Ciccio e Turiddu a Milano
Che fine avevano fatto i nostri due eroi, Ciccio e
Turiddu? Si trovavano a Cremona, nel 1237, al seguito dell’Imperatore,
quando questi fu costretto a correre in Germania per sedare la rivolta
inscenata dal duca Federico d’Austria. Federico era partito col suo
piccolo ma gagliardo gruppo di Saraceni, lasciando il grosso dell’esercito
sotto il comando di Ezzelino da Romano che, in assenza dell’Imperatore,
aveva sottomesso Padova e Mantova. I cremonesi stavano festeggiando S.
Michele, quando Federico faceva ritorno in città, dopo avere reso alla
ragione il riottoso duca tedesco. In tutti i quartieri di Cremona si
respirava aria di guerra, ed i discorsi euforici che Ciccio e Turiddu
sentivano nelle piazze e nelle taverne inneggiavano ad una imminente
batosta da assestare ai Milanesi ed ai loro cugini, vicini prepotenti e
da sempre nemici giurati.
Come ogni sera, se ne stavano seduti al solito tavolo
della taverna del vicolo dei mugnai, a mangiare quel santo piatto caldo
di polenta innaffiato naturalmente da qualche bicchiere di buon vino
rosso.
"Minchia, Ciccio! Lo senti come sono agitati i
soldati in questi giorni? Corrono come matti e si addestrano, come se
domani dovessero partire per il fronte. Da quando è tornato l’Imperatore
si sente puzza di guerra in ogni angolo di questo paese", disse
Turiddu all’amico.
"Non vorrei essere nei loro panni, quando
arriverà il momento. Dicono che i soldati Milanesi siano tanti, forti e
ben addestrati a combattere. Qualunque cosa accada, cerchiamo di
starcene alla larga, e non come successe a Lucera che poco mancò ci
lasciassimo le penne per difendere quella donna. Tu sei troppo
impetuoso, caro Turiddu! Non siamo più in Sicilia, almeno per ora;
quando torneremo all’ombra del grande vulcano, solo allora potrai
scagliarti contro chi ti da del "cornuto", oppure offende la
tua donna. Non vedi che adesso passiamo la vita tra bettole, taverne e
bordelli? E puttane, naturalmente!", gli rispose accoratamente
Ciccio.
"Il fatto è che quando vedo certe cose mi
ribolle il sangue nelle vene. Quella povera donna appesa ad un palo
perché accusata d’avere fatto una fattura! Accusata d’essere una
strega per avere dato da bere un miscuglio di porcherie, credendo così
di scacciare il demonio dal corpo di una persona? Altro che strega! Le
conosco io, le vere streghe!", brontolava Turiddu.
"Minchia! Allora continui a non volere capire!
Da quelle storie è meglio starsene alla larga, perché ci sono di mezzo
la Chiesa, i preti, e pure l’Imperatore. Quella strega era accusata di
eresia, non so cosa voglia dire esattamente; ma un giorno diceva d’essere
una santa, un altro giorno la madonna, e che poteva fare miracoli e
compiere guarigioni. In poche parole, voleva rubare il mestiere ai
preti, ai santi ed al Papa. Se anche le streghe si mettono a fare
miracoli, allora i santi che ci stanno a fare?".
"Tu, Ciccio, che ti senti così allittratu da
quando frequenti quella specie di chierico, che serve messa quando l’Imperatore
è in vena di sentirsene una, e si comunica pure nonostante tutti i
peccati che ha sulla coscienza, e se ne sta in prima fila con a destra
madama Bianca ed a sinistra il Capitano, e scortato in seconda fila da
Pier delle Vigne e maestro Teodoro, tu mi devi allora spiegare una cosa:
d’accordo per i preti che si credono depredati dei miracoli, ma l’Imperatore?
Che c’entra l’Imperatore in questa storia d’eresia, come tu la
chiami?".
"C’entra, c’entra! Me l’ha spiegato il
chierico che c’entra. Perché l’Imperatore, anche se non è capace
di fare miracoli, anche lui si sente come un Papa. Insomma, se il Papa
si sente un dio, anche l’Imperatore dice che comanda perché glie l’ha
ordinato Dio; e quei cialtroni, come spiega il chierico, che predicano
"pace e bene" per le strade, quei fanatici "populares"
che cantano l’amore e la povertà, scalzi e coperti solo d’un saio,
dicono che non è vero, che bisogna ubbidire solo a Dio, che i peccati
vanno confessati direttamente a Dio, eccetera. Insomma vorrebbero fare
le scarpe sia all’Uno che all’Altro. Non farmi imbrogliare più di
quanto non lo sia; domani mattina te lo faccio spiegare dal chierico. E
faresti bene anche tu a sentirlo ogni tanto. Mi ha raccontato tutta la
storia di S. Omobono, quel sant’uomo di questo paese che faceva parte
degli Umiliati, e che da quasi scomunicato, appena morto, s’è
ritrovato fatto santo da Papa Innocenzo III, che tanto a cuore ebbe la
crescita del nostro Imperatore".
"Lo sai bene, Ciccio, che io coi chierici e coi
santi non ho nulla da spartire. Se io non debbo più impicciarmi di
donne, tu faresti bene a non immischiarti in storie che non ti
riguardano. Tu parli del Papa Innocenzo che tanto bene ha fatto all’Imperatore:
buono quello! Il tuo chierico ti racconta le storie che vuole perché
parteggia per li suo Papa, ma a me Abdul, col quale ormai sono in
confidenza, me ne racconta altre. Il Papa, prima l’ha fatto eleggere
re di Sicilia, e poi l’ha combattuto perché voleva essere lui a
comandare ed a pretendere tasse e prebende. E chi credi che abbia
istituito i Tribunali dell’Inquisizione e ad inventare tutte queste
storie sull’eresia? E’ stato lui ad iniziare, e poi l’Imperatore,
per non essere da meno, ha fatto il resto. Certo che è stato
sfortunato, poverino, coi Papi che credono di dirgli quello che deve o
non deve fare. Il nostro Papa Gregorio gli ha ordinato di fare la
Crociata; lui l’ha fatta, gli ha conquistato Gerusalemme col Santo
Sepolcro, e per tutta risposta s’è ritrovato scomunicato. Ma chi è l’Imperatore?
Federico o il Papa? Io al posto suo a quest’ora…. Bevo un altro
sorso di vino, e poi vado a dormire. Prevedo che domani sarà un brutto
giorno", finì col dire Turiddu, un po’ confuso, un po’
adirato.
"Bevi, bevi, così il vino ti fa sparlare
meglio!".
E scolato l’ultimo bicchiere, s’avviò verso la
tenda del serraglio, seguito da Ciccio che brontolava per la sua
cocciutaggine e che, prima o poi, di questo passo, sarebbe incorso in un
brutto guaio.
Per i due compari le giornate, per lo più nebbiose e
piovigginose, passavano lente e monotone, alle prese con gli animali,
falchi, gru, leoni, ed il mastodontico elefante. Non tralasciavano
naturalmente la cura alle due pernici, che dimostravano di trovarsi a
loro agio in quella voliera fatta costruire appositamente per loro. Non
restava che attendere il ritorno di Federico vittorioso per riprendere
la loro attività venatoria, momentaneamente sospesa. E dalle notizie
che quotidianamente giungevano, per tutto il mese di ottobre ed i primi
giorni di novembre, infatti, l’Imperatore era impegnato a distruggere
castelli e roccaforti nella zona tra Mantova e Brescia. Quando giunse la
notizia che Federico aveva posto gli accampamenti a Pontevico, poco a
nord di Cremona, per fronteggiare l’esercito della Lega che non voleva
accettare battaglia e che s’era stabilito a poche miglia più a nord.
Prevedendo tempi lunghi per una soluzione definitiva, Federico mandò a
chiamare il suo serraglio, con falconieri, falchi e quanto necessario
alle battute di caccia, elefante compreso, per impiegare al meglio il
tempo dell’attesa. Era fatto così: se c’era da combattere,
distruggere, bruciare, correre da una parte all’altra, non era il tipo
da tirarsi indietro. Ma riteneva noioso sostare e temporeggiare in
appostamenti o in assedi, perciò nei momenti di calma, lasciato il
comando nelle mani del suo vice, non trovava niente di meglio che
dedicarsi alla caccia ed all’addestramento dei suoi magnifici falconi.
"Turiddu!", disse Ciccio un po’
allarmato. "Questa storia non mi piace. I Milanesi si trovano
accampati a due passi dal nostro esercito, e ci manda a chiamare per
andare a caccia".
"Sei forse diventato fifone, all’improvviso,
Ciccio? Se l’Imperatore ci chiama nel suo accampamento è perché sa
quello che fa. Finora siamo stati alla larga da ogni combattimento, e
non credo che ci sarà bisogno del nostro aiuto, con tutti quei soldati
di cui dispone. Ma se sarà necessario menare le mani, non vorrai
tirarti indietro!", gli rispose Turiddu con tono sicuro, ma che in
cuor suo cominciava ad avere qualche timore.
"Sarà sicuramente come dici tu, ma sento che c’è
qualcosa di strano nell’aria", disse Ciccio pensieroso.
"Preparate il necessario, fra poco si
parte", gridò Abdul a Ciccio e Turiddu.
