CONGRESSO A BALATAZZA

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Acquattati sotto il tavolo come due piccole lucertole, quei birbanti se ne stavano quieti quieti, trattenendo il respiro ed aspettando che il nonno uscisse dalla stanza per sgattaiolare fuori e liberarsi da quella scomoda posizione.

Si erano presentati di buon'ora per porre, da bravi ed educati nipotini, il loro saluto mattutino, ben sapendo che da lì a qualche minuto sarebbero rimasti padroni del campo, liberi di sbirciare, finalmente, dentro quel vecchio baule da sempre gelosamente custodito in solaio e che, a detta di tanti, nascondeva chissà quali arcani segreti.

Mai erano riusciti ad accostarsi a quello scatolone di legno serrato da un grosso lucchetto e ben nascosto alla vista di tutti i curiosi.

Quando si prendeva il discorso su quel baule e si chiedeva cosa contenesse veramente, il nonno diventava serio in volto, quasi corrucciato, e, cambiando abilmente discorso, cominciava a parlare di orologi, di libri e di monete antiche, quasi infastidito da tutte quelle chiacchiere e dicerie che si erano accumulati nel corso degli anni e che avevano fatto il giro del paese. Che il nonno fosse un personaggio strano e dalle mille risorse era risaputo da tutti, ma al punto da andare ad ipotizzare certi fatti ne correva!

Un giorno però, messo alle strette, fu costretto ad ammettere che qualcosa di strano in quel baule effettivamente c'era, e che era pericoloso aprirlo e metterci il naso dentro per curiosare. Forse lo diceva per levarsi dai piedi quei mocciosi che lo infastidivano in continuazione con le domande più strane e le richieste più astruse, ma così facendo acuiva sempre più la loro curiosità e il loro desiderio di indagare su cose che era forse meglio ignorare e scordarsi di averle sentite raccontare.

"E' vero che ci sono i fantasmi?" chiese con impertinenza il più piccolo, suscitando l'ilarità dei presenti.

"Può darsi che ci sia un fantasma che esce di notte con la camicia tutta bianca!" rispose il nonno seccato. "Devi sapere che là dentro ci sono i resti di un mio parente che morì, quasi prete, durante i moti del 1848, a Girgenti, mentre si trovava a studiare in seminario".

"Ma se è morto a Girgenti, perché non l'hanno portato al cimitero?" lo interruppe il nipotino.

"Perché c'era la guerra, e tutto era difficile a quei tempi, anche portare un morto al cimitero! Allora decisero di seppellirlo in quella cassa di legno" rispose arrabbiato il nonno.

E da quella volta non ne volle più parlare, alimentando così la fantasia dei più piccoli e, perché no?, anche dei grandi che in varie circostanze avevano tentato di avvicinarsi a quella specie di bara senza riuscirci. Ecco perché quella porta di accesso al solaio era sempre gelosamente chiusa a chiave e quel baule serrato da un robusto lucchetto.

Ma i segreti che racchiudeva dovevano essere tanti! Per esempio la storia di quel famoso binocolo attraverso il quale era possibile vedere le donne nude? Quello non era un mistero come lo scheletro del prete, perché lo avevano visto mentre, affacciato al balcone di casa, con quell’attrezzo sbirciava la gente passare per strada. Se incontrando un amico gli descrivi il colore delle sue mutande o della maglietta che porta sotto la camicia in quel momento, quello ci crede o no che tu sei in grado di vedere attraverso i vestiti? Ebbene, il nonno era in grado di farlo, col suo binocolo s’intende! Che lo tenesse nascosto dentro quella cassa inavvicinabile?

"Che bella invenzione, quel binocolo!" si chiedevano in tanti, desiderosi di poterlo usare almeno una volta, e poterlo dirigere verso quella bella fanciulla che ancheggiava e si dimenava in piazza.

Conoscendo la bravura dei due fratelli e la loro inventiva, quel binocolo poteva effettivamente esistere ed avere il potere di far penetrare la vista al di là dei muri e dei vestiti.

Le dicerie più o meno fantasiose non finivano qui: Totuccio giurava di aver sentito raccontare da suo nonno che quei due fratelli avevano persino inventato il moto perpetuo!

"Per esempio, quel cucù che funzionava da anni senza carica, che suonava ogni ora facendo comparire quel delizioso animaletto da una finestrella, come ve lo spiegate?" diceva infervorato agli amici.

