1^ Parte L’arruolamento
L’arruolamento
"Brecatabrè! Brecatabrè! Sintiti,
sintiti! Cumannu e cumannamìantu, ordini di sò Maistà lu Re Federicu
Secunnu! Brecatabré! Brecatabré! Cu si vulissi arrulari
ni lu sò esercitu pi cummàttiri lu ‘nnimicu, havi tìampu finu a
stasira, pirchì dumani si parti pi Palermu! La paga è bona e lu
mangiari è assicuratu! Brecatabrè! Brecatabrè!".
Correva l’anno 1233 quando l’imperatore Federico
II di Svevia, quasi ignorando i problemi del nord della Penisola ed in
particolare quelli sempre più gravosi della Lombardia, decise di
scendere in Sicilia per porre rimedio ad una situazione politica che
altrimenti rischiava di degenerare in aperta rivolta. Molte città dell’Isola,
infatti, avevano sollevato la testa, e tentavano di misconoscere la sua
autorità imperiale. Federico, quasi dimentico della sua proverbiale
equità e giustizia, a quell’offesa reagì con inusitata rudezza, non
trovando altro modo per domare le città siciliane che si erano
ribellate, che stroncarle con la forza delle armi e della violenza, e
con una determinazione che non aveva precedenti. Proprio nella sua amata
terra doveva scrivere le pagine più ignominiose e più infamanti della
sua storia, mettendo in mostra il lato peggiore della sua violenta
natura, evidentemente ereditata dal padre Enrico VI, che in più
occasioni ne aveva fatto sfoggio. Questi infatti, a suo tempo, aveva
messo al rogo buona parte della nobiltà dell’Isola, fatto accecare e
castrare il piccolo Guglielmo, figlio della regina Sibilla,
dissotterrato e fatto decapitare, in presenza della plebaglia esagitata,
i corpi di Tancredi, figlio di Ruggero II, erede al trono di Sicilia, e
di Ruggero, il maggiore dei suoi figli. E, coincidenza nefasta, tutto
ciò avveniva lo stesso giorno della nascita del figlio Federico
Ruggero: il giorno di S. Stefano del 1194!
Federico, dal momento che si riteneva ispirato
direttamente da Dio, considerava come un sacrilegio qualsiasi
opposizione ai suoi voleri e soprattutto alla propria persona. Dopo l’emanazione
delle nuove leggi e dei recenti regolamenti, tutta la Sicilia doveva
soggiacere alle imposizioni centrali del regno, e singoli capi locali,
fazioni, chiese e piccoli feudali dovevano perdere, in base alle nuove
disposizioni, ogni parvenza di potere. Perciò, appellandosi alle leggi
antieretiche delle recenti Costituzioni di Melfi, da lui stesso
promulgate l’anno precedente, mandò al rogo i responsabili dei
disordini e fece strage di quanti, baroni e semplici cittadini,
arrendendosi nelle chiese dove si erano rifugiati per invocare clemenza,
speravano fiduciosi nel suo perdono. Massacri e distruzioni ebbero luogo
in tutta la Sicilia orientale, da Catania a Messina, da Nicosia a
Siracusa, da Traina a Capizzi. In particolare della guelfa Centorbi,
che aveva osato resistere al suo esercito, venne fatta "tabula
rasa", venne letteralmente rasa al suolo e decimati i suoi
abitanti. I superstiti, ridotti in schiavitù, furono deportati ad
Augusta, città appena fondata. Sembrava ormai un ricordo il viaggio
"di studio" del piccolo pupillo di Innocenzo III, nella
primavera del 1209: allora quasi quindicenne ed appena sposato con la
matura Costanza, aveva attraversato gli stessi paesi sempre in rivolta
(che adesso aveva rasi al suolo), e li aveva sottomessi senza l’uso
delle armi, ma con la potenza degli editti imperiali!