Alle prime luci dell’alba, un’alba nebbiosa e
umidiccia, come capitava sovente in quella stagione, la carovana si
mosse per andare incontro all’Imperatore, in base agli ordini
ricevuti. La strada era pianeggiante e tranquilla, anche se un po’
melmosa a causa delle piogge insistenti di quei giorni; oltrepassarono
une serie di cascine, osannati dai contadini che alzavano le loro falci
in segno di giubilo, ma quasi impauriti alla vista dell’enorme
pachiderma, costeggiarono una sequela di risaie e di canali,
transitarono attraverso un piccolo bosco, e quindi nel giro di poche ore
furono in vista del fiume Oglio e dell’accampamento imperiale.
Al loro arrivo fu l’Imperatore in persona a
complimentarsi per la celerità del loro spostamento, e, dopo essersi
sincerato che tutto fosse in ordine, dette precise disposizioni su dove
piantare le tende.
Turiddu e Ciccio rimasero estasiati sull’imponente
spiegamento di forza. I loro occhi, fino all’orizzonte, non vedevano
altro che soldati in tenuta da combattimento e cavalli pronti per
prendere in sella i loro cavalieri e correre incontro al nemico;
sentivano i vari comandanti impartire gli ordini più disparati,
vedevano innumerevoli fuochi innalzare verso il cielo pennacchi di fumo,
un andirivieni di soldati portare armi da una parte all’altra del
campo. E tutto perché quel fetente del nemico non voleva accettare la
sfida in una battaglia a campo aperto. Se ne stava rintanato in un posto
sicuro ed inespugnabile tra due fiumi, in attesa che il morale dei
soldati avversari finisse col fiaccarsi. Si controllavano a distanza,
quasi si guardavano in cagnesco, senza che nulla succedesse. E dal
momento che l’Imperatore reputava che tutto fosse sotto il suo
controllo, ogni mattina ne approfittava per una battuta di caccia nei
boschi della zona, molto ricchi di selvaggina. Mentre Abdul preferiva
restare nel serraglio a controllare gli animali, Ciccio e Turiddu erano
sempre i primi ad aggregarsi al gruppo dei falconieri, servendo l’Imperatore
in tutte le piccole necessità che la caccia richiedeva.
Passati circa quindici giorni e perdurando lo stato
di assoluta inattività bellica, l’Imperatore, stanco dell’attesa, d’accordo
con gli alleati, decise di mutare tattica. Fece spargere la voce che l’esercito
rientrava a Cremona per passarvi l’inverno, e dette ordine che
iniziasse subito la marcia, dopo avere posto parecchie sentinelle nei
posti strategici, a controllare le mosse e le reazioni del nemico, e
pronti a segnalare ogni loro spostamento. Tutto procedeva secondo i suoi
piani. L’esercito bresciano, capito che l’Imperatore si ritirava a
Cremona, levò le tende verso nord est, in direzione di Brescia, mentre
il grosso dell’esercito della Lega cominciò a muoversi verso nord
ovest, in direzione di Chiari - Pontoglio, dove avrebbe dovuto
attraversare il fiume, prima di piegare ad ovest verso Cortenova e
quindi verso Milano, la via più breve e più sicura. Federico, allora,
certo che l’esercito nemico stava per cadere nel tranello, invertì la
marcia, ed anziché puntare verso Cremona, si diresse anche lui verso
ovest, marciando nottetempo, in silenzio e senza farsi scorgere, verso
Soncino e Cortenova, quasi parallelamente all’esercito milanese, a
poche miglia di distanza. Giunto a Cortenova, nascose i suoi soldati all’interno
del folto bosco di Covello: e lì rimase in paziente attesa. Era l’alba,
radiosa per l’Imperatore, del 27 novembre.
Ciccio e Turiddu, se ne stavano in spasmodica attesa.
Era la prima volta che assistevano da vicino alle grandi manovre che
precedono una battaglia, e le previsioni erano di una lotta senza
esclusioni di colpi e dalle dimensioni spaventose: da venti a trentamila
contendenti sul campo! Il serraglio era stato sistemato ai margini di
una radura, al sicuro e ben protetto dall’armata imperiale. Al di là
del bosco si sentivano le voci dei soldati milanesi e collegati che
cantavano, contenti di tornare alle loro case e certi di passare l’ultimo
giorno in quell’accampamento, sicuri che l’Imperatore, impaurito
dalle loro forze, aveva desistito da ogni tentativo di dare battaglia e
si ritirava nei quartieri invernali. Montavano le tende ed accendevano
fuochi per ripararsi dal freddo e preparare qualcosa di caldo per lo
stomaco. Ne erano già arrivati migliaia, e tanti altri continuavano a
giungere da Pontoglio, per lo più fanti e sporadici gruppi di
cavalieri. In mezzo al campo avevano sistemato il pesante Carroccio,
imbandierato con le insegne di Milano e con tutti i vessilli delle
città che aderivano alla Lega Lombarda. Le ore passavano lente, per i
soldati di Federico in trepida attesa di sferrare l’attacco
proditorio, quando l’orologio del paesetto vicino, di cui s’intravedeva
il piccolo campanile, suonava i rintocchi di mezzogiorno.
"Calma, calma! Tenetevi pronti, ma non muovetevi
prima del segnale!", andava ripetendo un cavaliere che,
attraversando il bosco in lungo ed in largo, infondeva coraggio agli
arcieri Saraceni, che di certo non ne avevano bisogno, ai fanti con
tutta la ferraglia addosso e le spade sguainate, ai cavalieri che
avrebbero dovuto per primi portare lo scompiglio tra i soldati intenti
alle loro faccende personali.
La presenza dell’Imperatore, che si aggirava tra la
truppa in sella al suo cavallo saraceno, galvanizzava oltre misura i
soldati che non credevano ai loro occhi nel vedersi incoraggiati e
spronati a dare il meglio di sé nell’attacco che si prospettava
imminente. A colmare la misura dell’euforia in campo, contribuì l’arrivo
del comandante delle truppe veronesi Ezzelino da Romano, il terrificante
personaggio che era sempre meglio avere dalla propria parte.
Terrificante all’aspetto, impetuoso in battaglia, crudele e violento
coi nemici.
Dalle loro postazioni in retrovia, Ciccio e Turiddu
avevano una posizione privilegiata, in quanto potevano assistere a tutto
ciò che avveniva nei paraggi della tenda imperiale, dov’era allocato
il comando generale.
"Ciccio!", disse Turiddu all’amico,
"Quando sarà il momento, non potrò perdere l’occasione d’assistere,
da lontano s’intende, allo spettacolo. Rosalia resterà a bocca aperta
alla sola idea che siamo stati alle dipendenze dell’Imperatore;
immagina a doverle raccontare quanto sta succedendo e potrà succedere
fra poche ore, una vera battaglia con migliaia di soldati pronti a dare
la vita per i loro comandanti!".
"Non fate altro che pensare a Rosalia; pensate a
portare la pelle fino in Sicilia, caro compare. Non sarà facile
ripercorrere all’indietro tutta la strada che abbiamo fatto per
giungere sin qui", gli rispose Ciccio, alquanto preoccupato per la
piega che avrebbero potuto prendere gli eventi da lì a pochi minuti.
Alle tre in punto del pomeriggio, quando la maggior
parte dell’esercito guelfo s’era attendato nello spiazzo antistante
al fitto bosco, fu dato l’ordine dell’attacco. In pochi minuti
successe il finimondo. Un urlo sovrumano si levò dalla foresta,
ricoprendo l’accampamento avversario. Gli arcieri Saraceni, sbucati da
sotto gli alberi che avevano celato la loro presenza, cominciarono a
lanciare le loro frecce sui milanesi, ignari e poco accorti, mentre il
grosso delle truppe di Federico e di Ezzelino piombarono sull’accampamento
nemico compiendo una strage inimmaginabile. La maggior parte dei fanti
fu sorpresa inerme a consumare il pasto o intenta ad un meritato riposo.
Furono trafitti ed uccisi prima dalle frecce saracene, poi dall’assalto
dei soldati, in un corpo a corpo senza scampo, poi dall’arrivo della
cavalleria. Dopo circa tre ore di lotta, la partita poteva considerarsi
chiusa sia per il calare dell’oscurità e di una fitta nebbia, sia per
la mancanza di nemici, ormai morti, prigionieri o fuggiti in cerca di
scampo. Il campo di battaglia risuonava per lo stridio delle armi e per
le urla e le imprecazioni dei contendenti. Feriti sanguinanti, teste e
braccia mozzate, corpi infilzati da frecce e lance micidiali, soldati
prigionieri incatenati e trascinati a forza nei posti di raccolta, fra
tende squarciate e date alle fiamme. Lamenti di dolore ed imprecazioni d’aiuto
salivano verso un cielo reso opaco da una densa fuliggine. Un disastro
inimmaginabile per i milanesi, un trionfo senza precedenti per l’Imperatore.
"Al Carroccio! Al Carroccio! Bisogna prendere il
Carroccio!", urlava l’Imperatore Federico che, spada in mano, s’era
calato nella mischia al pari di Ezzelino.
Ma il Carroccio, ben camuffato e ben difeso dagli
ultimi ardimentosi votati alla morte, era introvabile nella densa nebbia
che improvvisamente aveva invaso il campo di battaglia.
"Andiamo anche noi!", urlò Turiddu a
Ciccio, saltando sul suo cavallo e seguito per istinto dal suo compare.