D’accordo! Totuccio di fantasia ne aveva da vendere, soprattutto dopo quella famosa seduta spiritica in casa di Lillo: allora aveva visto il tavolo spostarsi da una parte all'altra della stanza ed un diavoletto con le ali di fuoco fare capolino attraverso la porta serrata. Ma sull'esistenza di quel cucù, lui giurava e spergiurava. Che fosse anche questo nascosto nel baule?

Uscito il nonno e chiusa la porta a chiave, i due scivolarono da sotto il tavolo e finalmente furono padroni del campo. Non restava che individuare la chiave buona, per aprire la porta che immetteva nel solaio, da quel gran mazzo appeso al muro.

Prova e riprova, nessuna di quelle decine di chiavi entrava in quella maledetta toppa. Quando già scoraggiati erano sul punto di abbandonare l'impresa, al piccolo venne in mente che il nonno, una volta, per aprire aveva fatto un gesto strano e non aveva usato nessuna chiave.

"Perdiana!" disse il grande, "C'è il solito trucco della serratura segreta! Dobbiamo aguzzare l'ingegno se vogliamo entrare in solaio. Hai visto il nonno toccare qualcosa, alzare un braccio, estrarre un chiodo? Cerca di ricordare bene".

Il piccolo, salito su una sedia, cominciò a tastare un angolo di quella porta incantata: ma tocca e ritocca, non succedeva nulla. Chiusa era e chiusa restava.

Tutto a un tratto sentirono un "clic" e le due ante spostarsi leggermente.

"Ci siamo!" dissero, e, data una piccola spinta, la porta si aprì come d’incanto.

Il grande, fattosi coraggio, fece un passo avanti seguito dal più piccino che gli strinse forte la mano. Salirono i tre gradini che portavano ad una porticina spalancata dalla quale era possibile osservare tutto il grande locale adibito a ripostiglio di cose vecchie ed abbandonate da chissà quanti anni.

Dappertutto regnava un disordine indescrivibile: una vecchia valigia, delle sedie senza gambe, un vecchio braciere ed al centro, poggiato su due cavalletti di ferro, un grande baule di legno, in bella mostra come un antico sarcofago.

Colpito da un tenue raggio di sole proveniente dall'abbaino, assumeva un aspetto sinistro con tutte quelle ragnatele che lo ricoprivano. I due, a dir poco terrorizzati, si guardarono negli occhi e fecero un gesto come per dire: "Mìzzica! E chi si avvicina a quella bara!".

Il più piccino fece un passo indietro, ma l'altro lo trattenne afferrandogli una mano e rincuorò:

"Non avrai paura! Abbiamo fatto tanto per giungere fino qui, e adesso vorreste tirarti indietro? Prendi questo bastone!".

E così dicendo gli porse un vecchio bastone impolverato che giaceva dietro la porta. Quindi, afferrato un vecchio ombrello, colpì il lucchetto del baule che, dopo uno stridulo tintinnio, cadde sul pavimento. Nello stesso istante udirono uno squittinio e qualcosa muoversi e correre verso il lucernario.

"E' un topo!" disse il piccolino che se lo vide passare sotto i piedi.

Dei topi non avevano certo paura, loro, che in varie occasioni si erano divertiti a stanarli nella vecchia pagliera della zia, e magari metterli in una scatola per fare brutti scherzi agli amici.

"Vedi! Il lucchetto del baule era aperto, quindi non c'è motivo di avere paura: ci fossero stati degli spiriti a quest'ora sarebbero scappati via" disse il grande avvicinandosi al baule e tirandosi dietro il cuginetto.

"Sei sicuro di volere aprire quella cassa?" disse questi quasi terrorizzato.

"Certo! Altrimenti cosa siamo venuti a fare fin qui, sfidando le ire del nonno?" rispose il grande.

Ma il piccolo, preso da un’improvvisa paura, tornò sui suoi passi, ridiscese alla svelta i tre gradini tentando di aprire la porta da cui poco prima erano entrati. Ma questa emise un "clic" simile a quello dell'apertura, chiudendosi sotto il suo naso.

"Torna indietro" lo rincuorò il cugino, "Tanto ormai siamo in trappola. Allora tanto vale andare fino in fondo, come stabilito".

Quello sconsolato, fattosi coraggio, risalì i tre gradini, ritrovandosi davanti a quel misterioso baule. Il grande, sempre con la punta di quell'ombrello e tenendosi a debita distanza, spinse verso l'alto il coperchio della cassa. Questo si sollevò senza opporre resistenza, ed emettendo un sordo stridio si adagiò contro il muro, sollevando una nuvola di polvere.

