La gara col falcone
Per i due compari siciliani, la vita scorreva senza
particolari problemi. Turiddu e Ciccio, addetti al serraglio del grande
Imperatore, si erano perfettamente ambientati a quella vita randagia,
sicuramente meno faticosa di quella passata per anni sui campi. Pur se
tra belve e Saraceni, che in qualche modo classificavano allo stesso
livello, soprattutto quel loro capo Abdul che continuava a guardarli in
cagnesco, non potevano lamentarsi di come il loro sovrano li aveva
sistemati. Turiddu controllava a vista le sue due bestiole, alle quali
dovevano essere grati, mentre Ciccio si divertiva a giocherellare con
quel grosso pachiderma che affettuosamente chiamavano "Malik",
nomignolo appioppatogli dallo stesso Federico II in ricordo del suo
amico sultano che glielo aveva regalato. Abdul, che era sempre
sospettoso e poco benevolo nei loro riguardi, quel pomeriggio sembrava
particolarmente accattivante, anzi quando Ciccio passò dinanzi alla
gabbia del suo leone, le sue guance si aprirono ad un sorriso ed i suoi
neri mustacchi si sollevarono fin quasi sotto i suoi occhi.
"Finalmente domattina faremo i conti, amico
mio!", gli mormorò con un tono che non lasciava presagire nulla di
buono.
"Mangeremo le bistecche del tuo leone, caro
Abdul?", gli fece eco Ciccio con aria canzonatoria.
"No! Caro Ciccio! Mangeremo allo spiedo le
vostre due pollastrelle!", sghignazzò Abdul emettendo quasi un
grugnito.
Ciccio rimase perplesso a quella frase, e sentì come
se il mondo gli crollasse addosso.
"Arrosto le nostre pernici? Vieni a prenderle,
se hai coraggio; ci sono due grossi bastoni che ti aspettano", gli
rispose Ciccio, tornando immediatamente sui suoi passi.
Corse dal suo amico Turiddu e lo trovò intento a
somministrare il mangime alle due pernici che fortunatamente erano ben
nutrite ed ancora sane e salve. Non fece in tempo a raccontare quanto
gli aveva riferito Abdul, che Turiddu, vedendolo agitato e nero in
volto, gliene chiese il motivo.
"Abdul domani vuole fare un arrosto con le
nostre pernici, caro compare! Ma io quello lo ammazzo se solo si
avvicina alle nostre bestiole", farfugliò agitato.
Turiddu rimase perplesso, a quelle parole.
"Domani, hai detto? Ho sentito in giro che
domani l’Imperatore vuole andare a caccia col falcone. Cosa c’entrano
le nostre pernici? Resta di guardia, torno subito!", ordinò a
Ciccio, scomparendo tra le gabbie.
Quando, dopo circa mezz’ora, fu di ritorno, si
accasciò al suolo stringendosi la testa fra le mani e quasi piangendo
spiegò all’amico che ormai la loro fine era vicina.
"La loro e la nostra fine, Ciccio! Quel
maledetto Abdul ha convinto l’Imperatore a fare una prova, un
esperimento, come dice lui, molto importante, ma sulla pelle delle
nostre pernici. Sarà un esperimento di caccia, maledetto Abdul! E pure
l’Imperatore che gli dà retta! Capisci cosa vogliono sperimentare?
Vogliono legare le due pernici ad un cespuglio, e lanciare il loro
falcone più esperto da una distanza di mille piedi. Sono certi che il
falcone, dalla vista acutissima, individuerà le pernici e con un balzo
sarà loro addosso! Da metà distanza non ha mai fallito! Ma che razza
di esperimento è questo? Non possono usare come esca due colombe o due
fagiani? No! Le nostre pernici, perbacco! Ma io vado dall’Imperatore e
cercherò di convincerlo che le due pernici sono molto preziose per noi
ma soprattutto per lui che, se le vuole studiare, deve farlo mentre sono
vive e non quando saranno nello stomaco di quel maledetto ubriacone di
Abdul!", gli spiegò Turiddu trattenendo il fiato.
"Bravo! Vai dall’Imperatore a dirgli che sta
facendo una fesseria! Quello, sensibile ed irascibile com’è, sarebbe
capace di piantarti i suoi stivali nel basso ventre, come dicono abbia
fatto in altre circostanze. Sempre che non ti faccia appendere ad un
palo. Non pensiamo più alle pernici, e facciamo conto che siano finite
in bocca ad un cane", gli rispose Ciccio preoccupato.