Spronarono i cavalli verso il campo, attraversarono
il fitto bosco e si trovarono presto su uno spiazzo colmo di corpi senza
vita, quasi accatastati gli uni agli altri, tanto erano numerosi e
disordinati: uno spettacolo raccapricciante e vomitevole! La mischia,
fortunatamente per i due compari, ormai volgeva al termine.
Rimasero impietriti ad osservare quanto nefasto era
stato l’attacco dei loro compagni, quanta animosità e ferocia avevano
impresso alle loro spade ed alle lance. Quindi, mancando un minimo di
visibilità per andare alla ricerca del Carroccio, brancolando in un’atmosfera
da incubo, decisero di tornare mestamente indietro nella loro tenda, al
pari di tutti gli altri. In quel momento sentirono gli zoccoli di
cavalli arrivare al galoppo alle loro spalle e che s’avvicinavano
sempre più; spronati con forza dai loro cavalieri, amici o nemici che
fossero, ormai erano a ridosso. I cavalli di Ciccio e Turiddu s’imbizzarrirono,
istintivamente cominciarono a correre inseguiti dai cavalieri, quasi
sicuramente nemici, vista la fretta che avevano di allontanarsi dal
campo di battaglia, e presto, amici e nemici, si trovarono in un unico
gruppo che disordinatamente galoppava tra la nebbia verso il lato
opposto della radura, coperta di corpi esanimi, verso le retrovie dell’esercito
dei milanesi.
"Turiddu, siamo persi!", urlava Ciccio che
ormai si sentiva quasi afferrato alle spalle dai nemici.
"Corri Ciccio", gli rispondeva Turiddu,
"Corri e fai finta di nulla; forse ci stanno scambiando per loro
amici!".
"Te lo dicevo che sarebbe finita male; adesso o
ci infilzano, o ci fanno prigionieri!", continuava ad imprecare
Ciccio, spaventato a morte da come s’erano messe le cose.
"Di qua, di qua!", urlava uno del gruppo,
"’ndemm a S. Pietro".
"A Carpeneto, a S. Michele!", urlava un
altro, "Andiamo verso il ponte sul fiume!", gli rispondeva un
terzo agitatissimo.
Confusi nella nebbia ai cavalieri milanesi, ormai non
potevano tornare sui loro passi, verso il sicuro accampamento dell’Imperatore.
Non restava loro che fingersi soldati dell’esercito guelfo, e sperare
di non essere smascherati per quelli che erano effettivamente.
"Da dove venite?", chiese quello che
sembrava il capo del gruppetto, e che tutti chiamavano Tonino.
Turiddu, preso alla sprovvista da quella domanda,
andò in confusione e farfugliò qualcosa di incomprensibile; ma poco
dopo ripresosi dallo smarrimento gli urlò con sicurezza:
"Veniamo da Lodi, speriamo di trovare la strada
per tornare verso casa, con tutta questa nebbia".
"Molto pericoloso, amico, con questa nebbia e
con le strade infestate dai soldati del tedesco maledetto. Andiamo
insieme verso Milano, e poi ognuno prenderà la strada che vuole".
"Hai sentito, Ciccio!", disse Turiddu
accostandosi a Ciccio che cavalcava un po’ in disparte. "Mi hanno
chiamato amico! Ci hanno proprio scambiati per loro compagni di
sventura. Non ci resta che seguirli verso Milano, sperando che non
scoprano la vera nostra identità. Parliamo poco e solo quando
indispensabile".
"D’accordo, ma non potremmo tornare indietro?
Con questa nebbia non si accorgerebbero di nulla se, al prossimo bivio,
restassimo indietro", gli disse Ciccio.
"Si potrebbe anche fare, ma non si vede proprio
nulla e temo che non arriveremmo molto lontano da soli, mentre questi
conoscono bene la strada; e se poi incontrassimo soldati della Lega allo
sbando? No, Ciccio! E’ più sicuro proseguire con questi soldati
facendo finta di nulla. Una volta giunti a Milano si vedrà",
concluse Turiddu che, a quella parola magica, all’idea d’entrare in
una città come Milano, diventò subito euforico.
Continuarono a cavalcare su un terreno fangoso e
difficile, spronando i cavalli quanto più possibile. Turiddu e Ciccio
stavano dietro i loro compagni di sventura che, per la sicurezza con cui
si muovevano su quei sentieri, sembrava fossero di casa, o comunque
originari di quelle parti. Presto giunsero al guado di Carpeneto, nel
cui greto erano ancorate due immense colonne, alle quali si agganciavano
le corde per la sicurezza durante l’attraversamento del fiume Serio,
ancora presidiato dai soldati della Lega, ignari dello sfacelo occorso a
Cortenova. Segno che ben pochi avevano avuto modo di dileguarsi e
sfuggire al massacro avvenuto poche ore prima.
"Altolà! Altolà!", risuonò una voce nel
silenzio della notte, non appena si avvicinarono al ponte.
"Sono Tonino di Porta Orientale, il comandante
della cavalleria di Milano", urlò il capo, arrestando il cavallo e
saltando a terra.
Anche gli altri si fermarono e scesero da cavallo,
andando incontro ai soldati che stavano a presidio del ponte.
Due soldati, con in mano una lanterna, sbucarono
dalla oscurità, fermandosi alla vista dei loro compagni. Bastarono
poche parole a Tonino per informarli di quanto era appena successo a
Cortenova, e che avrebbero fatto bene a darsi in fretta alla fuga, se
non volevano incappare in qualche pattuglia del tedesco o di Ezzelino.
Convennero, alla fine della discussione, che sarebbe stato meglio
attraversare subito il fiume e passare la notte in un rifugio alquanto
sicuro, per riprendere il cammino l’indomani, alla luce dell’alba.
Così fecero, infatti. Attraversato a guado il fiume, tenendo in briglia
i cavalli, si ritrovarono, dopo un breve viottolo in salita, all’interno
di un fienile dove avrebbero potuto riposarsi in santa pace. Il soldato
che li aveva accompagnati tornò verso il casolare, a fare compagnia
agli altri che erano rimasti di guardia. Mangiarono un po’ di pane e
formaggio, che aveva consegnato loro il guardiano del guado, bevvero un
sorso di vino, quindi si buttarono sui pagliericci improvvisati con
paglia e fieno. La rabbia e la tristezza era tanta che nessuno aveva
voglia di parlare. Solo Tonino, il comandante, prese a lamentarsi.
"Che disastro, amici! Hanno ferito e catturato
persino il Podestà! Povero Pietro! Vederlo lì per terra, incatenato
come un cane, mi ha fatto una rabbia! Ci siamo buttati nella mischia, ma
erano tanti, troppi, per riuscire a liberarlo e trarlo in salvo. Siamo
dovuti scappare per non restare anche noi in trappola. Peccato che il
grosso della cavalleria era ancora nelle retrovie e non è potuta
intervenire in tempo, ma almeno loro sono sani e salvi. I fanti invece!
Che macello, amici! Non una sentinella che potesse dare l’allarme,
cosicché il siciliano ci ha giocati per bene, maledetto!".
Finché, più afflitto e disperato che stanco, chiuse
gli occhi farfugliando le sue ultime imprecazioni contro Federico, i
tedeschi, i siciliani.
A quelle parole piene di odio, Ciccio e Turiddu,
sdraiati su un pagliericcio in un angolo del fienile, diventavano sempre
più piccoli, avrebbero volentieri cambiato identità nel timore che
quei cavalieri potessero scoprire la loro vera provenienza. Avevano tra
loro, senza saperlo, due falconieri di sua maestà, incaricati
nientemeno di sollazzare con pernici e falconi l’Imperatore tedesco,
durante le battute di caccia. Quale migliore soddisfazione che torcere
il collo a quei due furfanti simulatori, immaginando d’avere tra le
mani l’Imperatore in persona?
Nel volgere di pochi minuti, in tutto il fienile
risuonavano soltanto i pesanti respiri dei soldati, accompagnati dal
roco e monotono russare di alcuni di loro, ed il ticchettio della
pioggia che a tratti cadeva sul tetto.
Solo Ciccio e Turiddu non riuscivano a prendere
sonno; pensavano alla loro situazione, alla fuga precipitosa alla quale
erano stati costretti per caso, alla rabbia contro il siciliano che
covava nel cuore dei soldati, e a ragione, che stavano lì accanto, a
cosa avrebbe pensato Abdul nel non vederli rientrare nella tenda, alle
pernici. E se li avessero considerati come disertori? Morti non potevano
essere, dal momento che i loro corpi, fortunatamente, non giacevano sul
campo di Cortenova, ma nientemeno che in un fienile in mezzo a dei
soldati nemici, coi quali stavano dividendo pane e letto! Una situazione
strana e paradossale la loro! Fossero scappati e rientrati al serraglio,
avrebbero anche ricevuto un applauso, avrebbero potuto raccontare d’essere
stati fatti prigionieri e quindi fuggiti dalle grinfie del nemico; ma
così erano dei disertori e basta. Meno male che la presenza di spirito
aveva fatto dire a Turiddu di essere originari di Lodi; avesse detto di
Milano, quelli avrebbero chiesto se abitavano a Porta Orientale o a
Porta Comasina, che mestiere facevano, chi erano i parenti, se
conoscevano il Tizio o il Caio. Finché, un po’ stanchi, un po’
confusi, lambiccati e quasi ossessionati da questi pensieri, anche loro
si arresero al sonno ristoratore, senza avere profferito una sola parola
per non destare sospetti nei vicini di letto.