"La berretta del prete!" urlarono insieme.

Spiccava sopra ogni cosa, infatti, una berretta nera e quadrata, con tre rialzi, simile a quella che il parroco portava in testa quando andava in giro per le vie del paese. Che fosse la berretta di un prete non c'era alcun dubbio: era vera allora la storia del prete morto nei moti del '48 e sepolto in quella cassa! Un brivido percorse i due mocciosi che, a dispetto di tutto e di tutti, si apprestavano a svelare i segreti del nonno, gelosamente custoditi in quel baule da chissà quanti anni.

Si strinsero uno all'altro per farsi coraggio e capirono che un po’ di fifa cominciava ad affiorare in tutt’e due. La punta di quel provvidenziale ombrello servì a far saltare fuori della cassa quel cappello da prete, che ispezionarono con religiosa attenzione e posero in un angolo. E quale fu la loro meraviglia quando, avvicinandosi un po’, videro che la cassa era piena di rotoli di pergamena, ed ogni rotolo era legato con un pezzetto di filo colorato.

"La mappa di un tesoro!" gridarono insieme, memori della recente lettura di Salgari e delle sue avventure.

"Mai nessuno ha parlato di questa mappa!" disse il grande che già si vedeva proiettato su qualche isolotto alla ricerca del famoso tesoro, ed avvicinatosi con grande coraggio prese il primo rotolo che si era spostato dopo l'estrazione del cappello, e che quasi sporgeva dal baule.

Sedutosi sul primo dei tre gradini, dove adesso arrivava quel raggio di sole proveniente dall'abbaino, slegò la cordicella che lo teneva arrotolato ed aprì delicatamente quella pergamena.

"Peccato! Non c'è una mappa!" disse al più piccolo, "Questo foglio è tutto scritto a penna, che diavolo sarà mai!".

"Leggi e vedremo!" disse l'altro con curiosità.

Il più grande, che aveva frequentato la terza media, preso fiato, cominciò a leggere.

"Anno Domini, mille........".

 

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"Nell'anno del Signore, mille ......, Noi, Federico II di Hoenstaufen, figlio di Enrico VI, Imperatore, Re e Signore di Sicilia, convochiamo un Congresso di tutti i Signori di questa terra che, nel bene o nel male, hanno governato e governano questa nostra Trinacria. Abbiamo oggi stesso dato ordine al fido Piero, logoteca del regno, di convocare tutti gli spiriti che riteniamo opportuno, avvalendoci delle doti medianiche del nostro amico orientale Abdul El Pascià, nostro ospite e consigliere. Il Congresso si terrà in quell'amena località chiamata Balatazza, da Noi visitata in occasione del ritorno verso Palermo, dopo avere inferto una dura punizione alla nemica Centorbi".

La decisione di convocare tanti spiriti era stata presa da Federico che, scomodato per l'ennesima volta in quella bara stupenda all'aspetto, ma troppo affollata dentro, non trovava requiem. Non aveva trovato pace in vita, perseguitato, dalla sua nascita fino alla sua morte, da intriganti, da Papi ingordi di potere, da nemici interni ed esterni al suo regno, e non trovava pace neppure da morto.

Scoperchiato per ben due volte per addossargli quei due intrusi, benché suoi stretti parenti, rivoltato da curiosi alla ricerca di tesori, adesso veniva disturbato e indagato attraverso un forellino da quell'occhio elettronico, e da quella lucina accecante che lo feriva più d'ogni altra cosa.

Mai uomo del suo rango era stato così ricercato e studiato da morto, e ciò lo mandava in visibilio anche se, in verità, lo infastidiva parecchio. Era orgoglioso di essersi piazzato in quel grande Duomo di Palermo e in quella bara di marmo rosa, sotto gli occhi di tutti, per essere ricordato e riverito per quanto aveva fatto per il popolo siciliano e per il mondo intero; di quei tempi s’intende.

E dire che lui mai aveva posseduto un esercito, degno di questo nome, ma al massimo una soldataglia raccattata qua e là, avuta in prestito da una città sua amica o da un ricco signore compiacente.

La stessa sorte non era toccata a quel matto di suo nonno, ricordate?, il Barbarossa, che aveva fatto tremare l'Europa intera con la sua grande armata. Quello, la brutta fine che aveva fatto, se l'era cercata con le sue mani: morire annegato in un ruscello dopo un lauto pranzo era stato il massimo della sventura! Unica consolazione, la pancia piena!