I due rimasero tristi e senza parola. Non era così
facile andare a perorare la loro causa presso l’Imperatore che, se
aveva acconsentito a quell’esperimento, sicuramente proposto da Abdul
per sbarazzarsi dei due rompiscatole sbucati dal nulla, non avrebbe
certo fatto marcia indietro così facilmente. Una parola di re è un
ordine, che non può essere né contraddetto né disatteso. Bisognava
escogitare qualcosa per parlare con l’Imperatore, prima che fosse
troppo tardi. Ancora poche ore e sarebbe stata la fine.
Il sole stava tramontando dietro le montagne, ed i
suoi ultimi raggi dorati rischiaravano l’accampamento. Turiddu che s’era
allontanato per qualche minuto con la scusa di un urgente bisogno
fisico, era da poco tornato. Ciccio lo vide un po’ agitato farfugliare
frasi a mezza voce: "Vedremo, vedremo, se quel farabutto di Abdul l’avrà
vinta!".
Tutto ad un tratto s’udì l’urlo di un saraceno,
una voce che gridava: "Al fuoco! Al fuoco!". Effettivamente da
un carro del serraglio si alzavano lingue di fuoco ed un denso fumo
cominciava a diffondersi dappertutto. Fu una corsa generale, e chi con
secchi d’acqua, chi con bastoni, si precipitò verso il carro che
ardeva e che rischiava d’innescare un grosso incendio alle tende
circostanti. Turiddu fu tra i primi ad accorrere, scompariva e
ricompariva in mezzo al denso fumo, impartiva ordini a destra ed a
manca, gettava secchi d’acqua. Spento finalmente il fuoco, rimase lì
impalato, nero come il carbone, dando l’impressione che avesse portato
a termine da solo quel pericoloso lavoro di spegnimento. Intanto la voce
che l’accampamento stesse per andare a fuoco era giunta alle orecchie
dell’Imperatore che, visibilmente preoccupato, s’era recato di
persona a controllare i fatti. E non gli restò che complimentarsi con
quello che sembrava l’artefice del lavoro di spegnimento: Turiddu.
"Ma tu sei mastro Turiddu, il siciliano che ci
ha regalato due magnifiche coturnici", l’apostrofò l’Imperatore.
"Si maestà!", rispose Turiddu
sprofondandosi in un inchino. "Povere pernici! Resteranno vive
ancora per poco, maestà, visto che domani Abdul le darà in pasto ad un
vorace falcone. Se non oso troppo, maestà, vorrei chiedervi se è
possibile salvarle dal momento che, come Voi stesso avete detto, sono
due rari esemplari".
"Comprendiamo la tua angustia, Turiddu, ma le
nostre esigenze scientifiche esigono che facciano da esca a quel
magnifico falcone addestrato per l’occasione. Anche a me spiace
sacrificare quei due magnifici esemplari. Ti lascio una possibilità,
comunque: sei stato furbo ed abile a catturarle, vedremo se sarai
altrettanto abile e furbo a salvarle dagli artigli del falcone di Abdul!".
Così dicendo, soddisfatto e quasi ridacchiando, se
ne tornò nella tenda imperiale. Turiddu rimase perplesso a quelle
parole dell’Imperatore: "Se sarai abile e furbo". Cosa
voleva dire quel diavolo d’un tedesco? Mi vuole suggerire d’avvelenare
il falcone, prima che inizi la gara? O di dare una mazzata in testa ad
Abdul, ed evitare così che la prova possa avere luogo domani?
"Credi che non t’abbia visto? Per poco mandavi
a fuoco tutto l’accampamento", disse Ciccio a Turiddu, quasi
volesse rimproverarlo.
"E che dovevo fare? Andare a bussare alla tenda
dell’Imperatore per dire: Maestà, salvate le mie pernici? Vedrà, se
saremo abili e furbi", mormorava Turiddu a Ciccio mentre insieme se
ne tornavano nella loro tenda. La sua mente di furbo contadinotto, che
in genere era un vulcano d’idee, era andata in confusione. Fare un
errore significava andare incontro a grane per sé e per l’amico. Al
diavolo le due pernici, ciò che contava era avere salva la pelle,
potere tornare al villaggio col gruzzolo promesso alla sua Rosalia e
raccontare quanto di straordinario avevano ed avrebbero visto. Adesso
non restava che fare una bella dormita per trovarsi in forma l’indomani.