Il chiarore dell’alba, che penetrava nel fienile
dalle fessure di una porta posticcia, sorprese il gruppo di cavalieri
ancora sdraiati sulla paglia. Fu la voce del comandante Tonino a
destarli.
"Sveglia, amici, è ora di muoversi verso
Milano, per dare notizia dell’accaduto, in modo che si possa
approntare la difesa della città. Fra poco l’Imperatore tedesco ci
sarà addosso con tutto l’esercito. Se quel maledetto di suo nonno l’ha
già distrutta una volta, non permetteremo che la cosa si ripeta una
seconda, a costo della vita!", esclamò recuperando le armi deposte
in un angolo ed uscendo dal fienile. Tutti quanti, in un baleno, s’immersero
nella triste realtà di fuggitivi sconfitti. Raccolsero le armi e
corsero all’esterno del fienile, dove i cavalli, ristorati dopo una
giornata faticosa, erano pronti a riprendere la via verso la salvezza.
Anche Ciccio e Turiddu si dovettero adattare all’atmosfera di mestizia
che regnava nel gruppo, e si calarono nei panni di due combattenti per
la causa dei milanesi che, anche se non le avevano prese di santa
ragione come gli altri, si trovavano allo sbando, costretti ad errare in
terre per loro sconosciute.
La nebbia, che copriva la pianura al di qua e al di
là del fiume, si era quasi diradata al punto da rendere appena visibile
il sentiero che portava verso Cassano d’Adda, per collegarsi alla
strada maestra che, normalmente attraversata dai carri carichi di
mercanzie d’ogni genere, collegava speditamente Brescia con Milano,
passando appunto per Treviglio e Cassano d’Adda. In silenzio ed in
fila indiana, il corteo di cavalieri s’incamminò lungo i sentieri che
costeggiavano le numerose rogge, al piccolo trotto per non affaticare i
cavalli, visto che Milano distava non meno di venticinque miglia.
Attraversato il territorio di Treviglio, furono presto in vista di
Cassano. Erano circa le dieci, quando intravidero l’insegna dell’osteria
del gallinaccio, segno che ormai erano quasi giunti sulle rive del fiume
Adda. Tonino decise che era opportuno, prima di attraversare il fiume,
fermarsi per mangiare qualcosa di caldo e per fare riposare i cavalli,
in vista dell’ultima galoppata verso Milano. Giunti davanti l’osteria,
vi girarono intorno per sistemare i cavalli nell’apposito cortile; ma,
dal trambusto che vi regnava intorno e dalla presenza di numerosi
cavalli e carri, si resero subito conto di essere stati preceduti.
Infatti parecchi soldati, sicuramente reduci dalla battaglia del giorno
precedente, giacevano a terra, orrendamente mutilati o gravemente
feriti. Per tutto il locale si levavano lamenti e grida d’imprecazione
d’ogni genere, mentre quello che sembrava l’oste e gli amici si
prodigavano alla meglio nell’eseguire fasciature, nel tentativo di
bloccare le abbondanti emorragie e lenire, per quanto possibile, il
dolore dei poveri disgraziati. Uno in particolare, che sembrava avere
perso una gamba, benché stremato dall’abbondante perdita di sangue,
strillava e bestemmiava contro la malasorte che gli era toccata. La
moglie dell’oste, una donna alta e grassona, distribuiva boccali di
vino che riempiva da una piccola botte situata in un angolo del locale.
Dappertutto regnava un disordine ed una sporcizia indescrivibile, tra il
sangue sparso dappertutto, il pavimento sporco del fango portato dall’esterno
e le coperte che fungevano da letto per i feriti. Il tepore del locale
ed il buon odore di stufato che proveniva dal retro dell’osteria,
facevano da contrasto con l’improvvisato ospedale da campo che era
stato approntato tra i tavoli, che normalmente ospitavano avventori di
passaggio.
All’arrivo del nuovo gruppo di soldati, ci fu un
attimo di silenziosa trepidazione; poi, riconosciuti Tonino e gli altri
amici, alla tensione seguì uno scambio di abbracci e di saluti, e gli
animi quasi si placarono; ma non i lamenti che continuavano anche se in
sordina. Per quanto fu loro possibile, si prodigarono a portare soccorso
ai feriti, ma si resero subito conto che per alcuni non c’era nulla da
fare. Il comandante cercò di mettere un po’ d’ordine, spiegò che
sicuramente altri feriti sarebbero arrivati da Cortenova, e dette
disposizioni che, fasciati alla meglio, fossero portati a Milano per
essere curati a dovere. Il tempo di mettere sotto i denti qualcosa di
sodo e di bere un boccale di vino, che già Tonino e compagni erano sui
loro cavalli sulla strada per Milano. In lontananza, alle loro spalle,
scorsero che altra gente arrivava dal luogo della battaglia. Ma non c’era
tempo da perdere: per cui spronarono i cavalli, senza prestare soverchia
attenzione.
Turiddu e Ciccio, dopo le scene raccapriccianti visti
sul campo, rimasero sconvolti alla vista di quali effetti deleteri aveva
prodotto su quei poveri diavoli lo scontro coi soldati dell’Imperatore,
soprattutto le frecce micidiali dei Saraceni. Ma, non essendo né
medici, né infermieri, si limitarono, come gli altri, a dare una mano a
fasciare i feriti.
"Io mi chiamo Ambrogio e sono di Milano. Da dove
avete detto che venite?", chiese uno dei soldati col quale avevano
familiarizzato più degli altri, durante il soccorso ai feriti.
"Veniamo da Lodi", confermò Turiddu.
"A dire il vero, e non si può nascondere, siamo di origine
siciliana. Siamo venuti da queste parti in cerca di fortuna, ma a quanto
pare ci siamo cacciati in un mare di guai e poco è mancato che ci
lasciassimo la pelle, a Cortenova".
"Non preoccupatevi, vedrete che l’Imperatore
avrà ciò che si merita! Non crederà di farla franca, solo perché ci
ha teso una vergognosa imboscata nella quale siamo incappati da fessi.
Devo riconoscere che è stato molto abile a farci credere il contrario
di quello che poi ha fatto. Ma se tenterà d’avvicinarsi a Milano
troverà una bella sorpresa", sbottò Ambrogio, rosso di rabbia.
Ambrogio era un giovanotto di media statura, ma di
corporatura molto robusta; era uno di quelli che quando s’infervorano
in una discussione diventano paonazzi in viso e non c’è modo né di
fermarli, né di farli recedere dalla loro convinzione. E da come
parlava, sembrava sì un po’ spavaldo, ma molto sicuro si sé. Dalla
confidenza che mostrava col capo Tonino e dai discorsi che Ciccio e
Turiddu erano riusciti a captare dal loro dialetto, non doveva essere la
prima volta che partecipava a dei combattimenti. Non era un soldato di
mestiere, ma aveva risposto, come tanti altri, alla chiamata del
Podestà per tentare di contrastare le ambizioni del tedesco, che
pensava di fare un boccone dei comuni e della libertà dei cittadini
milanesi. Parlava a rotta di collo; raccontava che di mestiere faceva il
garzone nella bottega del padre, che aveva un forno nel vicolo S.
Damiano, nei pressi del Naviglio. E meno male che era uscito illeso da
quella brutta avventura, perché aveva una ragazza che lo aspettava e
che fra poco avrebbe voluto mettere su casa. Tra una fasciatura ed un
bicchiere di vino, Ambrogio raccontava le sue storie, mentre Ciccio e
Turiddu stavano ad ascoltarlo con attenzione, e fare tesoro di tutte le
notizie che potevano essere utili in una città a loro sconosciuta.
Fatto quanto era nelle loro possibilità per aiutare
quei poveretti, bevvero insieme un buon boccale di vino, si
rifocillarono alla meglio con quanto l’oste aveva messo a
disposizione, e partirono assieme agli altri alla volta di Milano.
Attraversato il ponte sull’Adda, i cavalieri presto
si trovarono nell’abitato del paese, salutati ed incoraggiati da
quanti, vedendoli galoppare verso la grande città, riconoscevano in
loro gli eroi che s’erano fermamente opposti alle forze del tedesco
prevaricatore. Corsero per tutto il pomeriggio, fermandosi un paio di
volte per abbeverare e foraggiare i cavalli; il tempo s’era mantenuto
abbastanza clemente, anzi ogni tanto il sole riusciva a squarciare il
cielo plumbeo, coperto dalla solita cappa di nebbia che però non
impediva la visione della pianura piatta e monotona che stavano
attraversando. Nei prati, ai bordi della mulattiera che attraversavano,
i contadini aravano i campi o erano intenti ai lavori della semina,
coadiuvati dalle donne che s’industriavano a porgere gli attrezzi o a
spargere i semi nei solchi. Il loro veloce incedere non permetteva né
invogliava al dialogo i cavalieri, intenti a guidare i cavalli su una
strada fangosa ed a tratti difficile, anche se pianeggiante.
Al calare della sera, stanchi e sporchi di fango,
erano ormai alle porte di Milano.
"A Porta Orientale!", disse Tonino al suo
seguito, giungendo alla biforcazione della strada che, verso nord
dirigeva alla Porta Nuova e Comasina, mentre diritto immetteva verso
Porta Orientale.