"Eh no, caro nonno! In Terrasanta non ci hai saputo fare! Io non ho seguito il tuo esempio: sono andato fin laggiù perché costretto da quel Papa che minacciava scomuniche ad ogni pie’ sospinto, e non perché impazzivo d'amore e d'ardore di liberare il santo sepolcro. Ho usato astuzia e cautela, ho intrecciato amicizie e accordi, ho fatto promesse a destra e a manca : ed il risultato? Sono entrato in Gerusalemme senza spargere una sola goccia di sangue, acclamato quale Re dei cristiani, con grande scorno di Papa Innocenzo che mi voleva morto a tutti i costi. Persino il muezzin ha smesso le sue lagne appena ho messo piede in quel grande tempio. L'oriente mi ha sempre portato fortuna, ho conosciuto grandi luminari della filosofia, grandi conduttori, grandi donne! Non è stato uno scherzo quell'Anais, quel fiore di Siria, quel gioiello di fanciulla, potessi rintracciarla ancora da qualche parte! Mi ha fatto perdere la testa quella notte, dopo le nozze con la piccola Isabella, poverina! Del resto, quel matrimonio era stato un affare di stato e quell'incazzoso di suo padre, Giovanni di Brienne, poteva starsene zitto anziché rimproverarmi ed offendermi per tutto il mondo, per una scappatella con la sua nipotina. Un Imperatore potrà permettersi questo ed altro, perbacco! Gli ho dato pure un nipote a questo Giovannino rompiscatole! E poi Isabella, piccolina e gracilina, poppava ancora il latte dal seno di sua madre quando divenne mia moglie per procura. Quando vidi Anais, in quella chiesa, persi la testa, e, non fosse stato per quel pezzo di regno che Isabella mi portava in dote, l'avrei pure sposata. Non mi darò pace finché non l'avrò rintracciata, dovessi pure correre in oriente: di questi tempi si fa in fretta a volare fin laggiù, e non come allora, costretto per mesi in mare, con la peste a bordo e quel Papa che pensava che io non volessi andare in terra santa".

E così Piero il vignaiolo, in base all'ordine ricevuto dal suo Signore, cominciò a controllare e studiare l'elenco di tutti i personaggi che avrebbero dovuto partecipare a quel congresso.

Non era certo una cosa comune, di tutti i giorni, che un Imperatore organizzasse una seduta del genere, né sarebbe stato tanto facile rintracciare tutti gli spiriti, passati e futuri, come diceva l'ordine reale, vissuti nell'arco di mille anni! D'accordo che gli orientali e soprattutto quell'Abdul, in fatto di spiritismo non avevano uguali, ma stavolta si chiedeva veramente tanto.

I suoi contemporanei, come i suoi nonni Federico e Ruggero II, Costanza D'Altavilla, Papa Innocenzo IV o quel fetente di Carlo D'Angiò, si potevano facilmente rintracciare; ma andare a scovare Garibaldi o Finocchiaro Aprile sarebbe stata un'impresa difficile, come pure dare un’occhiata ai signori dell’anno duemila, ai vari Andreotti, Craxi, Berlusconi e ai tanti mafiosi siciliani. Pure Giuliano doveva rendere conto del suo operato in quella tremenda strage di Portella della Ginestra. Aveva sentito parlare molto e bene di una certa Bianca di Navarra, viceregina spagnola in Sicilia. Di lei si dicevano cose strabilianti, la descrivevano come una fanciulla di una bellezza e di una dolcezza mai viste. Che fosse più bella della sua dolce Anais ? Un pizzico di curiosità e di gelosia cominciava a serpeggiare in lui.

"Piero! Inserisci Bianca di Navarra nella lista!", urlò.

"In fondo" rimuginava Pier Delle Vigne, "Quel Federico che poteri e che diritti ha ormai su di me? D'accordo, resta sempre un Imperatore, ma mi ha accusato a torto e per gelosia, mi ha fatto accecare credendo che io l'avessi tradito, ed io, per tutta risposta, mi sono tolto la vita, non sopportando una simile ingiuria. Altro che veleno! I cosiddetti storici spesso raccontano un sacco di balle, perché credono di scovare chissà quali segreti, a loro gloria e tornaconto. Ho sempre lavorato con onestà e solerzia per il bene del Regno e del mio Signore: certo qualche omaggio e qualche regalo devo confessare di averlo avuto, ma mai ho contraccambiato o complottato con alcuno. Sento raccontare di certi personaggi cosiddetti moderni che, preso il malloppo e scoperti, o si sono suicidati dalla vergogna, o sono scappati in amene località turistiche, in Sud America o in Tunisia ; ma io non mi sono mai mosso dall'Italia, caro il mio Imperatore Federico!".

