De arte venandi cum avibus
Federico II era un ottimo intenditore in fatto di
volatili ed un grande esperto nell’arte della caccia col falcone. Fra
tutti i sovrani d’ogni tempo é stato forse l’unico ad avere
lasciato segni tangibili di letteratura: basti pensare cos’è stata la
scuola letteraria siciliana, presso la sua corte di Palermo. E la sua
monumentale opera letteraria "De arte venandi cum avibus" ne
è la prova più tangibile. Data la sua grande preparazione, il suo
talento e il suo amore per la natura, compilò un’opera tuttora
insuperata, nonostante alcuni cronisti vicini al Papa Gregorio IX
tentarono di denigrarlo. La sua passione per la caccia era talmente
grande che gli costò persino la sua più grande sconfitta e per poco la
sua stessa vita. Infatti, il 18 febbraio 1248, nel momento dell’attacco
da parte dei parmensi alla città di Victoria, da lui fatta costruire
per assediare Parma, Federico ed il suo seguito, tra cui il figlio
Manfredi, erano a caccia, e furono impossibilitati ad intervenire in
aiuto dei compagni: tra gli altri tesori, oltre alla corona, perse l’originale
del suo magnifico trattato di falconeria. A noi è giunta una copia od
un rifacimento che si trova presso i Musei vaticani.
Nel 1264, un certo milanese Guglielmo Bottatius,
scrive una lettera al fratello del re di Francia Luigi IX, Carlo D’Angiò,
che avrebbe poco dopo sconfitto ed ucciso Manfredi a Benevento e suo
nipote Corradino a Tagliacozzo; questi, di appena quattordici anni,
ignobile ed inumana vendetta, fu fatto decapitare nella pubblica piazza
di Napoli. Bottatius offre al D’Angiò il "Librum de avibus et
canibus" di Federico II, argomentando d’averlo recuperato dal
bottino di guerra dopo la battaglia di Parma, e ne fa una minuziosa
descrizione. Dopo questa ed ultima notizia sull’importante opera, non
si parla più del libro originale di Federico. A noi è giunta una copia
del manoscritto originale che Manfredi si era fatto fare in formato
ridotto, e con annotazioni, manomissioni ed aggiunte che per certi versi
arricchiscono e completano la sua edizione originale. E dal momento che
reca la dicitura di Rex Manfridus, non può essere antecedente al 1258,
anno in cui Manfredi fu incoronato re di Sicilia. In ogni caso, l’edizione
di Manfredi fece sicuramente la stessa fine di quella del padre, dal
momento che entrambi custodivano gelosamente il testo e se lo portavano
sempre appresso: il 26 febbraio del 1266 Manfredi veniva sconfitto a
Benevento ed oltre alla vita perdeva anche la preziosa opera. Agli inizi
del XIV secolo il codice di Manfredi compare in mano di un nobile
francese Jean II de Dampierre, avutolo forse come ricompensa dal D’Angiò.
Lo stesso manoscritto ricompare nel 1594 in Germania, in possesso di un
certo medico Camerarius. Manfredi non fa alcun cenno sulle magnifiche
miniature delle sue edizioni, per cui non è chiaro se sia opera di un
artista della corte del re, o copia delle miniature originali,
attribuite alla stessa mano di Federico II, "maestro di tutte le
arti di cui si occupa"! L’edizione manfrediana potrebbe essere
stata redatta dallo stesso artista che aveva steso l’edizione di
Federico, oppure potrebbero essere stati utilizzati disegni e miniature
avute in eredità dall’Imperatore. Due bellissime miniature, che forse
rappresentano Federico e Manfredi, nelle prime pagine dell’opera,
fanno discutere gli esperti circa l’attribuzione e la disposizione
dell’opera stessa: poiché tali figure potevano trovarsi in un altro
manoscritto imperiale e fatte inserire da Manfredi per riconoscenza
verso il padre. La prima parte dell’opera raffigura un’enorme
quantità di uccelli, mentre nella seconda parte sono rappresentati i
rapaci che sono adatti alla caccia ed i falconieri intenti nel loro
addestramento. Riporta il nome latino degli uccelli, il loro aspetto
fisico, il tipo di volo, le loro abitudini, il colore delle piume e
tanti dettagli molto vicini alla realtà. Segno di grande acume d’osservazione
e di buona conoscenza delle varie specie. Sono rappresentati stupendi
esemplari di falchi, gru, oche, fagiani, pernici, pavoni, e bellissime
formazioni in volo. Il libro evidentemente doveva avere un intento
didattico, dal momento che le illustrazioni risultano molto fedeli alla
realtà, e quindi d’aiuto a chi volesse cimentarsi nell’arte della
caccia. Che l’opera giunta a noi sia copia dell’originale o
semplicemente un’edizione fatta stendere da Manfredi in base ai
ricordi ed ai documenti ereditati dal padre, in ogni caso l’Imperatore
Federico è riuscito nel suo intento: "Intentio vero nostra est
manifestare ea quae sunt, sicut sunt", "rappresentare le cose,
che sono, così come sono", secondo le esigenze didattiche di un
vero manuale.