PARMA e VICTORIA
La posizione di Parma era strategica per Federico,
sia perché era l’unica città ghibellina dell’Emilia, sia perché
era la sola via d’accesso alla Toscana e controllava la via Francigena.
Perciò, quando un esercito guelfo nell’estate del 1247, approfittando
della lontananza dell’Imperatore che si trovava a Torino, e del fatto
che all’interno della città s’era formato un forte partito molto
vicino al Pontefice, occupò Parma, fu considerato molto grave per le
sorti dell’impero. Era necessario una esemplare punizione verso i
ribelli, e non potendo prendere la città di sorpresa, era necessario
ricorrere all’assedio e prenderla per fame. Il 2 luglio 1247
Federico si recò di persona a dirigere le operazioni. L’assedio si
presentava molto lungo e difficile a causa del fatto che gli assediati
avevano ricevuto molti viveri e rinforzi da parte di Milano, Piacenza,
Mantova, Brescia, Genova, Bologna e Ferrara. Federico chiese aiuto agli
amici che accorsero numerosi: Cremona, Pavia, Pisa e soprattutto
Ezzelino da Romano. Le forze dei contendenti erano di circa 8-10 mila
uomini per parte. Ragion per cui Federico fece costruire alle porte
della città un grosso accampamento, parte in legno parte in muratura,
per alloggiarvi i suoi soldati e che, diceva, una volta espugnata e
distrutta Parma, vi avrebbe trasferito tutti i suoi abitanti. A questa
specie di città dette il nome ben augurale, che invece doveva rivelarsi
nefasto, di Victoria. Durante i lunghi mesi dell’assedio,
Federico si allontanava per intere giornate nei boschi della zona per
dedicarsi alla sua più grande passione: la caccia col falcone.
Sopravvenuto l’inverno, mandò parte delle sue milizie a svernare,
riducendo così notevolmente le forze d’assedio, all’inizio molto
numerose. I Parmigiani, pur se nella disperazione dopo parecchi mesi d’accerchiamento,
resistevano incredibilmente e non intendevano arrendersi all’Imperatore,
di cui temevano la vendetta. Anzi attendevano il momento più propizio
per tentare una sortita contro Victoria.
Le pernici salvano l'Imperatore
Ciccio e Turiddu si erano stabiliti a Cremona, ormai
seconda sede del regno di Federico e di tutti i personaggi che facevano
ala all’Imperatore: da Bianca Lancia a Pier delle Vigne, a re Enzo,
agli astrologi. Erano rimasti a dirigere il serraglio da quando Abdul,
ferito da un rapace, aveva fatto ritorno a Lucera, dai suoi saraceni.
Dopo tanti anni erano conosciuti e benvoluti da tutti, soprattutto da re
Enzo, simpatico e coraggioso, col quale spesso si intrattenevano in
animate discussioni e lo accompagnavano in lunghe battute di caccia,
mentre l’Imperatore girovagava per la penisola. Quando il 2 luglio
1247 l’Imperatore iniziò l’assedio a Parma, constatato che sarebbe
stata una operazione lunga e difficile, fece trasferire a Victoria il
suo harem ed il serraglio, per riempire i momenti di noia con lunghe ed
estenuanti battute di caccia nelle ricche foreste della zona.
Anche quel giorno, 18 febbraio 1248, l'Imperatore e
tutto il suo seguito, fatti i preparativi, alla prime luci dell'alba
partirono verso i boschi che circondavano le rive del fiume Taro. Ciccio
e Turiddu non avevano perso una sola occasione di stare vicino al loro
Imperatore e, prodighi di premure per la riconoscenza che gli dovevano,
erano come la sua ombra; lo assecondavano ad ogni minimo accenno di
necessità, solerti nel lanciare il falcone e pronti a recuperarlo
insieme alla preda che inesorabilmente finiva tra i suoi artigli.
Intelligenti e volenterosi qual erano, in quei lunghi anni di esperienza
avevano appreso la difficile arte di cacciare col falcone, ignota ed
inimmaginabile dalle loro parti. Ed in confidenza con Federico, come
suole in simili circostanze, sedevano al suo tavolo improvvisato per
condividere, nelle soste di una battuta, un pasto frugale, osservazioni
sui pennuti che l'Imperatore annotava su speciali taccuini, acute
interpretazioni su voli e planate degli stessi.
Erano impegnati a discutere sul sesso di un pennuto
appena catturato quando, come un fulmine a ciel sereno, giunsero dei
messi trafelati che annunciavano l’assalto all’accampamento
imperiale, rimasto quasi sguarnito di efficace protezione. Abbandonata
ogni attività venatoria, la corsa in difesa della nuova città fu
immediata e affannosa. Ma data la distanza notevole a cui s’erano
spinti, ci volle del tempo prima d’essere in vista dell’accampamento,
da cui si levavano enormi pennacchi di fumo. Il piccolo drappello di
Federico si lanciò a dare manforte ai superstiti, combatté
strenuamente nella speranza di ribaltare la situazione, salvare il
salvabile, ma ogni sforzo fu inutile a causa della preponderante forza
nemica che, con la forza della disperazione, aveva ucciso e fatti a
pezzi migliaia di soldati, soprattutto saraceni. Dappertutto morte e
distruzione; sparito il suo harem, distrutto il serraglio con tutte le
sue bestie esotiche e feroci, infilzate da lance acuminate, catturati
alcuni leoni.