Il campo di gara era una enorme radura, priva di
alberi ma coperta di sterpaglie d’ogni genere. Abdul lanciava ordini
ai suoi falconieri, aveva di persona misurato la distanza tra quella
grande acacia al limite della radura e la collinetta che s’intravedeva
a notevole distanza: mille piedi, appunto. Dette ordine a Ciccio e
Turiddu di legare per le zampe le due pernici e di affrancarle a due
sassi nei pressi dell’acacia, in modo che potessero svolazzare ma non
volare. Consegnò il valoroso falcone all’addetto con l’ordine di
recarsi nella postazione stabilita. Questi, che lo teneva poggiato sul
braccio destro, protetto da un particolare guantone per proteggersi
dagli acuti artigli del volatile, prima d’allontanarsi verso la
postazione di lancio avvicinò il falcone alle due pernici, quasi a
volergli fare annusare le sue future prede. Il falcone ebbe uno scatto
improvviso verso le due pernici, e solo un’abile mossa di Abdul
impedì che l’acuto becco della bestia ponesse termine alla gara prima
ancora d’iniziare. Un fremito percorse Turiddu e Ciccio che,
standosene lì vicino in disparte, si scambiarono un’occhiata d’apprensione.
Tutto ormai era pronto per la prova, mancava soltanto l’Imperatore che
non tardò ad arrivare in sella al suo magnifico cavallo orientale.
Sceso da cavallo, sedette nei pressi della postazione delle due vittime
designate. Anche il suo scrivano e disegnatore particolare era al suo
posto d’osservazione. Su un grande foglio aveva disegnato il campo
dove si stava svolgendo la prova: il grande albero con le due povere
pernici accucciate tra l’erba e che, quasi a presagio della loro
imminente fine, emettevano strani lamenti, il falconiere con in mano il
falcone alla distanza di mille piedi, l’eventuale traiettoria della
lunga evoluzione che avrebbe fatto il rapace prima di lanciarsi a
capofitto.
L’arrivo dell’Imperatore aveva messo in subbuglio
quanti si trovavano sul campo per i motivi e gli incarichi più
disparati. Mentre Abdul correva a rendere omaggio all’Imperatore,
Turiddu e Ciccio, come d’accordo, approfittando della distrazione di
Abdul, quatti quatti, strisciarono a ridosso delle pernici eseguendo in
un baleno l’operazione concordata in precedenza, e rimasero
seminascosti dall’erba abbastanza alta nei pressi delle loro creature
prossime al sacrificio.
Turiddu chiuse gli occhi, pensò per un attimo a
Rosalia ed ai figli che aveva promesso di darle, si raccomandò l'anima
a Dio. Sapeva che l’Imperatore non perdonava facilmente gli sgarri e
le offese. "Tanto lui cos’aveva da perdere?", andava
meditando. "Era lui il capo supremo, indiscusso, quasi un dio per i
suoi uomini. Si sentiva offeso? Se era di buon umore ti faceva
avvicinare, ti metteva a tuo agio, quindi ti mollava un calcione dove
capitava, altrimenti bastava un cenno, ed un suo saraceno ti tagliava la
gola in quattro e quattr’otto! Certo "cumannàri è mìagliu ca
fùttiri", nel mio villaggio, ma questo non solo comanda, ma…!
Vuoi vedere che per due pernici sarò costretto a fare l’eunuco nel
suo harem per tutta la vita! Questo no! Qualsiasi cosa, ma questa non
deve succedere".
