa di piede, di vescovo ed agrimensore, a susprare e
risusprare, ignaro, le sue coloratissime Palmall, tra sghignazzi e scàccani fuori ordinanza, come avesse sbottonata e spampanata una rosellina innocente senza pagare dazio! E noi con lui a ridere a crepapelle, col riso che ci faceva sciacquìo dentro, una risata dietro l'altra senza dare tempo alla prima di freddarsi per aria, con le pupille a papuzza diluviate da lagrime e fumo odoroso, incafollando alquandalquando timbolate sulla sua bianca fronte liscia come culo di verginella, a scaccaniare con lui, che
s'intrubboliava perché gli sbrogliavamo la capigliatura, sfantasiati e
libitati, con l'aria che spiritava odore d'arancio e bergamotto.
Issofatto!
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