Nel tentativo di salvare il salvabile, Federico ed il
piccolo drappello s'inoltrarono nella città ormai quasi vuota dove solo
alcuni soldati nemici erano intenti a razziare quant'era scampato al
fuoco ed alla rovina.
Ciccio, nonostante l’ordine di abbandonare ogni
cosa, di ritirarsi e di riparare a Cremona, l'unico luogo sicuro in quei
frangenti, non esitò ad inoltrarsi tra le rovine, corse alle gabbie dei
volatili alla ricerca delle pernici, mentre i pochi rimasti, Turiddu
compreso, facevano scudo all’Imperatore per guadagnare la strada della
fuga.
In mezzo al groviglio di gabbie d’ogni tipo non fu
facile a Ciccio scorgere quella delle pernici. Ne rovesciò alcune, ne
aprì un’altra liberando un falcone, soccorse un falconiere a terra
tramortito, mentre tanta gente, la maggior parte civile, razziava tutto
ciò che le capitava sotto mano. Infine scorse la voliera che cercava:
le tre pernici erano ancora dentro. Ebbe un attimo di commozione e
rimase lì impalato ad osservare quelle bestiole che si dimenavano quasi
consci del pericolo e volessero scappare via, lontano da quel disastro.
L'imperatore urlò che non c'era tempo da perdere, perché la milizia
nemica poteva sopraggiungere da un momento all'altro. Ciccio si
avvicinò alla gabbia. Ciccu e Nina che normalmente alla sua presenza
cantavano, felici di vedere il loro padrone, cominciarono ad emettere un
suono acuto ed aspro, stridettero come corvo e cornacchia insieme,
emisero un suono lacerante quasi volessero parlare più che cantare.
Ciccio, sconcertato, avvicinò una mano quasi a volerle accarezzare e
tranquillizzarle. Anche l'Imperatore rimase allibito a quegli striduli
versi e mentre faceva l'atto di voltarsi per capire cosa stesse
succedendo a quelle bestiole, vide che un soldato con una lancia
appuntita da pochi passi aveva alzato il braccio e si apprestava a
trafiggerlo. Fu un attimo! Si gettò per terra riuscendo a scansare la
lancia che l'avrebbe sicuramente colpito alle spalle, mentre il parmense
scappava certo che non avrebbe avuto scampo. Turiddu si lanciò
sull'Imperatore nell'atto di proteggerlo, ma non gli restò
che aiutarlo a sollevarsi da terra. Le pernici,
col loro lancinante richiamo, avevano salvato la vita all'Imperatore.
Passati come un fulmine i momenti di commozione, Ciccio aprì lo
sportello e cacciò in un sacco le due pernici, mentre la terza,
Vittoria, guadagnava il volo. Saltati a cavallo, corsero verso il resto
del drappello e si allontanarono dalla città, sorta pochi mesi prima, e
distrutta così miseramente nel volgere di poche ore.
Triste fu il ritorno a Cremona, da sconfitti e senza
il carroccio; e fredda l’accoglienza, diversamente da quella loro
riservata dopo la vittoria a Cortenova. Solo con un po’ di fortuna
avevano avuto salva la pelle.
Adesso Ciccio e Turiddu non avevano neppure gli
attrezzi per esercitare il loro mestiere! Falconieri senza falchi e
senza serraglio, erano tornati normali combattenti come il primo giorno
in cui s’erano imbattuti nell’esercito imperiale di passaggio dalle
loro parti. E neppure un esercito, buona parte fatto a pezzi e rimasto
sepolto a Victoria.
"Maestà!", disse Turiddu alla prima
occasione. "Voi sapete che siamo stati e restiamo fedeli alla
vostra persona ed alla vostra causa. Daremmo la vita per voi, se fosse
necessario. Ma ormai da parecchi anni siamo lontani dalle nostre
famiglie, e vorremmo, se ce lo concedete, fare ritorno alle nostre case.
Siamo sempre e comunque ai vostri ordini".
"Tornate pure alle vostre case, per Noi questi
sono giorni molto tristi. Sono certo che, se ce ne sarà bisogno,
tornerete a combattere per la nostra causa", rispose Federico che
non celava la sua commozione.
"Ecco le vostre pernici, maestà!",
esclamò Ciccio estraendo dal sacco le due povere bestie, provate anche
loro dalla brutta avventura.
L’Imperatore, commosso, accarezzò le due bestiole
che anni prima aveva quasi tenuto a battesimo e che il giorno della
disfatta gli avevano salvato la vita, ne ammirò ancora una volta le
penne colorate, e le restituì a Ciccio.
"Sono vostre, custoditele finché avranno voglia
di vivere; e se vi sarà possibile, liberatele nella nostra amata città
di Palermo, in segno di buon auspicio".