L’Imperatore alzò un braccio in segno d’inizio
della gara, un falconiere emise tre suoni rauchi e stonati col suo
corno, Abdul agitò una bandiera bianca per segnalare al falconiere all’altro
capo del campo che tutto era pronto e che poteva lanciare il vorace
falcone. Furono attimi di tensione per Turiddu e Ciccio, immobili nelle
loro postazioni. Il falcone, prima accarezzato e coccolato dal suo
addestratore, venne lanciato in alto con forza; con un veloce battito di
ali si librò nell’aria, eseguì un piccolo girotondo quasi volesse
studiare la giusta direzione da prendere, si abbassò fin verso il
falconiere, quasi volesse salutarlo e ringraziarlo, risalì ancora in
alto, quindi, ritraendo le ali e portando l’elegante testa in avanti,
iniziò una velocissima picchiata verso l’acacia, puntando dritto in
direzione delle pernici. Queste, inconsce del loro destino, piuttosto
che starsene quiete e camuffarsi nell’erba, si agitavano e
svolazzavano come due oche selvatiche, evidenziando meglio, ancorché ce
ne fosse stato bisogno, la loro posizione agli acutissimi occhi del
falcone.
"Attento, Ciccio, tieniti pronto, sta
arrivando!", disse Turiddu all’amico.
"Sono pronto a dargli il benvenuto!", gli
rispose Ciccio dalla sua postazione.
Abdul non stava in sé dalla gioia, mentre con le
mani intorno agli occhi, per proteggersi dalla luce accecante del sole,
seguiva il volteggio del rapace. Anche l’Imperatore, estasiato dalle
eleganti evoluzioni di quel magnifico uccello, ne seguiva l’avvicinarsi
verso le sue prede ormai senza scampo.
Il rapace sembrava una velocissima ed elegante saetta
diretta con precisione verso il bersaglio designato. Ondeggiò
vistosamente sulla sua destra, si spostò a sinistra per prendere quota
e velocità, quindi in men che non si dica, dopo una picchiata
mozzafiato si trovò faccia a faccia con le due pernici. Per Turiddu e
Ciccio si trattava di calcolare bene la distanza per rendere più
efficace il dispetto al falcone assetato di sangue; giunto a pochi palmi
dalle pernici, Turiddu gridò:
"Ciccio, tira!".
"Tira anche tu!", rispose Ciccio.
E tirate le due cordicelle che legavano le pernici
per le gambe, se le ritrovarono rispettivamente in braccio, sane e
salve, mentre il falcone, come confuso e impazzito per l’improvvisa
sparizione delle prede e per l’alta velocità con cui arrivava, andò
a schiantarsi contro il tronco dell’acacia con un secco tonfo. Vi
rimase appeso per il becco acuminato per qualche secondo, sbatté appena
le ali come se esalando l’ultimo respiro si raccomandasse l’anima a
Dio, quindi cadde sull’erba generando un piccolo fruscio, intanto che
le sue piume bianche e grigie volteggiavano nell’aria come fiocchi di
neve.
Furono attimi di tensione e di sgomento: per Abdul
che trovandosi a pochi passi dall’albero aveva seguito le ultime mosse
dei due compari, per l’Imperatore che non immaginava né sospettava
minimamente un simile epilogo, per il disegnatore che rimase con la
penna d’oca sospesa a mezz’aria. Tutti si girarono a guardare l’Imperatore
per vedere la sua reazione, che si aspettavano violenta, e non poteva
essere diversamente; come minimo avrebbe dovuto essersi sentito preso in
giro dai due contadinotti che gli stavano rovinando lo spettacolo. Abdul
corse verso l’albero alla ricerca del suo falcone sparito tra l’erba.
Non c’era più nulla da fare: era morto per lo schianto violento. Si
lanciò allora contro Turiddu che, capite le sue intenzioni, fece appena
in tempo a consegnare la sua pernice a Ciccio, che tutt’e due
rotolarono sul terreno ingaggiando una violenta lotta.
"Fermi!", urlò l’Imperatore, facendo
quindi un gesto come per dire che i contendenti si avvicinassero a lui.
Cosa che avvenne immediatamente.
"Maestà!", esclamò Turiddu agitato,
chinandosi imbarazzato ai suoi piedi. "Vi chiedo perdono per quanto
successo al Vostro falcone, ma non avevamo altra scelta per salvare le
due povere pernici".