"Piero! Piero! Hai trovato Abdul? Speriamo che il suo Hallaa ce lo lasci per quel piccolo servizio di cui abbiamo bisogno" urlava Federico. "Ma perché mi hanno messo addosso questi due qui, che pesano un accidenti? Sono secoli ormai che li sopporto, adesso comincio ad essere stufo!".

"Eh! Caro Signore mio! Stavate comodo da solo in quel bellissimo marmo fregato a Vostro nonno Ruggero, dal Duomo di Cefalù. Adesso, avete avuto ciò che vi meritate : siete in buona compagnia!" rispose Piero.

"Fai l'impertinente perché sai che ho sempre bisogno di te! Datti da fare con Abdul! Se non troviamo al più presto una soluzione per questa Sicilia, andrà tutto in malora. Avevo costruito un regno coi fiocchi, tutta l'Isola era un giardino, Palermo era diventata la capitale del mondo per bellezza e per cultura, era piena di palazzi, di fontane, di giardini odorosi, adesso è tutta una rovina! Si parlavano cento lingue, si discuteva di storia e di filosofia, le lettere erano al loro massimo splendore, il diritto non aveva uguali in quella mia Università di Napoli, avevo promulgato le Costituzioni: ma che fine ha fatto tutto ciò? Adesso si sentono solo idiomi mafiosi e camorristici, si parla solo di tangenti e di concussioni, nel mio palazzo girano personaggi poco raccomandabili, da decenni un vecchietto con la gobba detta legge, le tangenti sono all'ordine del giorno! Che rovina! In ogni angolo della città si sentono echeggiare i mitra e le bombe esplodono con gran frastuono e devastazione. Che fine triste avete fatto, poveri giudici, che cercavate di fare un po’ d’ordine e di pulizia! Giudici esperti e giudici ragazzini, alle prime armi, ma animati da grande amore per la giustizia. Chi ha a cuore l’Isola, di sicuro, vi sarà grato per sempre".

"Mi avete chiamato, Signore? Sono Abdul El Pascià, appena giunto dall’Oriente, ai Vostri ordini".

"Piero, è arrivato Abdul! Corri!", gridava Federico.

"Ecco, caro Abdul!" disse Piero, "Il nostro Signore Federico avrebbe il piacere di organizzare un congresso di tutti i signori che hanno comandato in quest'infelice Isola, nella speranza di capire cosa non ha funzionato e non funziona tuttora. A te l'incarico di rintracciarli dovunque essi siano e di convocarli in quel posto chiamato Balatazza".

Così dicendo gli porse una pergamena con un dettagliato elenco di nomi di personaggi da convocare a Balatazza, nella parte alta del paese, in quel comodo teatro all'aperto dove all'imbrunire soffia sempre un alito di vento miracoloso e si può godere uno spettacolare panorama ai quattro lati.

Un tempo questo posto era completamente deserto, abitato soltanto da capre selvatiche e piccoli roditori. Da qualche secolo ai suoi piedi sorge un paesello abitato da poche migliaia di anime. Passata la calura diurna e calata la sera, la gente lentamente si arrampica per quella lunga gradinata che porta nella parte alta del paese. In cima alla stessa, una piccola e vecchia edicola ricorda l'antica devozione dei paesani per la Madonna del rosario. Alla destra un tempo si ergeva il grande edificio scolastico sui cui banchi si formarono intere generazioni di ragazzi, mentre sul cucuzzolo, spianato alla meglio, si svolgevano infuocate partite di pallone tra la squadra locale e quelle dei paesi viciniori. Adesso è tutto cambiato.

"Il progresso!", diceva Federico, "Vedi Piero, qui una volta era bello sedersi in un angolo e godersi in silenzio e in pace il più bel tramonto dell'universo. Dopo cruente battaglie e lunghi inseguimenti, dopo aver tagliato teste e infilzato nemici, mi riposavo a meditare nuove imprese. Lontano dal rumore delle ruote dei carri, lontano dallo scalpitio dei cavalli, lontano dal vocio infernale della Vuccirìa. Qui componevo romantiche poesie d'amore per le mie donne adorate. Adesso il progresso ha portato anche qui fastidiosi rumori che chiamano musica, attrezzi diabolici che emettono strani suoni. Ma il posto, nonostante quella gradinata a semicerchio che somiglia ad un antico teatro, è rimasto ameno e piacevole come una volta. Convoca questo congresso al più presto, non c'è tempo da perdere!".