Accecato dall’ira e da una straordinaria sete di
vendetta, sembrava avere dimenticato la tolleranza che aveva sempre
avuto verso i suoi nemici, e che pochi anni prima, con la quinta
crociata, aveva conquistato la Città Santa di Gerusalemme senza
spargere una sola goccia di sangue, grazie alla spiritualità dell’Islam
di cui era pervaso, all’accordo e al reciproco rispetto che si erano
venuti a creare col sultano Malik al-Kamil. E che questo fatto di
straordinaria importanza, aggiunto a tanti altri meriti, aveva fatto
gridare il mondo d’allora ad un "Fridericus stupor mundi",
stupore del mondo intero.
Proprio l’anno precedente, nel 1232, quindi in
pieno Medioevo, Federico II di Svevia, re di Sicilia, tra una campagna
militare ed una dieta, trovava il tempo per donare il "Feudum
Minzarum", situato nel centro della Sicilia, al Vescovo Ursone
di Girgenti. Feudum Minzarum (poi Balatazza e quindi Montedoro),
che ci interessa da vicino.
All’inizio dell’anno appresso, nel piccolo
villaggio di Balatazza, a ridosso della gialla collina, risuonava la
voce del baffuto banditore Minicu Lisina, preceduta e seguita dal rumore
assordante del suo possente tamburo che si portava a tracolla ed
appoggiato all’enorme pancione. Invitava quanti, stanchi e disperati,
volessero abbandonare i campi per seguire il loro Re, Federico II, verso
il nord della Penisola, alla ricerca di gloria contro i suoi acerrimi
nemici: il sempre minaccioso esercito papale e la Lega Lombarda,
costantemente in armi. L’eco delle sue gesta aveva varcato ogni
confine, e giungeva persino in quella piccola comunità che si era
adattata a convivere con una natura non sempre benigna ed a lavorare i
campi, desolati ed arsi dal sole, che costituivano la loro primaria
ricchezza, e dai quali traevano ogni risorsa di vita. Oltre al sole e
alla dura fatica di tutti i giorni, abbondava la cacciagione, da quelle
parti: e due ardimentosi abitanti della comunità erano capaci di
riempire con conigli e pernici i loro capienti carnieri, ogni qualvolta
decidevano di sollevare la schiena da quel maledetto rudimentale aratro
di legno. Per dissodare quella secca e dura terra, erano costretti ad
imprimere al loro primordiale attrezzo di legno più forza dei loro
stessi poveri e macilenti muli, se volevano aprire un solco capace di
fare germogliare una sia pur piccola spiga.
Abili e valenti cacciatori, erano rimasti estasiati
da quanto il banditore, dai mustacchi all’insù, andava raccontando
sul loro Re, sulle sue battaglie contro gli infedeli, sugli strani ed
esotici animali, tigri, dromedari, leopardi e mastodontici elefanti, che
si portava appresso nei suoi spostamenti, sulle carneficine perpetrate
ai danni dei suoi nemici, e soprattutto sulla sua abilità nell’arte
della caccia, utilizzando nientemeno che un falcone! L’idea poi che un
uccello, debitamente addestrato ed allenato, potesse cacciare da solo
per conto del suo padrone, facendo risparmiare tempo e fatica, li
mandava in visibilio.
"Posso capire un cane ben addestrato che va a
scovare un coniglio: il cane è un animale intelligente, con lui quasi
parli, l’accarezzi, lo puoi incitare mentre annusa le tracce lasciate
da un animale selvatico, ne segue la scia e ti porta diritto al suo
nascondiglio. Ma come fai ad addestrare un piccolo falco, dagli artigli
acuti e pericolosi? Quello vola e se ne va per i fatti suoi! Sempre che
prima non ti abbia cavato un occhio, come mi stava capitando lo scorso
anno, con quel falchetto catturato a Pupiddu!", argomentava Ciccio
rivolto all’amico.
"E allora il furetto? Chi potrebbe immaginare
che un animale simile ad una donnola, puzzolente e dai denti aguzzi,
possa mettersi all’inseguimento d’un coniglio, ed esplorare una tana
immensa, composta da mille e mille cunicoli sotterranei? Secondo me, è
possibile che un falco addestrato a dovere, possa ubbidire al suo
padrone, come un cane od un furetto, ed essere adoperato per la
caccia", gli rispondeva il compare Turiddu.
