Ciccio e Turiddu a Morimondo
Scappati nottetempo da Milano, attraverso la Porta
Romana, Ciccio e Turiddu corsero nella notte in sella ai loro cavalli
inseguiti dai fantasmi dell’esercito milanese. Più si voltavano, nel
timore d’essere inseguiti, e più vedevano le ombre del fornaio
traditore e dei soldati intravisti nei pressi della bettola dove avevano
preso alloggio quella notte. Per loro fortuna i cavalli erano ben
riposati, dopo una giornata di sosta nel cortile dell’osteria. E ce ne
volle prima che si rendessero conto che nessuno stava alle loro
calcagna. Finalmente rallentarono la corsa affannosa, proseguendo sempre
con circospezione lungo la strada agevole, appena illuminata da una
timida luna che cominciava a salire in cielo e che sembrava andare loro
incontro. Fu Ciccio a rompere il silenzio:
"Stiamo andando verso meridione", disse da
esperto contadino, "Speriamo di trovare un convento o un’osteria
dove passare la notte".
"Ci siamo appena allontanati da Milano, e vuoi
subito cercare un letto per dormire. Così ci svegliamo coi soldati che
ci portano la colazione! Dobbiamo proseguire per tutta la notte ed
allontanarci il più possibile dai nemici dell’Imperatore, se non
vogliamo fare una brutta fine", gli rispose Turiddu.
"Ma siamo sicuri che quei soldati cercavano
proprio noi? Se così fosse ci avrebbero inseguito e catturati",
disse Ciccio infervorato.
"Hai sentito con le tue orecchie che parlavano
di noi, dei due siciliani traditori: qualunque fossero le loro
intenzioni, ormai siamo lontani da quella città e non ho intenzione di
tornarci", rispose Turiddu persuasivo.
Proseguirono, infatti, per quella mulattiera che
sembrava dovesse portare a qualche grosso centro; infatti, da com’era
ben tenuta, sembrava dovesse essere molto trafficata. Il cielo appena
coperto da una debole foschia lasciava intravedere qualche stella,
mentre solo il "ciap-ciap" degli zoccoli dei cavalli che
penetravano nella fanghiglia, il fruscio delle foglie degli alberi ed il
rauco e pauroso verso di qualche rapace rompevano il silenzio della
notte che regnava sovrano. I due amici, sicuramente coraggiosi,
galoppavano sicuri nella quasi oscurità, voltandosi di tanto in tanto,
dopo avere rallentato la corsa, per controllare che nessuno li seguisse.
Sicuri e coraggiosi sì, ma il timore di qualche imboscata li teneva in
apprensione. Si fermarono ad una fontana per dissetare i cavalli e
sgranchire le gambe, quindi ripresero il cammino verso l’ignota
destinazione cui portava quella strada. Attraversarono rogge e canali,
superarono un piccolo ponte che sovrastava un fiumiciattolo, s’immersero
in un piccolo bosco di betulle per sbucare in un tratto assolutamente
pianeggiante e privo di vegetazione. Silenzio assoluto tutt’intorno,
tranne il monotono e continuo gracchiare delle rane che, che con grandi
salti, da un fossato all’altro, infastidivano i cavalli e gli stessi
cavalieri.
"Forse andiamo in direzione di Cremona",
disse Turiddu all’amico, più per intavolare una discussione che per
convinzione di essere sulla strada giusta. Tanto era il desiderio di
tornare verso l’accampamento imperiale.
"Non proprio, a giudicare dalla direzione che
abbiamo preso ieri per andare a Milano. Con un po’ di fortuna, appena
spunta l’alba, troveremo la giusta direzione per tornare sui nostri
passi. Ma temo che sarà lungo e pericoloso inoltrarsi tra i fiumi, con
tutti i soldati milanesi allo sbando", rispose Ciccio che, in fatto
di orientamento non era secondo a nessuno.
Era trascorso poco tempo dalla breve sosta, quando
intravidero in lontananza come una grande ombra, la sagoma di una
costruzione; e man mano che si avvicinavano cominciavano a distinguere
la forma di un campanile, della chiesa, delle case. Costeggiarono un
muretto in muratura che circondava la costruzione, e giunsero davanti ad
un grande cancello di legno che sembrava appena accostato. In quel
momento udirono distintamente i rintocchi di una campana, come un
segnale di preghiera per la comunità che abitava quel convento.
Fermarono i cavalli, e decisero che, per quel che restava della notte, e
ne restava poco ormai, forse sarebbe stato saggio chiedere ospitalità.
Varcarono timidamente il cancello, e tenendo in briglia i cavalli si
avviarono verso il piccolo porticato che si apriva a ridosso della
chiesa. Tirarono la cordicella che pendeva da una piccola campana
sospesa alla destra della porta che sembrava l’ingresso principale, ed
attesero che qualcuno rispondesse alla loro chiamata. Riprovarono una
seconda volta, e finalmente Turiddu, che stava origliando da una piccola
fessura, percepì il rumore di passi striscianti che lentamente si
avvicinavano alla porta. S’udì una voce rauca e sonnolenta che, più
che chiedere chi fosse a quell’ora, sembrava borbottare; quasi
contemporaneamente s’avvertì lo scatto di una rudimentale serratura.
E non poteva essere diversamente a quell’ora della notte; una visita
sicuramente inopportuna che andava a svegliare dei poveri cristiani
intenti ad un meritato riposo dopo una giornata di duro lavoro,
interrompeva la preghiera notturna di quella comunità. Comparve un
volto d’uomo, scavato e macilento, coperto da una folta barba, che
illuminato dalla piccola e fioca lampada che teneva in mano, poteva
benissimo assomigliare al fantasma che da ore stava perseguitando i due
che finalmente si erano decisi a chiedere asilo a quell’eremo.