"Mi avete chiamato? Sono ai vostri ordini, Imperatore, per qualsiasi notizia o favore di cui avete bisogno".

Queste parole giungevano alle loro orecchie dalla parte ovest dell'anfiteatro, mentre una figura piuttosto grassoccia e imponente faceva capolino da un muretto. Vestiva alla garibaldina, anzi quel fazzoletto rosso intorno al collo e quella divisa la facevano apparire, senza ombra di dubbio, come un seguace del vecchio Giuseppino, buonanima.

"Il solito rompiscatole!" disse Piero rivolto al suo Re. "A tutti i costi vuole apparire un salvatore della patria e offrire i suoi prezzolati servigi. Ma non dovrebbe trovarsi al sole delle spiagge dorate di Hammamet? Come ha fatto a venire a conoscenza di questo posto, e a muoversi, con la sua gamba malaticcia ?".

"Dimentichi, caro Piero, che come io sono siculo di adozione, lui è siculo di origine, e che questa terra chiama sempre i suoi figli, ovunque essi si trovino. In merito alla tua domanda non scordare che ha più dossier costui che tutti i servizi segreti americani. Non sarà facile tirarcelo via dalle scatole. Non scordare, neppure, che ha più antenne paraboliche lui, tra le verdi palme africane e le spiagge dorate, che il suo caro amico che staziona nei pressi di Milano, nel cuore di quella lega lombarda che mi ha dato un sacco di fastidi e che ho sempre odiato. Inventa qualche storia, per piacere, e caccialo via!", urlò Federico.

"Hai parlato di lega lombarda? Ricordi quando l’antenato di Umberto ti fece bagnare il culo nelle fetide acque di quel ruscello chiamato Lambro, nei pressi di Milano?", fece eco il garibaldino.

"Ricorda all’Umberto, che ai suoi antenati glielo feci pagare caro, quell’affronto, a Cortenova, con una carneficina senza pari e il carroccio fu spedito a Roma, a far bella mostra di sé in piazza, con grande gioia del popolo romano e scherno per il Papa, mio acerrimo nemico, che mi voleva morto", gli rispose Federico, gonfiandosi il petto di orgoglio.

"Il mio Imperatore non ha bisogno di alcun servigio, perciò ti prega di tornartene alle tue spiagge africane. Hai avuto per caso un permesso speciale dal pool di mani pulite? Se ti beccano, ti spalancano le porte di San Vittore, quelli!", disse Piero rivolto all’intruso.

"Nessun permesso, caro Piero il vignaiolo! Io vado e vengo quando e come voglio col mio aereo personale. Un'ora di volo e sono a casa mia. Dì al tuo signore di non scordarsi di Cortopasso".

"Via, mandalo via!" cominciò a urlare Federico al ricordo di quel manigoldo che osò, a Victoria, vicino Parma, strappargli la corona regale e mettere in ridicolo la sua potenza di Imperatore.

Piero corse incontro al garibaldino con fare minaccioso, mentre questi, impaurito, spariva dietro la grande vasca d’acqua.

"Che insolente e villano, avrei dovuto fargli assaggiare le punte delle mie scarpe. Altro che garibaldino! Quello è un approfittatore insolente, capace di camuffarsi e assumere le sembianze che più gli fanno comodo. Poveri italiani, cosa avete dovuto sopportare per anni! A Lucera lo avrei mandato ai miei tempi, a far parte della schiera dei miei fidi eunuchi, altro che in giro per il mondo o in Cina a sperperare i soldi della povera gente, costretta a pagare sempre più tasse. Andiamo a farci una granita da zi’ Andrea, Piero, ho proprio voglia di rilassarmi, dopo l'apparizione di quel brutto fantasma".

E così dicendo, l'Imperatore e il sempre fido Piero il vignaiolo, camuffati da semplici minatori, a braccetto, discesero la lunga gradinata che portava in paese e si diressero in fondo alla grande piazza assolata, circondata da tanti alberi di profumate acacie in fiore.

 

                                                                                 3

Si avvicinava il momento stabilito del gran consesso. Abdul El Pascià era giunto il giorno prima, trafelato ma raggiante di gioia, portando la notizia di aver rispettato l'incarico ricevuto da Federico e che tutti i convocati erano stati avvisati, secondo le istruzioni ricevute da Piero il vignaiolo.