Turiddu tremava di paura; non solo si vedeva
penzolare da un albero con la corda al collo, ma temeva di peggio. In
quegli attimi di tensione si ricordò di quanto aveva raccontato Abdul
in occasione della conquista della città di Jato, un decina d'anni
prima. L'emiro Ibn Abbad, sconfitto da Federico, s'era prostrato ai suoi
piedi ad implorare perdono per sé e per la sua numerosa famiglia. Ma la
collera dell'Imperatore era troppo grande per accordare il perdono
supplicato da chi aveva osato opporre una strenua resistenza al suo
esercito. In quella circostanza, Federico lasciò che l'emiro si
chinasse ai suoi piedi per poi colpirlo con un violento calcio al basso
ventre e lacerargli la schiena con un colpo di sperone.
Turiddu rimase chinato ai suoi piedi e, molto
imbarazzato, portò le mani in avanti come a proteggere i suoi
attributi, che già sentiva doloranti, da un’eventuale collera
dell'Imperatore.
Federico, ascoltate le parole di Turiddu, fece un
gesto con l’indice facendo intendere al complice Ciccio d’avvicinarsi;
questi, con in mano le due pernici ancora impaurite e svolazzanti,
eseguì immediatamente l’ordine e corse anche lui a chinarsi ai suoi
piedi, assumendo una posa alquanto buffa per via dei volatili che,
ignari d’averla scampata per un soffio, non volevano saperne di stare
tranquilli.
Per tutto il campo regnava il silenzio che precede la
lettura di una sentenza, sicuramente di severa condanna. Negli occhi dei
presenti, dai falconieri, agli inservienti, ai battitori, si poteva
leggere il disappunto per la fine del falcone e per il brutto tiro
architettato dai due compari. Solo il viso dell’Imperatore, cui erano
rivolti tutti gli sguardi, sembrava imperscrutabile, anche se le sue
labbra sembravano predisposte ad un timido ma ben celato sorriso; come
se dentro di sé scoppiasse dal ridere, ma le circostanze gli imponevano
dal mostrarlo agli astanti. Doveva apparire serio, molto serio. E
sembrava volere dire: "Me l’hanno fatta grossa i due compari
siciliani, eh! E adesso che faccio? Ordino il taglio della mano destra o
li faccio impiccare? Hanno fatto morire il mio migliore falcone reale
per salvare le loro miserabili pernici; magari l’hanno fatto per
eccesso di zelo nei miei riguardi, avendomi visto entusiasta per gli
elogi fatti a quei due esemplari. Cosa non sono andati ad escogitare,
figli di buona madre!".
"Deploriamo il vostro comportamento per avere
sacrificato il nostro più valido falcone", esordì l’Imperatore
rivolto a Turiddu e Ciccio, per poi continuare: "Tuttavia, visto
che l’esperimento ha avuto un buon esito e che lo scopo della prova
era di valutare da quale distanza un falcone è in grado di sentire e
vedere una preda, siamo contenti che le due coturnici siano rimaste
incolumi. Riconosciamo che forse sono state le nostre parole a
suggerirvi di architettare il piano che avete messo egregiamente in
opera. Ordiniamo pertanto che d’ora in avanti quei magnifici volatili
siano ben custoditi e non più sottoposti ad esperimenti cruenti;
ordiniamo altresì che voi due siate appesi per i piedi all’acacia
dove s’è spiaccicato il nostro falcone".
Intanto che il pittore ultimava il suo disegno che,
su suggerimento dell’Imperatore, raffigurava il valoroso falcone nell’atteggiamento
di ghermire le due prede, Ciccio e Turiddu furono presi in consegna da
due Saraceni. Un visibile pallore s’impadronì dei due compari che non
ebbero la forza di profferire parola, né di chiedere perdono e
misericordia a sua maestà che, spronato il suo cavallo Drago, tornò al
galoppo verso la tenda imperiale.
Legati mani e piedi, penzolavano a testa in giù
appesi a due rami di quell’acacia maledetta. E dondolavano leggermente
a destra e a manca, un po’ per il leggero vento di tramontana, un po’
perché si agitavano, com’è naturale che fosse, data la scomoda
posizione.
"Turiddu!", urlava Ciccio, dimenandosi.
"Te lo dicevo che avremmo fatto una brutta fine! Avremmo fatto
meglio a mangiarcele quelle maledette pernici, o cornutici, come le
chiama il tuo Imperatore. Adesso saranno i rapaci a mangiare il nostro
cervello".