"Ci siamo persi nel buio della notte, e siamo
alla ricerca di un letto dove potere riposare qualche ora, prima di
riprendere il cammino", disse Turiddu persuasivo.
Gli occhi del frate s’illuminarono ed anche il suo
viso, rasserenato a quelle parole, si atteggiò ad un timido sorriso di
sollievo. Molto spesso nel cuore della notte s’erano presentati
malintenzionati e cattivi cristiani, pronti a tutto pur di racimolare
qualche moneta. E loro, poveri frati, erano sempre lì alla mercé di
quanti, bisognosi e non, bussavano a quella porta che s’apriva
regolarmente di giorno ed a qualsiasi ora della notte, come imponeva la
loro "Regula". Ma, coi tempi che correvano, non c’era da
stare tanto allegri ad aprire al primo pellegrino che si presentasse a
chiedere ospitalità. Avevano avuto tante assicurazioni, quei monaci,
alla mercé dei Pavesi e dei Milanesi, loro confinanti; persino l’Imperatore
in persona aveva rinnovato, seguitando la politica dei suoi
predecessori, ogni neutralità ed intangibilità a quei luoghi di
devozione e di preghiera. Prima l’abate Lombardo e poi l’abate
Florio avevano avuto tutte le assicurazioni dal Podestà di Milano,
Beltramo del Greco, che a conferma delle buone intenzioni, aveva spedito
copia delle promesse allo stesso Gregorio IX. Anche Guidone da Viandrate,
capo delle milizie Pavesi, aveva dato un salvacondotto col quale si
assicurava che l’abate, il priore, i monaci, i conversi, gli
ufficiali, i pastori, i mugnai, tutti i lavoranti, le loro bestie ed i
loro beni non avrebbero sofferto alcunché in caso di guerra. Ma dai
malintenzionati non potevano proteggerli né l’Imperatore, né i
comandanti delle città vicine.
"Entrate!", sussurrò il frate allargando
le braccia, senza neppure guardare in faccia i nuovi ospiti. "Sono
fra’ Leone, e l’Abbazia di Morimondo è a vostra disposizione.
Hospes fui et suscepistis me".
Sistemati i cavalli nella stalla e deposte le armi in
un cantuccio, Ciccio e Turiddu seguirono il frate, che arrancava
malsicuro su due sandali consunti, nel refettorio dell’Abbazia, senza
profferire parola su chi fossero e da dove venissero. Era bastato uno
sguardo, al vecchio ma esperto portinaio dell’Abbazia, per capire che
i due non erano dei malintenzionati in cerca di guai. Dopo un piccolo ma
provvidenziale ristoro, un comodo letto fece loro momentaneamente
dimenticare le paure e le preoccupazioni delle ore appena trascorse.
La timida luce dell’alba non si fece attendere
molto a penetrare attraverso la finestrella che si apriva sopra i loro
letti. Né fu così scortese da svegliare i due ospiti dal loro profondo
sonno ristoratore; solo il rumore degli attrezzi ed il vocio dei
conversi che si recavano al lavoro sui campi destarono i due siciliani.
Poche ore di riposo erano state sufficienti a rimetterli in sesto dopo
una giornata di emozioni ed una notte di tribolazioni e paure. Da un
paio di giorni, da quando avevano lasciato l’accampamento dell’Imperatore,
era stato un continuo correre per salvare la propria pelle. Usciti all’aperto,
videro un cielo imbronciato, con tante nubi basse su un orizzonte piatto
e monotono, che non prometteva nulla di buono. Intorno al monastero
potevano ammirare un’infinità di filari di viti, segno che il vino
doveva abbondare nelle cantine dei frati, e più in lontananza folti
castagni ed enormi querce. Era evidente che la bonifica operata negli
anni dall’operosità dei frati, aveva reso fertile e coltivabile
quella terra, un tempo regno di sterpaglie ed acquitrini.
Mentre erano intenti ad ammirare il panorama, soffuso
ed ovattato dalla solita coltre di nebbia biancastra, si sentirono
apostrofati dal vecchio guardiano che poche ore prima aveva dato loro il
benvenuto in quel convento. Li invitava a bere una calda tazza di latte
appena munto dalle tante vacche di cui disponeva l’abbazia. E, seduti
intorno ad un tavolo del refettorio, pane e latte furono la loro
colazione, abbondante e gradevole, che fece loro ricordare per un attimo
la loro casa di Sicilia ed i loro familiari. Il locale, lungo e stretto,
era arredato da due file di tavoli con rispettive panche in legno, un
grande crocefisso che pendeva dalla parete di fronte, e da immagini di
santi appese alle pareti laterali. I tavoli erano lindi e puliti, privi
di suppellettili, segno che i frati, fatta la loro colazione, in parte
erano già al lavoro nei campi o nelle officine di cui disponeva l’abbazia,
in parte si erano trasferiti nella chiesa adiacente, a giudicare dai
salmi e dai canti che provenivano da una porticina appena socchiusa. Il
loro motto non era forse: "Ora et labora"? E loro, 50 monaci e
200 conversi, pregavano, rispettando il ritmo imposto dalla regola
benedettina, e lavoravano chi nei campi, chi nella tessitura, chi nella
falegnameria, chi nella muratura; l’abbazia, infatti, non era ancora
ultimata, ed i frati muratori erano intenti alle rifiniture della chiesa
i cui mattoni rossi risaltavano in quell'atmosfera stagnante e surreale.
La visita del padre Priore sorprese Ciccio e Turiddu
intenti ad accudire i loro cavalli. Avevano chiesto espressamente al
guardiano del convento che intendevano ringraziarlo personalmente per le
premure e le gentilezze che avevano mostrato nei loro riguardi, e
questi, non appena libero delle incombenze del suo ministero, si recò
di persona a salutare i due ospiti, prima che partissero per proseguire
il loro viaggio.