Nel giorno stabilito si sarebbero presentati a Balatazza, piccolo punto geografico in culo al mondo, ma tanto caro e piacevole all'Imperatore che a suo tempo, se avesse avuto modo e possibilità, vi avrebbe costruito il suo palazzo reale.

Ma tra una battaglia e l'altra non aveva avuto tempo per pensare a mettere casa in quel di Balatazza: non era certo il cavaliere dei nostri tempi che aveva acquisito dimore di lusso ad ogni pie' sospinto, ville e villette nei più bei posti della penisola e delle isole, e, a emulazione dei grandi, anche una specie di castello con tanto di stemma riciclato dalla vecchia nobiltà meneghina! Quello, Federico cioè, doveva pensare a riunificare tutti quei comuni e comunelli sparsi qua e là, dare una parvenza di stato a quello sfortunato stivale, doveva lottare coi Papi, con le varie leghe in armi, coi tedeschi ribelli, andare come crociato in terra santa, mettendo a repentaglio la propria pelle. Non aveva tempo per imbellettarsi e mettersi in bella mostra davanti alla tv a fare conferenze e dare notizie ai vari cronisti dell'epoca: i vari Salimbene da Parma, Matteo da Parigi, Pietro da Eboli, se volevano fresche notizie dovevano o inventarsele, o andarsele a cercare per piazze e conventi. E l'unica antenna di cui poteva disporre il nostro Federico era quella lunga spada avuta in eredità dal nonno, che puntava in alto verso la luna, unico satellite dell'epoca, prima di lanciarsi nella mischia per trafiggere il nemico, dopo averlo fatto strisciare e rotolare nella polvere come un malefico biscione.

L’orologio della Chiesa madre, coi suoi lenti rintocchi, annunziava la mezzanotte, l’ora stabilita per l’inizio della grande adunata. In attesa che Federico prendesse la parola, per tutto il teatro si avvertiva un leggero brusio, mentre Piero il vignaiolo e Abdul El Pascià correvano a destra e a manca per le ultime disposizioni. Al centro del palco, l’Imperatore, avvolto nelle vesti imperiali e coperto dal maestoso mantello di suo nonno Re Ruggero, se ne stava assiso in tutto il suo splendore. Alla sua destra la madre Costanza, in amorevole atteggiamento di protezione verso il figlio, mentre alla sua sinistra l’imponente vecchio Barbarossa, terrore dei padani, morto in Oriente, e ricomposto dopo che le sue viscere erano state disseminate per tutta l’Asia Minore. Vicino Costanza sedeva Papa Innocenzo, quindi Carlo V e la bella e sensuale Bianca di Navarra. A fianco del Barbarossa, il nobile Manfredi, il rosso Garibaldi ed i giudici Falcone e Borsellino. Tutti gli altri personaggi prendevano posto sulle gradinate: tanti baroni e proprietari terrieri, vari briganti, tra i quali spiccavano Giuliano e Pisciotta, e molti mafiosi, con in testa Riina, don Calò Vizzini e Genco Russo. Questi ultimi non si stancavano di ammirare, da quella spettacolare terrazza panoramica, i loro paesetti, migliaia di piccoli puntini luminosi che tremolavano verso il largo orizzonte.

Non era stato facile ricacciare sugli spalti il claudicante esule di Hammamet, che, alla vista del suo Condottiero, gli si era precipitato al fianco e pretendeva un posto d’onore. Non mancavano i curiosi ; uno in particolare, Turiddu, che avvolto nel suo rosso mantello da gladiatore, se ne stava appollaiato sulla grande vasca e osservava strabiliato quanto stava accadendo sotto i suoi piedi. Svegliato di soprassalto da improvvisi rumori, dopo essersi appena sdraiato per la notte sul suo misero giaciglio di paglia, con a fianco il suo cane bastardo, s’era imbattuto in quello strano spettacolo. Ne aveva viste, ne vedeva e soprattutto ne combinava di cose strane e stravaganti! Ma ad uno spettacolo a quell’ora della notte, con tutti quei personaggi, non aveva mai assistito, neppure in un vero teatro di Palermo, quando, dietro le quinte, se ne stava ore ed ore in attesa di racimolare una tunica rossa o un’armatura da guerriero romano.

"Ma che minchia combina nel teatro, tutta quella gente, a quest’ora di notte!", commentava mentre teneva al guinzaglio il suo fido cagnolino che, come il solito, pretendeva di fare il rituale giro per i giardinetti.