Dovettero aspettare qualche minuto, prima che i
battenti della pesante porta si aprissero e le sentinelle lasciassero
entrare i cavalieri stravolti dalla fatica della lunga cavalcata. Le
guardie li aiutarono a scendere da cavallo, mentre il comandante della
porta ordinava che fossero immediatamente rifocillati ed assistiti. La
notizia della disfatta subita il giorno precedente e della cattura del
Podestà li colse di sorpresa. Non potevano immaginare una sconfitta
così pesante e tante perdite umane. Il famoso esercito della Lega si
era dissolto nel volgere di poche ore, e adesso bisognava ricostituirlo
immediatamente se non si voleva correre il rischio di trovarsi l’Imperatore
dentro le mura della città. Non sarebbe stato facile a nessuno
penetrarvi com’era successo ai tempi del Barbarossa. Dopo quella
triste esperienza la città era stata fornita di robuste mura e
circondata da profondi canali sempre pieni d’acqua. Ma, senza un’adeguata
protezione di soldati, anche un baluardo come le mura ed i fossati colmi
d’acqua sarebbero stati una facile preda di qualsiasi malintenzionato.
La notizia della sconfitta si propagò in un baleno
per tutta la città, e rattristò coloro che su quel campo maledetto
avevano dei parenti, che probabilmente non sarebbero più tornati a
casa. Si sa che le notizie buone corrono, ma che quelle brutte hanno le
ali per volare: e volarono, infatti, di casa in casa, dalla bettola al
fornaio, da Porta Orientale alle stradine più anguste di Porta Cicca e
Porta Romana, da un barcone all’altro, dai bordelli del Bottonuto alle
casbe di S. Carpofen e Viarenna. Dappertutto urla, pianti, imprecazioni
di disperazione. Il ricordo del Barbarossa, ancora vivo nei più
anziani, che aveva messo a ferro e a fuoco interi quartieri, faceva
balenare nella mente dei milanesi il fantasma del nipote, l’Imperatore
Federico II, ormai alle porte di Milano, percorrere a cavallo le vie
della città, impartendo ordini di morte e distruzioni. Così avrebbe
vendicato l’onta della sconfitta subita a Legnano dal nonno, nel 1176,
da parte della Lega.
In mancanza del Podestà, rimasto prigioniero sul
campo di battaglia, al Broletto si riunì immediatamente il Consiglio
dei Novecento, che provvide ad arruolare forzatamente quanti erano in
condizione di maneggiare un’arma, per rinforzare le cinte murarie e le
sei Porte principali della città.
I cavalieri si salutarono per fare ritorno alle
proprie case, mentre Tonino dava loro appuntamento per l’indomani.
"Suppongo non abbiate dove andare a dormire
stanotte", disse Ambrogio a Turiddu. "Rivolgetevi a nome mio
all’Osteria delle Quaglie, dove potrete mangiare un boccone e dormire
in santa pace. Il proprietario é Don Pietro, un mio vecchio amico che
rifornisco tutte le mattine di pane appena sfornato. Sul retro troverete
un piccolo cortile dove sistemare i cavalli. Siete miei ospiti,
naturalmente", disse Ambrogio mentre saltando in groppa al suo
cavallo dava le ultime spiegazioni per raggiungere in fretta l’osteria,
di fare molta attenzione a non perdersi tra i vicoli bui o scivolare
nelle acque gelide dei canali.
Ai ringraziamenti di Ciccio e Turiddu, rispose di non
preoccuparsi, tanto avrebbero avuto tempo e modo di sdebitarsi.
Così i due amici siciliani, intrufolatisi per caso
nel cuore della grande città, acerrima nemica del loro Imperatore, si
avviarono coi loro cavalli alla ricerca di questa benedetta Osteria
delle Quaglie, nome che nelle loro menti rievocava uno strano sapore
venatorio, per una notte di meritato riposo.
Lasciata Porta Orientale, tenendo in briglia i
cavalli, si inoltrarono nella città che ai loro occhi parve subito
sterminata. Ormai il buio della sera aveva preso il sopravvento sulla
timida luce che li aveva accompagnati per tutta la giornata. Alzarono
istintivamente gli occhi al cielo, alla ricerca di qualche stella, ma si
resero conto che una densa cappa di nebbia aleggiava sulle loro teste.
In lontananza però, essi potevano ancora scorgere la luce soffusa di
una sequela di piccoli lampioni che riflettevano i loro raggi nelle
acque di un lungo canale, dal quale s’alzavano timidamente verso il
cielo vapori grigiastri simili a fumi.
"E’ quello il canale che ci ha indicato
Ambrogio", disse Ciccio non appena si rese conto d’essere sulla
giusta via.
Cominciarono a costeggiarlo, facendo bene attenzione
a tenersi lontano dal parapetto, in più punti mancante o rovinato. Man
mano che avanzavano, sul selciato udivano il rimbombo dello scalpitio
degli zoccoli dei loro cavalli, dalla porta che improvvisamente s’apriva
arrivavano le voci di bimbi, uomini e donne indaffarati s’apprestavano
a rincasare dopo una giornata di lavoro. Avevano camminato per una buona
mezzora, quando giunsero nei pressi d’un ponticello sul quale spiccava
una statua situata nel lato destro della ringhiera, e che sembrava
essere stata posta lì a sua protezione. In un angolo un signore
manovrava una specie di forno, tutto intento a girare e rigirare
qualcosa all’interno d’una grande padella.
"Volete le castagne?", domandò ai due che
s’erano fermati ad osservare incuriositi, ma che forse era lui il vero
curioso di sapere dove andassero quei due cavalieri.
"No! Potreste indicarci l’Osteria delle
Quaglie?", gli rispose Turiddu senza esitare un attimo.
"Ah! L’osteria di Don Pietro! Dovete superare
il secondo ponte, quindi girare a sinistra e proseguire per un centinaio
di passi. Siete quindi arrivati", rispose gentilmente il venditore
di caldarroste.
Così fecero, allontanandosi nella direzione indicata
e portandosi appresso un delizioso odore di castagne arrostite. Dopo
pochi minuti si trovarono sotto il naso una strana insegna dove
campeggiavano due uccelli coloratissimi che volevano rappresentare le
quaglie, e che inequivocabilmente indicavano l’osteria che stavano
cercando. Legarono i cavalli all’anello di ferro, che pendeva dal muro
sul lato destro della casa, e superarono la piccola porta da cui
proveniva un chiasso infernale. La scena era quella di un’osteria di
basso livello: un piccolo locale illuminato da qualche candela, alcune
panche occupate da avventori che discutevano ad alta voce e bevevano
vino da ciotole di terracotta, un signore sulla cinquantina, grasso e
con lunghi baffi, seduto a scaldarsi vicino ad un braciere.
"Don Pietro sono io, a servirvi!", rispose
l’oste alla domanda di Ciccio.
"Ci manda il vostro amico Ambrogio, e vorremmo
restare a dormire qui stanotte", intervenne Turiddu.
"Ambrogio! Povero Ambrogio! E’ rimasto a
Cortenova, povero figlio! Che Dio l’accechi, quel diavolo d’un
tedesco!", borbottò l’oste.
Alla notizia che invece Ambrogio era tornato sano e
salvo, e che anche loro venivano da Cortenova, stanchi ed affamati, fu
un coro d’applausi e di abbracci, subito portarono vino da bere,
furono fatti accomodare ad una panca, ed in pochi minuti sul tavolo
giunsero due piatti che la moglie di Don Pietro s’era affrettata a
riempire con salsicce e polenta. Sistemati i cavalli nel retro, bevvero
e mangiarono con appetito, mentre raccontavano con dovizia di
particolari della battaglia, dell’imboscata tesa ai Milanesi, della
fuga e della carneficina di soldati; seguiti attentamente dagli
avventori che, colmi di vino, mimavano a voce e coi gesti quanto Ciccio
e Turiddu andavano rappresentando. Intanto continuavano a parlare a
ruota libera, raccontavano di caccia, di pernici, di falconi, e di
chissà cos’altro.
"Ci mancano solo i cartelli per rassomigliare a
Cicciu Busacca!", gli disse Ciccio ridendo, per come se l’erano
cavata egregiamente a descrivere la battaglia.
"Spero soltanto di ritornare a sentirlo cantare,
il nostro Busacca, se usciamo vivi da questa storia!", gli rispose
Turiddu preoccupato.
Il rumore degli zoccoli dei cavalli che transitavano
davanti l’osteria ed il vocio degli avventori, svegliarono Ciccio e
Turiddu da un lungo sonno ristoratore. La stanchezza e l’abbondante
vino tracannato la sera prima, non era chiaro se per festeggiare la
sconfitta dei milanesi o la loro fuga da Cortenova, aveva tirato un
brutto scherzo ai due compari. Il fatto è che si stavano sollevando a
fatica da quei due giacigli dov’erano stati deposti dalle mani pietose
dell’oste. Uscirono in strada, da quell’angusto tugurio dove avevano
passato la notte, e con grande meraviglia constatarono che la nebbia
della sera precedente era quasi sparita e che il chiarore dell’alba
cominciava ad illuminare le vie e le case della città; segno che fra
poco anche il sole avrebbe fatto capolino dalla foschia che s’intravedeva
guardando verso sud. A pochi passi le acque del naviglio, quasi per
magia, emettevano strani vapori biancastri, e da come si muoveva ogni
sorta di mercanzia che galleggiava in superficie, la loro marcia doveva
essere lenta e monotona. Si guardarono intorno e rimasero estasiati
dallo spettacolo che potevano osservare, con tutti quei campanili che
svettavano sulle case basse, i cui tetti rossastri brillavano per l’umidità
che la notte aveva depositato e che andava sciogliendosi con l’aumentare
della temperatura. Il lungo naviglio che avevano di fronte si perdeva in
lontananza a destra e a manca, e fin dove l’occhio era in grado di
scrutare, potevano osservare una serie di ponti che l’attraversavano
da una parte all’altra, protetti da eleganti ringhiere e sormontati da
piccole statue. L’osteria dove avevano passato la notte, era quasi
addossata alle mura della città, ed alla loro sinistra faceva bella
mostra l’imponente Porta Romana, una delle porte principali,
presidiata notte e giorno da un folto gruppo di soldati che, da come si
muovevano, già a quell’ora del mattino, sembravano alquanto agitati.