"L’Abate è dovuto andare a Pavia, a perorare
la causa della nostra incolumità, e non sarà di ritorno prima di sera.
Purtroppo, mala tempora currunt, figlioli miei, tempi di guerra e di
sventura. E’ di stamani la notizia della strage operata a Cortenova
sui milanesi da parte dell’Imperatore Federico, che Dio illumini quel
miscredente e salvi la sua anima! Non voglia Dio che l’odio che
alimenta l’animosità dei nostri vicini, debba ripercuotersi sulla
nostra chiesa e sulla nostra comunità. Siete liberi di proseguire nel
vostro viaggio, ma se volete restare, saremo lieti di intrattenervi come
ospiti graditi", concluse il padre Priore.
Ciccio e Turiddu che s’erano, in segno di
riverenza, quasi prostrati davanti al sant’uomo, rimasero colpiti
dalla semplicità di quel monaco che lasciava intravedere solo una lunga
barba, calato com’era in una larga tunica, quasi sproporzionata
rispetto alla sua statura. Ma soprattutto perplessi a quell’offerta.
Sapevano, eccome!, della batosta inferta ai milanesi ed a tutta la Lega,
ma non si aspettavano una simile proposta che alle loro orecchie suonò
come interessata. Quattro braccia in più dentro al convento potevano
fare comodo in caso d’attacco di malintenzionati; ma in fondo poteva
fare comodo anche a loro starsene riparati ancora qualche giorno tra le
mura sicure di un convento.
"Il fatto è, Reverendo, che dovremmo
ricongiungerci al nostro esercito da cui ci siamo separati per una serie
di coincidenze. Sappiamo della battaglia di Cortenova per essere stati
presenti al fatto, ed a quest’ora l’Imperatore starà cercando i
suoi due falconieri che mancano all’appello", disse Turiddu con
enfasi.
"Falconieri di sua maestà!", esclamò il
padre Priore. "Un motivo in più, allora, per avervi nostri ospiti
graditi. L’Imperatore ed i suoi antenati hanno sempre mostrato tutta
la loro benevolenza verso la nostra Abbazia, coi loro Diplomi imperiali.
Raggiungerlo a Cremona, dove si trova attualmente, non è facile né
agevole. Troppi pericoli corrono per le campagne. Saremo lieti di fargli
pervenire un nostro messaggio, e sicuramente manderà le sue truppe per
recuperare i suoi falconieri".
"O magari verrà lui in persona!", esclamò
Ciccio quasi divertito, che, quando c’era da parlare, lasciava a
Turiddu il compito, ma non lesinava le sue battute.
"Bene!", sentenziò il Priore, cogliendo al
volo la loro indecisione. "Sistemate i cavalli e mettetevi a vostro
agio".
Così i due compari accettarono l’invito. E dal
momento che erano due esperti falconieri, e non potevano starsene in
convento in ozio o a pregare, non trovarono di meglio che mostrare la
loro abilità di cacciatori. Presi gli attrezzi necessari, partirono per
una veloce battuta di caccia nelle immediate vicinanze, non prima però
che il Priore abbondasse in consigli ed ammonimenti, a non allontanarsi
oltre il fiume ed a stare lontani dal ponte sul Ticino, conteso da
pavesi e da milanesi.
Fu uno spasso per i due compari catturare, con i
semplici mezzi di cui disponevano, fagiani, quaglie e conigli, saltando
da un fossato all’altro, eseguendo alla perfezione richiami per
ingannare gli uccelli. La selvaggina era tanta, e tanto facile catturare
le prede, che in poche ore avrebbero potuto sfamare l’intera
popolazione dell’abbazia. Non s’erano allontanati molto dal
convento, e come orientamento avevano tenuto d’occhio il rosso
campanile della chiesa che risaltava in mezzo a tutto il verde della
pianura. Era quasi l’imbrunire quando tornavano al convento, carichi
di prede, soddisfatti per come avevano fatto fruttare quella mezza
giornata di caccia, e soprattutto meravigliati dell’abbondanza dei
volatili e della facilità di catturarli. E già vedevano la faccia
meravigliata del Priore per quell’inaspettato regalo che avrebbe
trovato sul tavolo del refettorio. Fischiettavano allegramente, ormai in
vista dell’Abbazia, quando passando nei pressi di una grangiadel
convento, furono colpiti da una presenza femminile. Una giovane donna
era intenta a sistemare alcuni attrezzi nel fienile, e non si sarebbe
accorta dei due se Turiddu, come suo solito, non avesse richiamato la
sua attenzione con un saluto. Un fazzoletto colorato in testa ed un
grembiule annodato dietro la schiena, faceva fatica a sollevare su una
mensola qualcosa che sembrava un sacco, colmo di paglia o di qualcos’altro,
abbastanza pesante. Raggiunto lo scopo, il sacco già un paio di volte
era scivolato nuovamente a terra, e quella ricominciava daccapo. Deposta
a terra la selvaggina, Turiddu s’avvicinò premuroso, e sollevato il
sacco lo depositò sul ripiano dove stavolta rimase immobile.
"Grazie!", disse la ragazza, meravigliata
di trovarsi davanti quella figura mai vista prima d’allora, e poco
distante l’amico. "Siete i nuovi conversi dell’abbazia?",
continuò facendosi da parte.
Giovane e carina, sotto il fazzoletto annodato
intorno alla fronte lasciava intravedere un ciuffo di capelli biondi.