"Allora, caro compare, non ci resta che andare a
controllare di persona, e magari sperimentare questa nuova tecnica di
caccia che a me sembra un po’ strana; ma se la pratica l’Imperatore
sicuramente sarà una cosa seria! Avete sentito il banditore Lisina? L’Imperatore,
che passerà domani da queste parti, cerca soldati che abbiano voglia di
seguirlo nelle sue imprese. La paga è buona, ed io non ho voglia di
passare la vita a rompermi la schiena dietro un mulo per aprire solchi
su queste terre aride e dure. Se siete d’accordo, ci arruoliamo
insieme, ed andiamo a combattere per il nostro Re: e per la nostra paga,
naturalmente! Vuoi vedere che quello stregone d’un Imperatore manda i
falchi a cavare gli occhi ai suoi nemici, per poi infilzarli con la
spada? Se ne raccontano tante sul suo conto, e questa potrebbe essere
una delle sue ingegnose trovate".
"Io ci sto! Hai mai visto insieme dieci
imperiali? I cavalli sono già pronti e sellati, le armi possiamo
procurarcele da mastro Ludovico, e via! Sono proprio stanco di
continuare a mangiare pani e sputazza, e di zabbatiari sempre più nella
miseria, caro compare!", gli rispose Turiddu, gli occhi arrossati d’emozione,
al solo pensiero che finalmente aveva tra le mani la possibilità di
mutare corso alla sua triste esistenza. Stanco sì dell’aratro e dei
campi che a malapena fornivano il necessario per non morire di fame, ma
stufo di soggiacere alle imposizioni ed ai soprusi di quei pochi
signorotti del piccolo contado, adusi al comando ed alle imposizioni
più umilianti.
Il bando imperiale, infatti, recitava: "Chi
aderisce a diventare soldato del Re, seguendolo nelle sue gloriose
imprese, riceverà subito dieci imperiali d’oro, per procurarsi un
cavallo e le armi, mentre la paga consisterà nella suddivisione del
bottino di guerra: più grosso il bottino, più grande sarà la
paga!".
E così, Ciccio e Turiddu firmarono il foglio di
arruolamento mostrato loro da Minicu Lisina, ed in quattro e quattr’otto,
senza possibilità di ripensamenti, pena la propria testa, divennero
soldati del grande Imperatore.
Non avevano, né potevano darsi l’aria da cavalieri
i due nostri compari, anche se possedevano un cavallo addestrato per i
lavori di campagna. Ogni tanto andavano al trotto per le trazzere del
circondario e prendevano parte al palio che si celebrava ogni anno
intorno alla piccola chiesa del feudo. Altro che cavalieri di sua
maestà! Avrebbero fatto ridere l’intero esercito di Federico II. Ma
Ciccio e Turiddu erano due ardimentosi che non si lasciavano fiaccare
facilmente dalle avversità della vita quotidiana, abituati com’erano
a vivere alla giornata, di espedienti di ogni genere e furberie. E il
coraggio? Andare in guerra significava partecipare a cruente battaglie,
mozzare teste e gambe al nemico, infilzare con la spada prima d’essere
infilzato come una "mammatessa". Ma a questo non pensavano i
due ardimentosi, presi dal desiderio di nuove avventure e decisi a
cambiare vita. Avrebbero imparato a combattere e ad usare la spada solo
per difendere la propria pelle.
Scene strazianti si verificarono quando, prima della
partenza, si presentarono al cospetto delle loro rispettive famiglie. Ma
il luccichio di quelle monete d’oro e la promessa che altre ne
sarebbero arrivate da lì a poco tempo, smorzarono ogni affanno e
prosciugarono le abbondanti lacrime di dolore.
"Mi sembri un salame, con quelle armi addosso.
Vedi di tornare presto e con la testa sul collo!", disse Rosalia al
suo promesso Turiddu, intanto che lo abbracciava e lo riempiva di baci e
di carezze.
"Tornerò vivo e vegeto, così come mi vedi
adesso. Non temere per me, lo sai che so cavarmela in tutte le
circostanze", le rispose Turiddu, sicuro di se.