Il dopo Victoria
Quel 18 febbraio 1248, fu certamente il giorno
più triste per l'Imperatore Federico. Gravissime furono le perdite, in
soldati e beni. Taddeo di Suessa fu ucciso e fatto a pezzi, come ucciso
fu pure il marchese Lancia. Federico perse ogni suo avere, tra
cui la corona imperiale, il sigillo del Regno di Sicilia, il carroccio
di Cremona e tutto il suo harem. Con la sconfitta di Victoria, il
prestigio dell’impero era ormai compromesso, e fu inevitabile che vi
fossero tante defezioni a favore del partito guelfo. Da questo momento
le lotte non saranno più tra le città ma tra i partiti e le fazioni
all’interno delle stesse, rendendo inevitabile la degenerazione in
guerre civili e congiure, soffocate nel sangue. I guelfi si scatenano
in tutta Italia; il cardinale Ottaviano degli Ubaldini occupa la
bassa Romagna, Forlì, Cesena, Faenza e la marca d’Ancona, mentre il
cardinale Ranieri Capocci penetra nel regno. Di conseguenza diventano
difficili i collegamenti nel regno attraverso l’Adriatico, e tutto
sembra sfaldarsi, anche se re Enzo lotta aspramente in Toscana.
Ma la grande tragedia di Federico scoppia nel
febbraio del 1249, a Cremona, e dimostra lo stato di tensione e
nervosismo che oramai s’era impadronito dell'Imperatore. Pier delle
Vigne, il suo grande amico, grande Protonotaro e Logoteta imperiale,
che lo aveva difeso in varie e delicate circostanze, viene tratto in
arresto a Cremona, portato nelle carceri del castello di S. Miniato e
fatto abbacinare per ordine dell’Imperatore. Poco dopo poneva fine ai
suoi giorni col suicidio. L’impressione fu enorme, anche se Federico
cercò di dissimulare la vera ragione della condanna, per evitare lo
scandalo. Difficile per gli storici indagare per stabilire la vera causa
che abbia spinto l’Imperatore a condannare colui che tenne "ambo
le chiavi del cor di Federico", come dice Dante, grande estimatore
dell’Imperatore, nella sua "Divina Commedia". Si dice che
alla base ci fosse l’odio di nemici invidiosi, che Pietro fosse
segretamente in contatto col Papa, o che addirittura, in base ad una
leggenda, Federico abbia scoperto una congiura ordita da Pietro per
avvelenarlo. Salimbene da Parma, guelfo malevolo, dice che l’Imperatore
non sapeva conservarsi gli amici poiché "numquam nutrierat porcum
cuius non habuisset exurgiam".La vera ragione andrebbe ricercata
nel fatto che Pietro avesse gestito scorrettamente l’amministrazione
del regno, arricchendosi più del dovuto. E che l’Imperatore, venuto a
conoscenza di questi fatti in un momento di esasperazione, ma
soprattutto di penuria di denaro (a Victoria aveva perso tutto!),
considerasse queste gravi colpe come un tradimento perpetrato alle sue
spalle.
Federico scese nel regno di Sicilia alla ricerca di
nuovi finanziamenti per le sue casse ormai vuote. Qui la pressione
fiscale era fortissima, e serpeggiavano violenti malumori tra la
popolazione, stanca di pagare sempre nuove tasse, per cui la ribellione
non era dovuta soltanto alla sempre più frenetica predicazione dei
frati minori che aizzavano la popolazione all’insurrezione.
Un altro grave fatto colpì l’Imperatore, e cioè la
cattura del figlio Enzo da parte dell’esercito bolognese. Da
Napoli Federico apprese che Enzo, spintosi arditamente da Cremona a
Modena, era stato sconfitto a Fossalta, il 26 maggio 1249.Federico
cercò in tutti i modi di riavere in libertà il proprio figlio, anche
con violente minacce, ma i bolognesi si mostrarono irremovibili. Così
gli risposero i bolognesi con una lettera redatta dal giovane notaio
Rolandino Passeggeri:
"Venga il Signore e i nostri nemici siano
completamente dissipati, perché confidiamo più nella forza che nel
diritto. Esaltati dalla loro massima superbia, credono di soggiogare gli
altri con il terrore e le minacce. Ma non sempre colpisce l’arco
minaccioso, né il lupo può rapire la pecora a cui agogna. Non cercate
dunque di spaventarci con gonfie parole, e tenete per certo che non
siamo simili né a canne che si agitano ad un debole vento, né a brine
che spariscono al primo raggio di sole. Perciò sappiate che abbiamo
tenuto e terremo prigioniero re Enzo, il glorioso figlio vostro, come
persona che crediamo di nostro diritto: e se voi volete vendicare la
vostra offesa, bisogna che usiate la forza, alla quale è lecito
ribattere pur colla forza, né pensiamo che vi riuscirà di farlo. Ci
cingeremo perciò a fianco le spade e manderemo ruggiti come leoni, se
verrete quale nemico. Né l’immensa moltitudine sarà di aiuto a
vostra Magnificenza, perché la sentenza degli antichi suole dire che,
dove è moltitudine, ivi è pure di solito confusione, e da un piccolo
cane spesso è dominato anche un cinghiale".