Gli occhi di Turiddu si posarono istintivamente sui suoi seni, gonfi e
ben rotondi di contadinotta, adusa a maneggiare gli attrezzi di campagna
e a non lesinare pesanti fatiche. E rossa per lo sforzo appena fatto, lo
diventò ancora più per l’iniziativa intrapresa da Turiddu e per le
occhiate furtive che significavano attenzione alla sua persona. Ma non
dimostrò né imbarazzo, né fastidio per quella presenza inaspettata; e
neppure per quelle tangibili esternazioni d’apprezzamento, segno che
era abituata a trattare con i frati, ma anche con gli estranei che di
tanto in tanto giungevano in quella comunità.
"Siamo di passaggio, e forse staremo qui ancora
per qualche giorno, su invito del padre Priore. Siamo andati a caccia ed
abbiamo catturato parecchia selvaggina. Aspetta un momento!",
disse, andando verso Ciccio per tornare sui suoi passi con in mano un
coniglio. "Spero vorrai gradire questo in omaggio".
Intanto che Turiddu pronunciava queste parole, dal
locale attiguo giunse come un lamento, una voce che chiamava
confusamente: "Ambrosia, Ambrosia!".
"E’ mio padre", disse la ragazza.
"Da quando è costretto a letto non fa che lamentarsi e chiamarmi
in continuazione. E’ andato fuor di senno dopo la morte del figlio
maggiore, ucciso in un’imboscata sul ponte di Vigevano, e per quello
sciagurato di mio marito…".
"E’ morto anche lui?", chiese Turiddu con
interesse.
"No! Lui non è morto, ma è come se lo fosse. S’è
ritirato in convento, nell’Abbazia di Casalvolone, chiamato dalla
vocazione del Signore, e lasciandomi con questo vecchio e la terra da
coltivare. Grazie per il coniglio, e se passi domani potrai assaggiare
anche un po’ di polenta", concluse la ragazza che mostrava
emozione per i fatti raccontati, ma anche una certa irritazione quando
accennò alla storia del marito.
"Va bene", disse Turiddu congedandosi,
"Passerò domani sera per assaggiare la tua polenta".
Raccolta la cacciagione, in pochi minuti raggiunsero
l’Abbazia da cui dipendeva la grangia d’Ambrosia.
Abbondanti e sperticate furono le lodi del padre
Priore e dello stesso Abate che nel frattempo era tornato dalla sua
missione a Pavia. Questi, che perorata la causa dell’incolumità dell’Abbazia
in caso di azioni belliche e riportate ampie assicurazioni che ai frati
non sarebbe stato torto un solo capello, era di buon umore. Ciccio e
Turiddu, incassati gli elogi e le lodi di bravura, furono invitati a
restituirli al Signore nella chiesa, dal momento che era giusto l’ora
della recita dei salmi del vespro. Dal fondo della chiesa ascoltarono
compunti i frati che, sistemati sugli scranni del magnifico coro di
legno artisticamente intarsiato, recitavano le lodi, cantavano inni ed
antifone, litanie e cantici, in un’atmosfera intrisa di fede e
misticismo, al lume di ceri e candele che conferivano all’ambiente un
tono surreale.
"Bello e commovente", andava meditando
Turiddu, man mano che il coro dei frati s’ingrossava, quindi si
ponevano a sedere per ascoltare la lezione del dotto monaco Pagano,
professore nelle sacre scritture, s’inginocchiavano in segno di
penitenza, tornavano ad alzarsi elevando le braccia al cielo. "Ma
ripetere queste orazioni all’ora prima, terza, sesta, nona, a vespro,
a compieta, e poi le levate notturne e mattutine, rigorosamente prima
dell’alba, per riprendere con la monotonia di sempre! Certo la
vocazione non si discute, ma abbandonare quella povera Ambrosia al suo
destino, per lodare Dio in eterno, non mi sembra una bella trovata.
Povera ragazza, avrà pur bisogno di compagnia e consolazione,
soprattutto con quel padre infermo che si ritrova, il lavoro dei campi,
la casa da rassettare. Domani sera andrò ad assaggiare il coniglio e la
polenta, e le porterò un po’ di consolazione!".
Dopo una cena frugale, accudirono i cavalli nella
grande stalla dell’Abbazia, quindi si ritirarono nella loro stanzetta.
Trascorsero il giorno appresso aiutando i conversi
nei lavori di pulizia, sistemando una legnaia, girovagando per i locali
dell’Abbazia. Turiddu, a dire il vero, era molto impaziente che
passassero le poche ore che lo separavano dall’incontro con Ambrosia.
Più che il coniglio con la polenta, aveva gran voglia d’assaggiare le
tenere carni della fanciulla che, in quei pochi minuti di conversazione,
aveva fatto trapelare tutta la sua disponibilità ad un incontro
amoroso, vuoi per l’innato e naturale desiderio di una ragazza della
sua età, vuoi per dimostrare all’ex marito che la santità poteva
cercarsela anche standosene in casa, vicino alla moglie, che aveva
giurato d’amare, e non soltanto tra le mura di un monastero. Non solo
Dio, pensava Ambrosia, aveva bisogno d’amore e tenerezza, canti e lodi
di magnificenza; anche lei aveva bisogno d’amore e di passione, amore
fisico e sensuale, passionale, carnale. Se aveva accettato di sposare
Girolamo, l’aveva fatto perché convinta che anche lui la volesse,
desiderasse i suoi amplessi, le sue cure, le sue tenere carezze; invece,
dopo un timido approccio, s’era vista rifiutata, quasi i suoi dolci e
focosi baci lo turbassero e lo mettessero in imbarazzo. Se era votato a
Dio, alla tonaca, al convento, poteva almeno dirlo prima di
inginocchiarsi dinanzi all’Abate e giurare a lei eterno amore
coniugale, terreno sì, ma non meno sacro di quello celeste. Aveva
cercato in tutti i modi di dissuaderlo da quella sua decisione
affrettata e impulsiva, ma a nulla erano valse le sue doti di giovane
donna formosa e dal fisico provocante, tenera ed accattivante. Alla sua
gonnella, gli diceva, doveva restare attaccato, e non alla tunica di
panno dei monaci, buona per ogni stagione dell’anno. Sotto le sue
vesti vivevano un corpo desideroso d’amore, ed un’anima altrettanto
vogliosa di benedire il Signore. L’aveva implorato e supplicato, e poi
maledetto, alla fine. Più ci pensava, e più il sangue che le ribolliva
nelle vene le faceva fare pensieri insani e sconsiderati. Tre mesi di
solitudine e di abbandono, pesavano come tre, dieci anni di vita
perduta, trascorsa tra la noia e l’indifferenza degli abitanti di quei
rossi mattoni che ormai vedeva come nemici giurati, anche se era
costretta a trattare con loro per via della grangia e del terreno che le
permetteva di vivere decentemente.