Salutarono l’oste che s’era fatto loro incontro,
e raccomandandogli di fare attendere il loro amico Ambrogio, se fosse
giunto nel frattempo a portare il pane come di consueto, decisero di
fare due passi lungo il naviglio. Controllarono e dettero un po’ di
biada ai cavalli, in modo che restassero tranquilli nel cortile dell’osteria,
quindi si avviarono verso la Porta Romana, uscendo direttamente dal
retro, percorrendo una serie di vicoli.
"Che mi venga un colpo: guarda!", disse
Turiddu a Ciccio, indicando un’insegna. "Osteria delle due
pernici! Tra quaglie e pernici, devono trattarsi bene in questo
paese!".
"Quell’insegna mi riempie di tristezza; hai
scordato che abbiamo abbandonato le nostre pernici nel carro di Abdul?
Chissà se sono ancora vive o se sono state date in pasto a qualche
falchetto dell’Imperatore, per festeggiare la vittoria dell’altro
giorno?", gli rispose Ciccio preoccupato.
"Dobbiamo rassegnarci, oramai, caro compare!
Sicuramente non le vedremo più le nostre pernici. E pensare che siamo
stati appesi ad un palo, e poco è mancato che ci lasciassimo la pelle
per difenderle dagli artigli di quel maledetto falcone. Adesso pensiamo
soltanto a dare una veloce occhiata a questa città, e quando torneremo
sui nostri passi andremo alla loro ricerca", tagliò corto Turiddu.
Questi non perdeva un minimo particolare di quanto
gli stava di fronte, osservava le ringhiere in ferro battuto che,
artisticamente lavorate, stavano a protezione dei ponti sul naviglio, le
statue che sicuramente rappresentavano figure di Santi poste a
protezione dei passanti o dei barcaioli, i barconi pieni di merce che
solcavano le tranquille acque del canale mentre il barcaiolo con un remo
si destreggiava a tenere al centro del canale la sua barca, evitando che
andasse a sbattere contro le rive o contro i frequenti pontili. Tutto
era nuovo per loro, e mai si erano avventurati in una città così
grande. Giunsero sul ponte, sormontato da una statua di santo che teneva
le braccia incrociate, e sostarono incantati ad osservare l’imponente
costruzione che si erigeva intorno alla Porta, colma di bassorilievi, di
effigi, di scritte in latino, a loro incomprensibili.
S’inoltrarono verso il centro della città,
lasciandosi la Porta alle loro spalle. Fatti pochi passi s’imbatterono
in una bella chiesa sulla cui facciata spiccava un gran rosone ed un bel
campanile, statue dappertutto, eleganti palazzi, belle piazze, e sempre
quel naviglio sinuoso che sembrava onnipresente. Finché, nel loro
girovagare, si trovarono di fronte ad uno strano ed imponente palazzo.
Era evidente che si stavano avventurando nel centro della città, nel
cuore di quella metropoli che contava non meno di centomila abitanti.
"Da dove venite, voi due! E’ il Broletto, la
casa del Podestà", disse loro un passante che trainava uno strano
attrezzo simile ad una carriola, e al quale Ciccio aveva timidamente
chiesto spiegazione.
"Povero Podestà! Chissà che fine farà nelle
mani del nostro Imperatore. E pensare che avrebbe potuto starsene qui
tranquillo ed al sicuro! Questo, caro Ciccio, è il cuore di Milano, qui
si trova il comando della Lega, dove fra poco potrebbe insediarsi il
nostro Imperatore".
Intorno al Broletto era un brulicare di gente, il
porticato che si apriva sotto l’imponente costruzione era pieno di
mercanti che esponevano ogni sorta di mercanzia, di gente che
contrattava affari, di persone che andavano avanti e indietro con sacchi
sulle spalle, cavalli che scalpitavano sul lastricato, carri colmi di
prodotti, un gruppo di soldati armati che si muovevano in gran fretta.
Ciccio e Turiddu rimasero a guardare sbalorditi, girarono intorno alla
piazza, vagarono nei porticati, sotto gli archi, nei vicoli e nelle
piccole porte che circondavano la costruzione. Erano le prime ore del
pomeriggio quando, presi dall’euforia, si ricordarono delle parole
dell’Imperatore; allora chiesero indicazioni per la famosa Chiesa di
S. Ambrogio. Non fu loro difficile arrivarci, dopo avere percorso una
lunga via che sembrava non finire mai, a causa delle pozzanghere e della
melma che sollevavano carri e cavalli al galoppo. Si fermarono ad
osservare non appena intravidero la rossa costruzione in mattoni, resa
ancora più viva dai timidi raggi del sole, ormai basso all’orizzonte,
che illuminavano l’ingresso, la bassa facciata ed i campanili.
"Ne valeva la pena!", disse Turiddu
estasiato quando si trovò nell’atrio a portici dell’elegante
costruzione.
Da quel punto d’osservazione, con un colpo d’occhio
potevano cogliere uno spettacolo superbo; ai lati i portici con tante
lapidi, di fronte la bella facciata della Basilica a logge sovrapposte,
due piccoli campanili ai lati.
Entrarono compunti nella Basilica: osservarono le tre
navate sorrette da tanti pilastri, l’elegante pulpito, lo stupendo
altare rivestito d’oro e d’argento, e ornato da pietre e smalti, il
tempietto costruito sopra l’altare, il bel mosaico dell’abside con
la figura di Cristo tra due santi. S’inginocchiarono e pregarono.
Forse pregarono Dio che li facesse tornare a casa, forse,
sacrilegamente, supplicarono S. Ambrogio di farli ricongiungere al loro
Imperatore. Essi almeno avevano ottenuto ciò che Federico un giorno
aveva confessato: "Potere mettere piede nella Basilica, dove il
Barbarossa era quasi di casa e che aveva visto unire in matrimonio i
suoi genitori". Commossi, se ne uscirono in punta di piedi, per
fare ritorno all’osteria, visto che ormai cominciavano a calare le
prime ombre della sera. Appena fuori della Basilica si trovarono su uno
spiazzo con in mezzo una colonna, intorno alla quale stavano giocando
alcuni bambini. Di fronte a loro si apriva la Pusterla di S. Ambrogio,
la piccola porta a due arcate, provvista di ponte levatoio. Incuriositi,
l’attraversarono e si trovarono fuori le mura della città da dove
poterono ammirare le due torrette poste ai lati della porta ed il
bassorilievo con la figura di S. Ambrogio attorniato da altri due santi,
posti a guardia di quell’ingresso. Poco distante, un’insegna che
segnalava una locanda dove si poteva mangiare un boccone e bere un sorso
di vino, li invogliò ad entrare, visto che erano a digiuno sin dal
mattino.
Tornarono sui loro passi, per fare a ritroso il
percorso che li aveva portati alla Basilica, attraversarono alcuni
vicoli deserti, s’imbrogliarono nella ricerca della lunga via percorsa
in precedenza. Nel silenzio di quei vicoli, in cui risuonavano soltanto
i loro passi pesanti sul selciato, cominciarono a sentire in lontananza
un’eco di voci concitate, come un comizio quando, alle parole
appassionate dell’oratore, gli astanti, numerosi, rispondono con
applausi di approvazione e di compiacimento. I due amici, curiosi come
sempre, non sapendo dove andare, decisero di dirigersi nella direzione
dalla quale provenivano quelle voci. Percorso il vicolo per un centinaio
di passi, girarono alla loro destra e dopo una stradina maleodorante e
piena di rifiuti d’ogni genere, sbucarono all’angolo d’una grande
piazza. Non si erano sbagliati quando avevano pensato ad un comizio; la
piazza, brulicante di persone sistemate alla rinfusa in ogni dove, era
sovrastata dalla facciata rossa di una chiesa con una piccola loggia a
due piani, alla cui sinistra risaltava un minuscolo ma elegante balcone
in legno, una specie di pulpito esterno alla chiesa. E da quel pulpito
un prete o un monaco, con un’evidente croce rossa disegnata sul petto,
arringava la folla con parole di fuoco ed espressioni da fare
accapponare la pelle. Parlava di eresie, di peccatori che sarebbero
precipitati nella brace dell’inferno in braccio a satana, d’infedeli
alla santa chiesa ed al Papa. Chiamava quei peccatori, che predicavano
povertà e fratellanza, come poveri di spirito, che si trinceravano
dentro al loro saio e dietro al digiuno forzato per fare un dispetto
alla santa chiesa ed ai suoi comandamenti, che contestavano i precetti
divini facendo azioni di sedizione e creando disordini. Quei peccatori,
ormai fuori dalle righe della chiesa andavano puniti, catturati e
consegnati alla Santa Inquisizione per essere processati e condannati,
se non si fossero pentiti dei loro gravi peccati. E la gente osannava,
quella massa di disperati applaudiva ed approvava, ignari che, prima o
poi, anche loro sarebbero potuti cadere nelle maglie di quella giustizia
sommaria.