"Dovevamo sposarci dopo la raccolta del grano,
non partire Turiddu mio, come farò da sola. Lo sento che non tornerai
mai più!", singhiozzava disperata.
"Non piangere, Rosalia! Vedrai che, al massimo
tra un anno, sarò di ritorno con un bel gruzzolo e potremo sposarci
come promesso. Tu pensa ai vecchi e non scordarti di me", la
rincuorava Turiddu mentre tentava di raggiungere il suo cavallo. Ma lei,
attaccata come una sanguisuga al suo Turiddu, non lo mollava; solo
quando con un balzo fu in sella alla sua bestia e si scambiarono l’ultimo
bacio, Rosalia lasciò la preda, e sconsolata e affranta si lasciò
cadere sull’erba coprendosi con le mani gli occhi bagnati da
abbondanti e sincere lacrime, per non vedere il suo amato allontanarsi
tra gli alberi.
Turiddu infatti, spronato il cavallo, partì al
galoppo per andare a raggiungere l'amico Ciccio che lo aspettava nei
pressi del ponte sul piccolo fiume Ued Dur, evitando di girarsi verso
Rosalia per non restare preda della commozione. Aveva deciso di partire
verso un’avventura che poteva rivelarsi molto pericolosa, e non era il
caso di lasciarsi intenerire da sentimenti che avrebbero potuto tirare
brutti scherzi. Tornò ad incitare il cavallo, e presto fu nei pressi
della contrada Cuba, luogo stabilito per l’appuntamento con Ciccio.
"E’ stata dura separarmi dai miei", disse
Ciccio all'amico Turiddu. "La mia povera e vecchia madre
singhiozzava a dirotto, e non riusciva a staccarsi dal mio collo. Ti
confesso che anch’io ho pianto a vederla in quello stato. Spero che
riesca a vivere tranquilla i pochi anni di vita che ancora le
restano".
"Anche per me non è stato facile. La povera
Rosalia, che presto sarebbe divenuta mia sposa, piangeva e si disperava.
Ma non era più possibile restare lì a patire assieme a loro le pene
dell’inferno. Sono sicuro che presto torneremo carichi d’oro, e ci
rifaremo delle sofferenze che abbiamo dovuto sopportare fino ad
oggi", gli rispose Turiddu, sicuro e convinto di quanto andava
argomentando.
Intanto che parlavano, si guardavano l’un l’altro
per come il fabbro del paese, mastro Ludovico, li aveva conciati, con
quella specie di elmo che sembrava una museruola da cane e quel giaccone
imbottito di piastre metalliche: e ridevano a crepapelle. Sembravano due
mummie, racchiusi com’erano in quella specie di ridicola armatura; a
quelle due spade avrebbero sicuramente preferito le pale, che
adoperavano sull’aia per lanciare in aria il frumento controvento,
onde liberarlo dalle impurità della paglia. I due poveri cavalli,
imbizzarriti a quella vista, si erano persino rifiutati in un primo
momento a prenderli in sella, ma poi si erano dovuti adeguare alla nuova
situazione. Da tranquilli cavalli di collina, abituati al massimo a fare
una galoppata fino al fiume, erano diventati cavalli da guerra, con
tutti i rischi connessi alla nuova pericolosa attività dei loro
padroni.
"Lo senti il suono della tromba? Guarda quanta
polvere si alza laggiù, in fondo alla vallata oltre il fiume, in
direzione del grande vulcano!", esclamò Ciccio, portandosi le mani
sopra gli occhi per meglio difendersi dai raggi del sole, ancora bassi
all’orizzonte.
"La tromba non la sento, ma vedo tanta polvere.
Andiamo giù al fiume per farci trovare pronti al loro passaggio. Voglio
stare in testa al gruppo per vedere da vicino il grande
Imperatore", gli rispose Turiddu con orgoglio.