Nelle prime ore del pomeriggio giunse un messo da
Pavia, portando nuove preoccupanti. In città si respirava aria di
guerra, e gruppi armati giravano da un quartiere all’altro. Nulla di
preciso, riferiva, ma l’atmosfera era quella che precede azioni di una
certa gravità. Era evidente che, se la sconfitta inflitta alla Lega
aveva costernato i Milanesi, la stessa aveva ridato baldanza ai Pavesi
che avevano combattuto con particolare accanimento, e adesso si
apprestavano a sfruttare il loro momento di gloria. Ma quali erano le
loro intenzioni? Volevano, di concerto con l’Imperatore Federico,
attaccare Milano, e farla finita una volta per sempre con la Lega?
Oppure volevano apportare azioni di disturbo ai nemici limitrofi?
Attaccare Milano non era una cosa facile, ben fortificata e munita di
larghi fossati pieni d’acqua, dopo la dura lezione impartita un
cinquantennio prima dal Barbarossa. Ma qualunque fosse la loro
intenzione, conveniva starsene in campana, onde evitare brutte sorprese.
Calavano le prime ombre della sera, erano i primi di
dicembre, quando i due compari, separandosi, si dettero appuntamento per
l’indomani mattina. Ciccio si recò in chiesa per i salmi del vespro,
come la sera precedente, mentre Turiddu imboccò il portone che per
disposizione dell’Abate doveva restare serrato e ben puntellato dall’interno,
dopo le allarmanti notizie giunte in mattinata. Con passo svelto
percorse il viottolo che portava verso i filari di viti, costeggiò un
muretto, e presto fu in vista del grande castagno che sovrastava la
piccola casa di Ambrosia. Ancora pochi passi e si trovò a ridosso della
porta. Il suo cuore batteva forte per l’emozione della galante
avventura che stava per avere inizio. Ma un timore l’assalì d’improvviso:
come mai, sapendo del suo arrivo, la porta era sbarrata? E se la giovane
e formosa ragazza avesse raccontato una bugia e ci fosse il marito
pronto ad accogliere lo stravagante innamorato, oppure un monaco dell’abbazia
l’avesse preceduto e sostituito a quel convegno amoroso? Se ne
raccontavano tante sul conto di quei birboni che nascondevano tutta la
loro inquietudine sotto il saio marrone, pronti ad esternarla e farla
esplodere al momento opportuno. Si accostò alla porta con cautela, e
origliò per un istante alla ricerca di rumori che potessero fargli
capire cosa avveniva all’interno. Nulla, nessun rumore, nessuna voce.
Si fece coraggio e, dopo essersi guardato intorno, affidò alle nocche
della sua mano destra il compito d’annunciare la sua presenza. A quel
"toc, toc" nessuna risposta; l’unico indizio della presenza
di vita in quella casa, era un delizioso odore di stufato che
fuoriusciva dalle fessure della porta. Ripeté l’operazione una
seconda volta, con più insistenza: non succedeva nulla. Pensò d’essere
stato gabbato, e che era destino doversene tornarsene in Abbazia ad
ascoltare i canti del vespro che, come in sordina, giungevano alle sue
orecchie. Si girò per tornare sui suoi passi, quando fu investito dall’ombra
minacciosa di un forcone, ed una voce femminile che intimava di starsene
immobile. Si trovò con le spalle alla porta ed il forcone alla gola.
"Che bell’accoglienza!", esclamò Turiddu
che in quella voce e in quella figura, pur se in penombra, riconobbe
immediatamente Ambrosia. E per farsi meglio riconoscere: "Non
vorrai infilzarmi prima ancora d’avermi fatto assaggiare il coniglio e
la polenta!".
"Ah! Sei tu", rispose la ragazza, deponendo
il forcone e chiedendo scusa per l’accoglienza poco cordiale. "Il
fatto è che s’aggirano tipi sospetti e pericolosi da queste parti, e
volevo essere sicura che non fosse un intruso a bussare alla porta.
Vieni!", lo rincuorò guidandolo in casa per una porta che s’apriva
sul retro.
Varcata la soglia, Ambrosia chiuse la porticina,
assicurandosi che la grossa spranga fosse penetrata ben bene nel suo
alloggiamento. Quindi attraversarono una stanzetta buia, da un angolo
della quale proveniva un ronfo monotono e profondo, segno che qualcuno,
forse il vecchio padre, stava dormendo; infine varcarono la seconda
soglia, passando nella stanza adiacente che fungeva da cucina, guidati
dalla fioca luce ondeggiante di una candela. Il locale era abbastanza
spazioso, e ben scaldato dal calore che emanava la brace viva e
scoppiettante proveniente da un camino situato in un angolo, segno che
della legna fresca era stata aggiunta da poco. Era arredato con una
piccola credenza che lasciava intravedere dei piatti, un tavolo con due
panche, alcune mensole colme di barattoli di terracotta, alcune sedie
sparse per il locale. Una scala di legno portava ad un soppalco di cui,
alzando gli occhi, si vedevano alcune travi di sostegno, evidentemente
annerite dal fumo che fuoriusciva dal camino.