A Fra Pietro si alternò Fra Leone che, come il
collega, parlò di collera e giustizia divina.
"Ben detto, Fra Pietro, vanno incarcerati e
processati", urlava uno scalmanato, al quale rispondeva un coro di
facinorosi tumultuanti.
"Fra’ Leone! Mandali tutti al rogo!",
rispondeva un altro, più agitato del primo.
"Andiamoli a prendere! A morte, a morte!",
urlava un terzo che teneva al guinzaglio una capra, e che, fermatosi lì
di ritorno dalla campagna oltre il ticinese, forse avrebbe fatto meglio
a correre a casa dove l’aspettavano una moglie e dei figli.
"Calma! Calma!" cercava di quietarli Fra’
Pietro. "Adesso tutti in ginocchio e preghiamo il Signore Iddio
nostro che ci dia la forza necessaria per portare a compimento i suoi
santi comandamenti".
Ciccio e Turiddu se ne stavano in disparte, in un
angolo semibuio, ed osservavano, cogli occhi sgranati, quanto stava
accadendo pochi passi più avanti. E mentre ammiravano la bella facciata
della chiesa, nel frattempo consideravano quanta fede e quanta
credulità albergava negli animi di tutti quei fedeli, alla mercé di
quel monaco convinto di estirpare il cancro dell’eresia ramificato tra
la sua gente. Ad un tratto, nel silenzio del raccoglimento generale, che
era seguito alla supplica del monaco, giunse trafelato un uomo che
portava una grande notizia:
"Alla Vedra! Alla Vedra! Fra poco un eretico
sarà giustiziato col fuoco!", urlava con quanta forza aveva in
corpo, e che sembrava giunto a puntino, nel momento di esaltazione
generale, per convincere senza tanti sforzi quella massa di disperati a
recarsi ad assistere ad uno squallido spettacolo. Che poi era quello che
lo stesso Fra’ Pietro in fondo desiderava e che avrebbe dato più
forza alle sue parole ammonitrici. Con le sue prediche e le sue azioni,
infatti, aveva contribuito notevolmente a mandare al rogo tanti poveri
cristiani, perlopiù ignoranti e creduloni, accusati d’eresia.
Alla notizia così allettante, d’assistere ad una
esecuzione col fuoco, seguì un fuggi fuggi generale in direzione della
Vedra, località non molto distante dalla chiesa. Ed a nulla valsero le
imprecazioni di Fra’ Pietro, per trattenere alla sua predica quella
gente. Nel lasso di qualche minuto, la piazza divenne quasi deserta, e
soltanto in pochi rimasero ad ascoltare i sermoni del monaco.
Ciccio e Turiddu, rimasti fino allora in disparte,
non potevano resistere al richiamo di un macabro rituale, del quale
avevano sentito tanto parlare ma mai avevano avuto l’avventura di
assistervi. Istintivamente, usciti dall’ombra del loro nascondiglio,
si unirono a quel corteo che, come mandria di pecore belanti, si
dirigeva al piazzale delle esecuzioni capitali.
Piazza della Vedra
Il corteo di scalmanati avanzò lesto, tra canti e
schiamazzi, verso la piazza, dove giunse in pochi minuti. Poco distante
dalla cinta muraria si apriva uno slargo abbastanza ampio, alle spalle
di una grande chiesa che lasciava intravedere le sue caratteristiche
absidi in mattoni rossi.La piazza si presentava coperta di pozzanghere
ed erbacce, delimitata da un lato da un piccolo corso d’acqua, quasi
un rigagnolo, mentre tutt’intorno sorgevano delle casupole abitate da
povera gente. Sul lato destro si notava un grande palco in legno, alto
quanto un uomo di media statura, con una scaletta laterale dai gradini
larghi e robusti, per un comodo accesso anche a persone impedite da
catene e costrizioni varie. Sul palco facevano mostra un piccolo tavolo
con una sedia e tanti oggetti strani, come ruote in legno, catene,
martelli, tenaglie, attrezzi di tremendo supplizio. Al centro della
piazza una piccola struttura di legno era sormontata da un alto palo con
delle catene che pendevano verso il basso. Il palco era ancora deserto,
ma dappertutto si notava un certo andirivieni, mentre alcuni piccoli
fuochi, che ardevano ai bordi della piazza, oltre che illuminare lo
spiazzo, già calavano le prime ombre della sera, servivano a scaldare
alcune persone che vi sostavano intorno. Tramontato il tiepido sole
novembrino, che durante il giorno ogni tanto aveva fatto capolino tra le
nuvole, cominciava a farsi sentire il freddo, e l’umidità, apportata
dalla nebbiolina che come fuliggine saliva dai navigli e dai tanti
canali, lentamente ma inesorabilmente penetrava nelle ossa.
Il rumoroso corteo, giunto ai bordi dello spiazzo, si
arrestò e smise di rumoreggiare, rimanendo pazientemente in attesa dell’arrivo
degli attori, perché lo spettacolo potesse avere inizio. Ciccio e
Turiddu sedettero su un muretto di cinta, ed increduli, per quanto fra
poco sarebbe veramente successo, si guardavano in faccia scambiandosi
espressioni di meraviglia.
"Ti pare giusto che un prete, col permesso e l’autorizzazione
e la benedizione del Papa, deve condannare a morire col fuoco una
persona solo perché professa un’altra religione o non riconosce la
sua autorità?", sbottò Turiddu che, stranamente fino allora, era
rimasto muto come un pesce.
"Brutta storia questa Santa Inquisizione, caro
compare!", gli rispose Ciccio. "A che serve bruciare dieci,
cento o mille persone, per dare l’esempio? Fanno solo dei martiri, e
subito dopo spuntano altri mille proseliti".
Nel frattempo s’avvertì un certo movimento tra gli
spettatori, si udirono alcune voci che dicevano: "Arrivano,
arrivano!", altre: "A morte l’eretico!", alle quali
rispondevano cori di: "A fuoco, a fuoco!".
Tra due ali di folla esagitata avanzava, infatti, un
carro che, trainato da un mulo e preceduto da due energumeni con in mano
una torcia accesa, era seguito da una decina di tonache nere, che
recitavano con monotona cadenza salmi in latino. Il primo monaco
ostentava una grande croce, quello a fianco un messale sul quale era
poggiato un crocefisso, mentre gli altri procedevano col cappuccio sulla
testa e le mani nelle tasche del loro capiente saio, intenti e compunti
nella recita dei salmi. Il condannato, accusato d’eresia per avere
tentato d’organizzare un movimento di fede in contrapposizione al
clero locale, evidentemente esausto per le torture subite, se ne stava
sdraiato sul carro, le mani legate ad una pesante sbarra e protetto dal
suo carceriere. In prossimità della Vedra era stato costretto a
starsene in piedi, per essere visto da tutti e mostrare la fine che
avrebbero fatto eventuali suoi emuli. Il corteo proveniva dal Palazzo
della Ragione, sotto la cui loggia, dopo un rapido processo farsa e
farneticante, era stata letta la sentenza di condanna: a morte,
naturalmente!
Il corteo s’inoltrò nello spiazzo, fermandosi ai
lati del palco dove salirono i monaci che si sistemarono ai bordi,
mentre, quello che sosteneva il messale e che sembrava il capo, deposto
sul tavolo messale e crocefisso, s’accomodò sulla sedia. Infine salì
sul palco il condannato, incatenato per le mani alla trave che era
costretto a tirarsi dietro. A quella vista, la gente, che se ne stava
assiepata ai bordi dello spiazzo, esplose in un urlo: "Al fuoco!
Fuoco all’eretico!", calmandosi solo quando il monaco inquisitore
s’alzò dalla sedia, facendo segno con le mani di fare silenzio. Il
poveraccio respirava a fatica, aveva gli occhi tumefatti e perdeva
sangue dalle braccia e dalla bocca. Chissà quante tenaglie l’avevano
martoriato e quanti bastoni s’erano posati sulle sue carni per
estorcere una confessione o un atto d’abiura. Adesso se ne stava lì,
come un cristo davanti al suo Ponzio Pilato, in attesa che fosse posta
la parola fine al suo lungo e tremendo calvario.
La scena, quasi apocalittica, non aveva nulla da
invidiare al clima ed alla tensione di una tragedia greca, di cui
possedeva tutti gli ingredienti ed i connotati; anzi, qui la realtà
superava di gran lunga la fantasia della messinscena orientale, dove in
extremis sarebbe comparso un dio a sbrogliare una complicata matassa.
Quegli dei, animati da passioni, amori, risentimenti, amicizia e
giovialità, potevano intervenire nelle cose umane, dire la loro,
consolare, rincuorare i loro assistiti. Il dio di quell’eretico,
invece, era un dio muto, invisibile, imperscrutabile, severo, che stava
dalla parte dei più forti, e mai sarebbe accorso in difesa di quel suo
figlio in procinto d’essere sacrificato per un ideale inesistente,
anzi ignobile e fuorviante; mai si sarebbe preso la briga d’acciuffare
per i capelli quel disgraziato per salvarlo dalle fiamme e dalle grinfie
di quei mestieranti infami e tracotanti.