"Stai calmo e non sprecare il fiato, Ciccio! Sei
anche ignorante: l’Imperatore dice che si chiamano coturnici e non
cornutici! Come ti vedo buffo, a testa in giù! Mi sembri lo
spaventapasseri di paglia che anni addietro abbiamo costruito alla Cuba,
per difendere l’orto dai corvi", lo canzonava Turiddu.
"Stai per morire e tieni ancora tanta voglia di
scherzare? Sento la testa pesante e tutto il sangue al cervello; fai
qualcosa Turiddu, fai qualcosa!", implorava Ciccio.
"Preparati per l’estrema unzione, Ciccio;
stavolta l’abbiamo fatta grossa; hai visto che faccia ha fatto l’Imperatore?
Non ci resta che pregare!", gli rispondeva Turiddu.
"Ciccio, rispondi! Ciccio, come stai?",
insisteva Turiddu, ma Ciccio non dava segni di vita.
"Abdul, per pietà! Aiuta Ciccio, per
pietà", urlava Turiddu all’indirizzo di Abdul, rimasto di
guardia ai piedi dell’acacia.
Abdul li guardava compiaciuto e rideva, rideva dei
due compari così furbi d’avere suscitato l’ira dell’Imperatore. D’accordo
l’amicizia e la confidenza durante una battuta di caccia, ma l’esagerazione!
Quello non era il cacciatore della porta accanto, col quale puoi
permetterti tutte le licenze di questo mondo, ma un cacciatore
particolare, nientemeno che l’Imperatore di Germania, il re di Sicilia
e di Gerusalemme! E per due misere pernici ci stavano rimettendo la
pelle.
"Siete due matti, voi. Io che posso farci? Se vi
tiro giù, l’Imperatore mette me al vostro posto. Perciò meglio che
ci restiate voi, cari compari!", gli rispose Abdul che, soddisfatto
in un primo momento del giusto castigo, cominciava ad impietosirsi per
la misera fine che fra poco avrebbero fatto quei due disgraziati.
"Io potrei anche liberarvi, amici miei, ma …".
In quel frangente s’udì un fruscio, come le zampe
d’un cavallo che avanzavano tra l’erba. Era proprio così, l’Imperatore
in persona, con al seguito un paio di valletti e falconieri, s’avvicinava
all’acacia della tortura.
"Abdul! Tira giù Ciccio e Turiddu! Credo che la
punizione sia stata esemplare, per questa volta! Spero che per
l'avvenire possano mettere giudizio dopo lo spavento che hanno
sofferto", ordinò, tornando immediatamente sui suoi passi.
Abdul non se lo fece ripetere due volte, ed in un
attimo scaricò a terra come salami i due malcapitati che, liberi di
muoversi come cristiani, corsero ad abbracciarlo come un salvatore.
Fortuna per Ciccio e Turiddu che l’Imperatore quel
giorno era in vena di sollazzarsi, e i due compari siciliani gliene
avevano dato modo; in caso contrario sarebbero stati guai seri, e
sicuramente sarebbero rimasti appesi a quell’albero fino ad essere
scorticati vivi dai rapaci. Per Federico la caccia era una cosa seria,
un motivo di studio; ma nello stesso tempo un momento di svago e di
riposo dai suoi molteplici impegni quotidiani. Gli affari di stato e
dell’amministrazione lo impegnavano continuamente, spesso doveva
correre per sedare rivolte e reprimere congiure, emettere sentenze,
studiare nuove leggi col suo più fidato logoteta Pier delle Vigne,
tenere a bada l’ingordigia e la prepotenza del Papa; perciò, quando
poteva, era felice di dedicarsi alla passione che traeva origini dai
suoi lontani antenati. Nell’attività venatoria era circondato e
coadiuvato da valletti e falconieri reali, appartenenti a nobili e note
famiglie, che maneggiavano gru e girofalchi con grande abilità e
perizia, ma con serietà e rispetto delle etichette. I due compari
siciliani, invece, che avevano suscitato la sua simpatia sin dal loro
primo apparire, coi loro comportamenti buffi, ma schietti e naturali,
gli infondevano il rilassamento in fondo necessario in quell’attività
che era sì studio ed attenta osservazione della natura, ma soprattutto
un incomparabile e sollazzevole passatempo. Quella loro piccola
manchevolezza, dovuta ad esuberanza, poteva quindi essere perdonata,
visto che le gabbie imperiali erano stracolme di falconi, gru e
girifalchi.