Ambrosia chiuse la porticina che comunicava con la
camera da letto, ed invitò Turiddu ad accomodarsi.
"Perdonami per come ti ho accolto", disse
quasi mortificata, "Ma corrono voci che nei dintorni s’aggirano
persone sospette. Come vedi sono sola in questa casa e devo difendermi
in qualche modo".
"Hai fatto benissimo, anch’io mi sarei
comportato allo stesso modo. Ho constatato che in fatto di bastoni e
forconi te la cavi egregiamente. Che buon odore emana da quella pentola
sul fuoco!" la rincuorò Turiddu, cambiando discorso.
Ambrosia cominciò a trafficare nella credenza da cui
estrasse una tovaglia e due piatti, apparecchiando il piccolo tavolo su
cui depositò un pane ed una caraffa di vino. Turiddu la osservava
muoversi con grazia mentre eseguiva quelle operazioni, mangiandosela
cogli occhi, tutte le volte che, girandosi verso il tavolo, la debole
luce di quella candela illuminava il suo volto ed i suoi bei seni
rotondi. Alla luce del giorno, in quei pochi minuti che s’era
intrattenuto a parlare, le era parsa formosa e sensuale, ma adesso,
quella candela ruffiana evidenziava oltre misura le sue belle forme
sotto una camicia aderente e succinta, dato il calore che emanava il
camino. Sedettero intorno al tavolo e mangiarono polenta e stufato di
coniglio, come promesso, accompagnato da abbondante vino. A Turiddu
sembrava essersi sciolta la lingua, dato che ad ogni bicchiere seguiva
un complimento per la bravura della padrona di casa, che in fondo erano
lodi, non molto velate, alle sue fattezze fisiche. Lei, poverina, aveva
poco da raccontare oltre alle vicissitudini del matrimonio fallito
miseramente e del lavoro dei campi. Turiddu, euforico per carattere e
per il vino tracannato, descriveva le sue avventure al seguito dell’Imperatore,
di Cortenova, della fuga precipitosa da Milano, parlava e straparlava di
caccia. Ridevano divertiti, si scambiavano complimenti e confidenze.
Turiddu l’aiutò a sparecchiare ed a rassettare il tavolo e aggiunse
un po’ di legna nel camino; e intanto che si dava da fare per rendere
più accogliente quel misero locale, capitava che si toccassero
inavvertitamente, poi un po’ meno per caso. Infine, pieno di voglia e
d’ardore, il suo istinto ebbe il sopravvento; la baciò sul collo, lei
mormorò sotto voce qualcosa a cui lui non rispose, la cinse forte ai
fianchi e la baciò ancora. Ambrosia, ormai pervasa anche lei dal
desiderio, lasciò rovinare a terra la brocca che teneva in mano, l’abbracciò,
si baciarono ripetutamente con ardore. Un’ardente passione ormai s’era
impossessata dei due, si guardarono negli occhi languidi d’emozione,
si strinsero in un amplesso trattenendo il respiro per lunghi ed
interminabili minuti. Ambrosia, ormai in preda ad una passione che,
sopita per lungo tempo, finalmente esplodeva tra le braccia di Turiddu,
si slacciò il grembiule, sistemò in un angolo del camino quanto
restava della candela tremolante, e s’arrampicò sulla scala di legno
dopo averla scostata dal muro, al quale stava appoggiata, ed accostata
al soppalco. Salì i pochi gradini, seguita da Turiddu impaziente di
riaverla tra le sue braccia. Il tiepido letto d’Ambrosia divenne
presto un caldo giaciglio per i due che, in un amplesso interminabile,
sfogarono tutta la passione e l’ardore di due amanti insaziabili. S’amarono
a lungo quella notte; una due tre volte giacquero abbracciati,
sussurrandosi parole tenere ed affettuose, tra dolci lamenti misti a
dolore d’inebriante piacere. Infine, stremati, s’abbandonarono, l’uno
accanto all’altra, per un giusto e meritato temporaneo riposo, mentre
il camino quasi manifestava la sua gioia con allegri scoppiettii.
A lato del giaciglio s’apriva un piccolo portello,
abitualmente chiuso. Turiddu curioso, l’aprì per osservare quanto era
possibile scorgere da quella posizione. Vide il grande castagno, i
filari di viti, l’Abbazia col campanile rosso. In quel mentre sentì
distintamente la campana della chiesa che chiamava i monaci al canto
notturno dei salmi.
"Dormiamo ancora un po’!" disse Ambrosia
che tutte le notti era tormentata da quei monotoni rintocchi; vedeva il
fantasma del marito, coperto da un saio, attraversare corridoi e
porticati per poi inginocchiarsi nel coro e lodare candidamente il
Signore, mentre lei si struggeva l’anima. La sua rabbia montava,
stringeva i pugni e si copriva le orecchie con le mani per non sentire
quei suoni che le arrivavano al cervello come picconate. "E’
notte fonda. All’alba mancano ancora tre ore".
Turiddu non rispose. Chiuse il piccolo portello, si
girò e rigirò ripetutamente, ma non riusciva a prendere sonno per la
stanchezza accumulata in quelle ore d’amore, restando in dormiveglia.