E spronati i loro cavalli, i due compari si
lanciarono nella spericolata discesa che dalla contrada Albanello
portava verso Fontana Grande e quindi verso il piccolo fiume, in secca
in quel periodo dell’anno, ansiosi di mostrare al nuovo Sovrano la
loro abilità di cavallerizzi e la loro astuzia nell’arte della
caccia. In pochi minuti si trovarono sui bordi del fiumiciattolo,
attraversarono le anse tortuose, lucenti per le croste di sale potassico
depositatesi in superficie; e, scesi da cavallo, sedettero ai bordi del
sentiero che fra poco sarebbe stato invaso dall'armata imperiale.
Federico II tornava nella sua Palermo dopo avere
assalita e distrutta la fortificazione della guelfa città di Centorbi,
colpevole di non essersi voluta assoggettare ai suoi voleri e dichiarare
obbedienza alle sue leggi. Così volevano le norme di quei tempi (e non
solo di quei tempi, purtroppo!), e così si regolava Federico coi suoi
nemici. Non faceva uso del sale, com’era abitudine dei romani, perché
nel medioevo era un alimento prezioso e da poco tempo, sempre ad opera
dello stesso Imperatore, era soggetto al monopolio di stato: altrimenti
anche quello avrebbe cosparso sulle rovine delle città nemiche, per non
farle più rinascere.
Ciccio e Turiddu assistevano in tranquilla
conversazione all’avvicinarsi dell’esercito, del quale fra poco
avrebbero fatto parte, quando udirono come ululati bestiali alle loro
spalle, ed uno scalpitio di cavalli. Prima che si rendessero conto di
quanto stava accadendo, si trovarono circondati da tre cavalieri armati
che, spada in mano e con evidenti gesti, intimavano di restare immobili
al loro posto.
"E chi si muove!", mormorò Turiddu pallido
in volto, più verso l’amico che nei riguardi di quei cerberi che di
umano non avevano neanche le sembianze.
Brutti e scuri come il carbone, in groppa a focosi
cavalli neri, portavano una specie di armatura leggera intorno al petto,
ed in mano una scimitarra che ad ogni minimo movimento emanava degli
strani luccichii. Ciccio e Turiddu, ripresisi dalla improvvisa paura, ma
ancora emozionati per l’inaspettata apparizione, cercavano di
spiegare, sempre a gesti, che stavano lì in attesa che l’esercito s’avvicinasse
per unirsi agli altri soldati, mentre quei tre continuavano ad urlare
strane ed incomprensibili parole. Da come si muovevano, le loro
scimitarre sembravano voler parlare, per dire: "Amici miei! Per voi
ormai è finita! Fra poco con queste scimitarre vi stacchiamo la testa
dal collo per darla in pasto ai corvi o ai falconi del grande
Imperatore!".
E questo discorso non andava bene né per Ciccio, né
per Turiddu, che avevano tanta voglia di vivere con le teste al loro
posto. Ma che ci facevano quei tre ceffi con l’esercito di Federico?
Che fossero dei nemici? I feroci Saraceni, che avevano visto soltanto
disegnati sui libri di scuola, adesso se li ritrovavano davanti in carne
ed ossa. Erano descritti come belve assetate di sangue e si facevano
rassomigliare ai diavoli dell’inferno.
"Che minchia aspetti, Ciccio! Mostra loro il
foglio d’arruolamento, prima che questi tre imbecilli ci facciano a
pezzi!", disse Turiddu al suo nuovo socio di sventura.
Ciccio non se lo fece ripetere due volte, e dopo
avere calmato quei tre che continuavano a fare roteare le scimitarre,
spiegando a gesti che doveva cercare qualcosa nel tascapane, frugò alla
ricerca del foglio della loro salvezza. Finalmente lo trovò, sporco e
puzzolente di formaggio pecorino, ma lo trovò: ed immediatamente lo
consegnò a quello che urlava più degli altri e che sembrava essere il
capo. Questi fece finta di leggere, guardò gli altri due soldati che a
stento riuscivano a tenere a freno gli scalpitanti cavalli, riguardò
bene il foglio, di cui non aveva letto neppure un rigo visto che lo
teneva rovesciato, ed allargando le guance in un sorriso che sembrava
dicesse: "Adesso ti mangio, amico mio!", sistemò la
scimitarra nel fodero, balzò a terra e, riconsegnato il foglio
stropicciato a Ciccio, lo rincuorò con una pacca amichevole sulle
spalle ed un abbraccio mozzafiato che sembrava interminabile.