"Pentiti dei gravi peccati, rinuncia alla tua
eresia e confessati a nostro Signore Gesù Cristo, salvatore del
mondo!", intimò al condannato, che a stento si reggeva in piedi,
alzando il crocefisso in segno di sfida e di minaccia.
Questi, sgranò gli occhi, fissò l’inquisitore con
disprezzo, poi, quasi ignorandolo, si girò dall’altra parte.
"Pentiti dei gravi peccati, se vuoi salvarti dal
fuoco eterno!", urlò ancora l’inquisitore, portando
minacciosamente il crocefisso ad un palmo dal suo naso.
Il condannato mosse lentamente la testa, e baciò il
pesante crocefisso, che in segno di minaccia quasi pendeva sulla sua
testa; poi, con quanta forza gli restava in corpo, lanciò uno sputo in
faccia all’inquisitore.
"Al rogo! Al rogo!", urlò l’inquisitore
che, dopo averlo colpito violentemente in testa col crocefisso, s’asciugò
il volto e sedette per godersi lo spettacolo.
Il poveretto stramazzò sul palco tramortito, e ci
vollero alcuni minuti per farlo rinvenire, dopo che alcuni inservienti
gli ebbero versato addosso due secchi d’acqua gelata. Quindi, fu
trascinato al centro dello spiazzo, e dopo essere stato liberato della
trave legata alle sue mani, fu legato alla catena che pendeva dal palo,
e sollevato a due altezze d’uomo. E lì fu lasciato a penzolare,
sospeso tra cielo e terra, dopo avere fissato la corda alla base dello
stesso palo, esposto allo scherno ed al ludibrio, prima d’essere
investito dalle fiamme purificatrici. Tutto intorno iniziò
immediatamente un andirivieni di persone che accatastavano ogni sorta di
legna e abbondante paglia, per meglio dare esca al fuoco che fra poco
avrebbe divorato l’eretico peccatore. Tutto questo lavoro era
coordinato ed eseguito così bene, in fretta e con tanta solerzia, che
si capiva come tale esperienza derivasse dalla frequenza delle
esecuzioni stesse. Non un contrattempo, non una sbavatura, ma un lavoro
di gruppo iniziato e portato a termine nel volgere di mezz’ora. Quindi
il monaco inquisitore, umiliato ed offeso, adirato e contaminato dallo
sputo dell’eretico, ordinò che fosse appiccato il fuoco alla legna.
Il momento era solenne. Dal palco discesero i monaci incappucciati che,
intonando litanie di morte, andarono a disporsi intorno al condannato,
mentre il carceriere che aveva aperto la processione con la torcia, s’avvicinò
alla legna e cominciò ad appiccare il fuoco tutto intorno, in vari
punti.
La litania dei monaci continuava con cadenza
monotona: "Domus aurea", a cui il coro rispondeva: "Ora
pro nobis"; "Foederis arca", "Ora pro nobis";
"Janua coeli", "Ora pro nobis".
Lentamente la paglia cominciò a bruciare,
illuminando con strani e sinistri bagliori lo spiazzo e quanti, stavolta
ammutoliti, assistevano al triste evento. Di fronte alla morte avevano
perso l’allegria, la baldanza e la sicurezza che li avevano portati ad
osannare uno spettacolo tanto macabro e incivile.
"Stella matutina, salus infirmorum, rifugium
peccatorum", intonava con più forza e vigore il monaco, per
superare il brusio della gente ed il sinistro rumore del fuoco che
cominciavano ad alzarsi nella piazza.
In breve anche la legna, schioppettando, cominciò ad
emettere nere volute di fumo, finché si levarono verso il cielo, e
verso l’eretico appeso a mezz’aria, le prime lingue di fuoco. E con
esse, le imprecazioni prima, i gemiti poi, infine le urla di dolore e di
morte che coprirono le litanie dei monaci, la Vedra ed i suoi dintorni,
le rogge, i canali, i navigli, le possenti mura della città, per alcuni
interminabili minuti. Poi solo un tragico silenzio, rotto a tratti dagli
striduli versi di un rapace attratto dall’odore di carne umana, mentre
i bagliori del fuoco illuminavano le piccole case del circondario e le
sanguigne mattonelle della chiesa; rosse come il sangue innocente che
scorreva dietro le sue porte, in nome e per conto di un cristo che
sicuramente non voleva che quel sangue fosse versato inutilmente.
La fuga
Ancora frastornati e sconvolti dal triste spettacolo,
Ciccio e Turiddu, seguendo la riva del naviglio, giunsero nei pressi
dell’osteria ch’era già buio, dopo avere oltrepassato nuovamente il
ponte davanti la Porta Romana, illuminata da alcune lanterne appese ai
fianchi della costruzione. Dalle acque del naviglio che si muovevano
lentamente, come al solito, proveniva un debole fruscio, segno che un
barcone stava transitando poco avanti a loro.
"Ciccio! Guarda che strano movimento intorno
alla nostra osteria!", disse Turiddu allarmato.
"Fermo", disse Ciccio, invitando Turiddu ad
acquattarsi lungo la parete di una casa.
In quel frangente, la barca che avevano sentito
transitare in precedenza si fermò poco avanti l’osteria delle
quaglie, e ne discesero alcuni soldati armati che andarono ad
aggiungersi ad altri che già sostavano lì davanti e discutevano con l’oste.
Ciccio e Turiddu rimasero in silenzio, tendendo i
loro orecchi nel tentativo di percepire quanto si dicevano, visto che la
discussione era alquanto animata e si trovavano a non più di cinquanta
di passi. Parlavano in milanese, linguaggio a loro poco familiare, ma
qualche parola giungeva chiara alle loro orecchie.
"Parlano di noi, Ciccio! Vuoi vedere che hanno
scoperto la nostra vera identità? Altrimenti che ci starebbero a fare
quei soldati armati lì davanti, a quest’ora?", disse Turiddu al
suo amico.
"Hai ragione, mi sembra di riconoscere Ambrogio
ed un altro soldato col quale siamo giunti qui da Cortenova. Quel
miserabile deve avere mangiato la foglia, ed ha fatto la spia. Altro che
panettiere, è un miserabile ruffiano! Oppure ieri sera, pieni di vino,
chissà quali fesserie abbiamo raccontato all’oste ed ai suoi amici.
Qualcuno s’è insospettito ed ha chiamato le guardie. Cosa pensi di
fare?", chiese Ciccio sottovoce.
"Di filare, sicuramente, ed alla svelta! Non
vorrai andare da quelli lì a giustificarti, a dire che noi con la
battaglia non c’entriamo per nulla, e che siamo capitati qui per caso:
finiremmo lo stesso appesi ad una corda, come quel disgraziato di piazza
della Vedra. Però, prima dobbiamo recuperare i cavalli. Ho un’idea",
disse Turiddu.
"Speriamo non sia una delle tue tante idee
strampalate. Qui non c’è l’Imperatore che ci aveva in
simpatia!", commentò Ciccio, mentre seguiva l’amico nel vicolo
che si apriva qualche passo avanti.
Percorsero il vicolo tortuoso per una cinquantina di
passi, girarono a sinistra, e si ritrovarono nel retro dell’osteria,
dove tutto sembrava tranquillo. Anche i cavalli erano al loro posto.
Dalla nuova postazione le voci ora giungevano forti e perfettamente
comprensibili, attraverso la porta di servizio che dava sul retro.
Cercavano proprio loro, i due amici giunti la sera prima da Cortenova
insieme ad Ambrogio, sicuramente amici del maledetto tedesco!
"Ecco perché ci hanno scoperto! Se ben ricordi,
i nostri cavalli sotto la pancia portano il marchio del Regno di
Sicilia. Prendiamoli e filiamo via!", sussurrò Turiddu.
Varcarono la porta che s’apriva in mezzo al
muretto, s’avvicinarono ai cavalli accarezzandoli per non farli
nitrire, sciolsero con la massima attenzione le briglie che li tenevano
legati all’anello. Poi, facendo il percorso a ritroso, quasi
trattenendo il fiato, si ritrovarono nel vicolo che percossero fino in
fondo, per ritrovarsi quasi all’altezza del Ponte.
"Facciamo finta di nulla, Ciccio, ed usciamo con
calma, tenendo in briglia i cavalli", disse Turiddu.
Così fecero. Ma mentre attraversavano la Porta si
fece loro incontro un soldato.
"Altolà! Siete matti? Dove andate a quest’ora?
Non sapete che c’è il tedesco, in giro!", disse quello quasi con
tono minaccioso, più che meravigliato nel vederli uscire a quell’ora
dalla città.
Per tutta risposta Turiddu e Ciccio farfugliarono un
saluto, proseguendo senza esitare, beccandosi un: "Andate al
diavolo, coglioni!", da parte del soldato che, dopo una smorfia d’imprecazione,
se ne tornò al posto di guardia.
Proseguirono con calma per un centinaio di passi, per
non destare sospetti, quindi, una volta immersi nel buio della notte,
saltarono in groppa ai loro cavalli allontanandosi alla svelta verso
sud, senza neppure voltarsi indietro.