Ogni tanto riapriva il portello, scrutava fin dove poteva giungere il
suo sguardo, lo richiudeva. Non c’era dubbio che poteva fidarsi d’Ambrosia
che adesso dormiva tranquillamente al suo fianco, finalmente protetta da
un vero uomo, proprio quello che aveva desiderato e sognato da sempre;
ma sentiva che qualcosa non andava per il verso giusto, non era
tranquillo. Le ore passavano lentamente quasi cominciava ad albeggiare,
quando sentì ancora la campana dell’Abbazia, quella dell’ora ottava
della notte che invitava i monaci a recitare le lodi al primo
albeggiare.Aprì per l’ennesima volta il portello e guardando in
lontananza, fin dove poteva giungere il suo sguardo, osservò un
orizzonte appena ovattato dai primi chiarori del mattino. Si stropicciò
gli occhi, credendo d’avere avuto una visione, osservò meglio
sgranando gli occhi. Quelle piccole luci che scorgeva appena in
lontananza, adesso le vedeva muoversi, s’avvicinavano lentamente, una
dieci cento piccole fiammelle, che si muovevano come pecore al pascolo,
e quasi galleggiavano tra i filari di viti. Agitato da quella visione,
cercò di svegliare Ambrosia che si girò dall’altra parte; allora
cominciò ad imprecare, s’alzò dal comodo e caldo giaciglio, e scese
a precipizio la scala che portava alla cucina. Si vestì in fretta, e
intanto che anche Ambrosia, finalmente desta, si vestiva a sua volta ed
osservava quanto stava succedendo fuori, spalancò la porta. Adesso,
oltre che vederli, cominciavano a sentirsi distintamente, quei
disgraziati. Avanzavano tra le viti brandendo ogni tipo d’arma, pale e
badili, bastoni e spade, dirigendosi chiaramente verso l’Abbazia.
Turiddu abbracciò forte Ambrosia, la baciò come se fosse l’ultimo
bacio d’addio, ed intimandole di barrarsi in casa, corse verso il
convento con quanta forza gli restava in corpo. Poco, a dire il vero, ma
corse a perdifiato. Doppiò il castagno, costeggiò il muretto, ed
oltrepassò i filari di viti per giungere finalmente al portone d’ingresso.
Trovandolo sbarrato dall’interno, secondo le ultime disposizioni,
prese a suonare il campanello senza sosta. Suonò a lungo, ma nessuno
compariva ad aprire. Allora provò ad arrampicarsi sul muro di cinta, e
non riuscendovi, data l’altezza, corse alcuni metri avanti dove
sembrava più basso. Tentò una, due volte, alla fine riuscì ad issarsi
sulla parte più alta lasciandosi cadere all’interno del cortile.
Cominciò ad urlare: "Allarme! Allarme!", correndo verso l’ingresso
dell’Abbazia. Finalmente un frate aprì la porta, gli occhi sgranati
verso quanto stava succedendo intorno.
Una masnada di facinorosi aveva già guadagnato i
muri dell’Abbazia, con scale ed arpioni, ed armati con asce e mazze si
dirigevano verso la porta principale. Il fracasso era enorme, vociavano
e bestemmiavano come pazzi. Le porte furono immediatamente chiuse e
sprangate dall’interno, e i monaci corsero, armati con ogni mezzo di
fortuna, a difendere la loro Casa. Ma quelli dall’esterno premevano,
davano d’ascia e di mazza contro la porta, nel tentativo di
scardinarla. Finché vi riuscirono e si trovarono a tu per tu coi
monaci. Turiddu volò alla ricerca di Ciccio che a quel trambusto s’era
appena destato. Corsero a dare manforte ai monaci che già lottavano
accanitamente contro gli invasori, menarono botte a destra e a manca, e
ne presero pure. Ma i nemici, numerosi e meglio armati, ebbero presto la
meglio, anche se la lotta durò accanita fino ad alba inoltrata. L’Abbazia
fu messa a ferro e a fuoco, e lo scempio fu ampio e scellerato. La
stalla fu bruciata, dopo che le bestie erano state allontanate e
depredate, distrutta la magnifica officina dei tessitori, quella dei
fabbri e dei falegnami, distrutte le cantine e disperso in rivoli l’ottimo
vino lì custodito. I monaci erano riusciti a mettere in salvo gli
arredi, i paramenti sacri e tutti i preziosi della chiesa, prima che i
facinorosi vi penetrassero da una finestra, spogliandola di tutto. Dai
dormitori portarono via coperte e guanciali, distrussero l’infermeria
e la sacrestia. Il danno fu enorme. Non risparmiarono neppure i monaci,
chi malmenato, chi ferito, chi denudato per portare via le vesti, i
sandali e persino i calzini. Il monaco Pagano detto: "Il sacerdote
dotto nelle scritture e da poco nominato professore di belle
lettere", venne spogliato delle sue vesti e lasciato nudo, gli
percossero i fianchi e le spalle, e lo lanciarono come peso morto da una
finestra. Guidava le operazioni di difesa lo stesso Priore che conobbe
tra i facinorosi quel conte Guidone da Biandrate, che poco tempo prima
aveva firmato in nome di Pavia la pergamena del salvacondotto per l’Abbazia;
ma a nulla valse rinfacciare al conte gli accordi sottoscritti. Questi
lasciò che l’accozzaglia dei suoi soldati continuasse l’azione di
distruzione e di razzia. Anzi, lo stesso Priore per avere osato
protestare i propri diritti, fu spogliato e lasciato nudo come un verme
al freddo del mattino.
Ciccio e Turiddu, impotenti a quello strazio, si
arresero, ma protestarono e minacciarono di fare ricorso al loro
Imperatore in persona. Quella minaccia non convinse più di tanto i
facinorosi che, per evitare guai maggiori di quelli a cui ormai andavano
incontro, rilasciarono loro un salvacondotto fino ai confini di Pavia,
ed accompagnati ai loro cavalli intimarono che lasciassero subito l’Abbazia,
pena una sonora lezione corporale. Ancora una triste fuga per i due
compari!