"Che mestiere fate?", chiese in un dialetto
molto approssimativo, quasi a volersi riscattare della brutalità con
cui aveva trattato i due in precedenza e della paura che era riuscito ad
incutere in quei poveri diavoli, che avevano assunto un pallore
cadaverico.
"Siamo contadini della zona ed abili cacciatori
di conigli e pernici", rispose Ciccio, enfatizzando un po’ questo
loro secondo occasionale mestiere.
"Per Allah! Cacciatori di pernici, avete
detto?", esclamò il saraceno con meraviglia, allargando le braccia
e facendo muovere le mani su e giù come a volere imitare i volatili, ed
emettendo un verso che sapeva più di gallina che di pernice. "Vuol
dire che vi presenterò al nostro Imperatore che, come saprete, è un
grande amante della caccia; sempre che vogliate dirmi i vostri
nomi", finì ridacchiando.
"Io sono mastro Turiddu e lui é mastro Ciccio,
del feudo di Balatazza. In questo caso saremmo lieti di offrire all’Imperatore
un nostro omaggio che speriamo vorrà accettare", disse Turiddu
che, ancora emozionato, ma liberatosi dall’iniziale paura, era
diventato d’un tratto euforico.
"Bene! Farò in modo che quanto prima ne venga a
conoscenza: ma stai attento, bifolco, che se questo regalo non dovesse
risultare di suo gradimento sarebbero guai seri per tutt’e due!",
gli rispose il saraceno con un ghigno diabolico, prendendo sul serio
Turiddu.
"Meno male, siamo salvi!", esclamarono
Ciccio e Turiddu, ancora increduli d’averla scampata bella. Non
avevano ancora messo i piedi fuori del loro territorio, che già avevano
dovuto subire un’avventura per nulla esaltante.
"Che begli amici ci siamo guadagnati! Avessi
sospettato d’andare a combattere a fianco di un saraceno, me ne sarei
rimasto a zappare la terra!", esclamò Turiddu.
"Siamo nei guai, caro compare! Mi veniva la
pelle d’oca ogni volta che mio nonno mi portava ad esplorare le tombe
dei Saraceni, scavate nella roccia in contrada Guarini, e mi raccontava
la loro storia. Mi venivano i brividi in tutto il corpo solo a sentire
il loro nome, e adesso me li ritrovo ai fianchi in carne ed ossa. Meno
male che sono alleati e non nemici! Ma che razza di regalo vorresti fare
all’Imperatore? Dicono che sia molto suscettibile. Se non gli garba, o
peggio se si sente preso in giro, quello è capace di farti appendere ad
un palo e farti scorticare vivo, come diceva il saraceno!", gli
rispose Ciccio con una smorfia di raccapriccio.
"Lascia fare a me: vuol dire che saremo
scorticati insieme, caro compare. Considera dimezzate le nostre razioni
di viveri", concluse Turiddu, accarezzando il sacco che aveva
sistemato in groppa al cavallo al momento della partenza.
Anche gli altri due Saraceni, convinti a fatica di
trovarsi al cospetto d’amici che volevano unirsi all’esercito in
avvicinamento, misero via le scimitarre, e finalmente, a modo loro,
socializzarono coi due nostri eroi precoci, facendo segno che potevano
mettersi in movimento verso l’armata, oramai ad un tiro di freccia.
Saltarono sui rispettivi cavalli, e si diressero, veloci come saette,
alla volta di quello che sembrava un poderoso esercito in marcia. Ciccio
e Turiddu, in sella ai rispettivi cavalli, simili a ronzini nei
confronti dei tre purosangue orientali, seguirono i Saraceni come meglio
poterono, respirando le alte volute di polvere sollevate dai focosi
destrieri arabi, che, rinculando a destra e a manca per la ripida
discesa, sembravano muoversi al ritmo di un’inebriante danza
orientale.