Non restava che ubbidire per evitare guai maggiori.
Turiddu, però, volle prima passare a salutare Ambrosia e corse subito
da lei. La porta della grangia era aperta e nessun segno di vita all’interno
di essa. Tutt’intorno solo distruzione e desolazione, ad opera di
quelle cavallette senza scrupoli e senza pietà. La porta d’ingresso
non sembrava forzata né scassinata, segno evidente che la coraggiosa
ragazza aveva avuto il tempo di darsi alla fuga. Unica consolazione per
Turiddu immaginarla viva, rifugiata in qualche grangia del circondario.
Era l’alba del 3 dicembre del 1237.
Il giorno dopo il misfatto, a Morimondo giunsero i
dignitari di Pavia assieme al rappresentante dell’Imperatore Federico.
Constatato il disastro compiuto da quella plebaglia, promisero che
avrebbero risarcito l’Abbazia e fatto restituire ogni maltolto.
Intanto conventi ed abbazie del circondario si dettero da fare per
aiutare i frati rimasti senza casa e senza averi. A Morimondo rimasero
in pochi per custodire ciò che restava del monastero, mentre gli altri
frati furono trasferiti a Chiaravalle, a Viboldone, e presso gli
Umiliati di Brera. Il Priore, che s’era recato a Milano in cerca d’aiuto,
fu consigliato di rivolgersi direttamente all’Imperatore, che all’epoca
si trovava a Pontevico; e questi non esitò ad inviare una commissione
che raccontò con dovizia di particolari l’azione malvagia e
distruttiva dei Pavesi, i danni fisici e materiali patiti, infrangendo i
patti sottoscritti e mortificando la protezione accordata dallo stesso
imperatore. Ma cosa poteva rispondere Federico a quei frati che
chiedevano giustizia?
"Ipse autem, cum audisset, abiit et nihil quam
doluisset respondit", rispose cioè, che gli dispiaceva e se ne
tornò ai suoi affari! Poteva del resto condannare i Pavesi, suoi
alleati, coi quali aveva combattuto fianco a fianco contro i Milanesi, e
che in fin dei conti forse non erano neppure diretti responsabili del
misfatto? Neppure il Papa, Gregorio IX, che aveva tuonato contro i
Pavesi ed ordinato un processo canonico, ebbe alcun risultato pratico;
quel processo, infatti, prima fu sospeso e poi definitivamente
annullato.
Ritorno al serraglio
Ciccio e Turiddu, dunque, a dorso dei loro cavalli,
fecero ritorno all’accampamento dell’Imperatore. Scortati da un
drappello di cavalieri pavesi, partirono immediatamente in direzione di
Cremona, dove presumibilmente doveva trovarsi l’Imperatore col suo
esercito, dopo la battaglia di Cortenova. E se raggiungere Milano da
Cortenova, mischiati ai soldati della Lega, era stata quasi una
passeggiata, vuoi perché conoscevano la strada a menadito, vuoi perché
tanta era la fretta di raggiungere quella città, stavolta il percorso
si presentava più lungo e poco agevole. C’era infatti da guadare
parecchi fiumi, attraversare paludi e soprattutto i confini del
territorio di Lodi non molto propenso alla causa imperiale. Tuttavia,
dopo avere fatto sosta a Pavia, in un paio di giorni furono al limite di
quel territorio ed abbandonati dalla scorta messa a loro disposizione
dal conte Guidone. Guadarono l’Adda, che avevano già attraversato a
Cassano in fuga da Cortenova, e presto furono in vista della seconda
città imperiale.
"Ciccio!", disse Turiddu, "sono pochi
giorni che manchiamo dal serraglio e mi sembrano un’eternità. Chissà
se saremo accolti da eroi o da disertori".
"Spero soltanto che non ci leghino al palo, come
quella volta che poco ci mancò ci lasciassimo le penne. Mi riferisco
alle due pernici, che spero Abdul abbia tenuto in vita", rispose
Ciccio preoccupato.
"Se così non fosse, gli tirerei il collo a quel
saraceno! Ma vedrai che saranno tutti contenti quando racconteremo le
avventure di questi giorni. Faremo ingelosire l’Imperatore per avere
messo piede a Milano ed in S. Ambrogio".
Giunsero senza problemi sotto le mura di Cremona,
attraversarono la porta della città, e si diressero verso il serraglio,
quasi annusando la gioia e l’allegria che si poteva leggere sui volti
della gente.
Calorosa fu l’accoglienza che Abdul e gli altri
inservienti riservarono ai due compari, ormai dati per morti o per
dispersi in quella bolgia di Cortenova. Li avevano cercati per un giorno
intero su quell’immenso campo coperto di cadaveri, e non trovandoli s’erano
messi l’anima in pace. Non potevano certo immaginare quanto, tra lo
stupore e la meraviglia, andavano raccontando sulla loro fuga forzata e
sugli avvenimenti che s’erano accalcati nel giro di pochi giorni. E le
pernici? I due compari corsero alla ricerca della voliera a loro
riservata. Non solo c’erano Ciccu e Nina, sani e salvi; ma, a fare
loro compagnia, c’era un altro bell’esemplare di pernice, una
femmina, catturata subito dopo la battaglia, e che l’Imperatore, che
non mancava certo di fantasia, aveva battezzato "Vittoria". L’Imperatore
si trovava ancora a Pontevico ed il suo arrivo a Cremona era atteso di
giorno in giorno, per dare inizio ad una grande festa per la vittoria.