Se ne stette muto e tranquillo in quell’angolo semibuio e, sgranando bene gli occhi, rimase in attesa ad osservare quello strano spettacolo fuori programma.

"Amici!", tuonò la voce di Federico, "Vi ringrazio per avere voluto partecipare a questo convegno, molto importante per le sorti dell’Isola di Trinacria. Dobbiamo capire perché tutto sta andando in rovina, in questa bella terra che ci sta molto a cuore, e suggerire agli attuali comandanti i rimedi necessari per porre fine a tutti i mali che l’affliggono. Ne ho viste di cose che non vanno nella nostra Isola, dalla mia dimora nel Duomo della Capitale! Mi sono passati davanti Vescovi e preti, più interessati alle cose terrene che alla cura delle anime, politici corrotti e trafficanti, che stanno distruggendo tutte le bellezze ereditate da secoli e secoli di storia, mafiosi e briganti, ormai vanto delle tre punte sicane nel mondo intero, e tanti piccoli gerarchetti periferici pronti a vendere l’anima della propria madre pur di fare quattrini con la cosa pubblica. Ho sentito i boati di tante bombe vigliacche e infinite raffiche di mitra falciare vite umane e rendere impotenti uomini risoluti e benemeriti. Ma ho visto anche tanta brava gente, disposta a collaborare per il bene comune del paese, e che ogni giorno combatte in silenzio in trincea contro il malaffare e la delinquenza. Coi mezzi di cui disponevo, ho cercato di unificare la Penisola, ma i Papi sono stati una spina nel fianco, e mi hanno sempre contrastato in questo mio ambizioso progetto, cui tenevo tanto. Non bastava loro lo stato pontificio che tagliava in due l’Italia e la rendeva fragile e vulnerabile: volevano un potere sovrano, temevano che l’unificazione dello stivale li soffocasse e sminuisse il loro prestigio. Anziché il potere sulle anime, pretendevano il dominio terreno ed il lusso. Li accuso d’avere ostacolato l’unificazione della patria, e di essere stati la causa di tutte le rovine che si sono perpetrate nei secoli, fino ai nostri giorni.".

"Maestà!", intervenne Papa Innocenzo, con uno scatto felino, aprendo il suo grande mantello color porpora. "Era nostra intenzione mantenere uno stato forte e ben difeso, per impedire che le forze del demonio prevalessero su tutta la comunità ecclesiastica e sulla fede. Uno stato cattolico forte e ben difeso avrebbe tenuto lontano gl’infedeli nostrani e d’oltralpe. La Sicilia era governata da uno stormo di corvi tedeschi, Vostri discendenti, che minacciavano i nostri confini, la lega padana, perennemente in armi, dominava al nord delle nostre terre, e Voi, infedele, irriconoscente e spergiuro, negavate il Vostro aiuto alla nostra causa. Nonostante i giuramenti, Vi siete rifiutato di partire per la Crociata in terra santa, meritandoVi giustamente la scomunica".

"State bestemmiando, caro Innocenzo!", lo interruppe Federico rosso di rabbia. "Voi avete sempre abusato dei Vostri poteri cosiddetti divini, comminando scomuniche a destra e a manca, secondo i Vostri comodi! Io, ho rispettato il solenne giuramento, e sono partito per la crociata. Sapete bene che, preso il largo, scoppiò una tremenda pestilenza a bordo della nave e fui costretto ad invertire la rotta. Sono poi ripartito, come stabilito, e ho conquistato Gerusalemme, senza spargere una sola goccia di sangue. Forse è questo che Vi fa tanta rabbia? Perché non ho commesso atrocità e non ho squartato i cosiddetti infedeli, come avevano fatto i Vostri predecessori ed i successori, poi dichiarati Santi? O perché sono entrato nella grande moschea a pregare insieme ai Vostri nemici? Persino il Muezzin, al mio arrivo, in segno di rispetto, smise di emettere le sue lagne dall’alto della torre dorata, dimostrando dignità e sensibilità".

"Sire!", intervenne Garibaldi, più rosso della sua stessa divisa, sguainando la spada. "Avete ragione: questi Papi sono stati la rovina dell’Italia. Volevano farmi la pelle, a Monterotondo e a Mentana, coi maledetti chassepots pontifici. Evidentemente, non riuscivano a digerire la mia repentina conquista dell’Isola e l’annessione del sud al regno d’Italia. Hanno persino avuto l’ardire di rivolgersi allo straniero, pur di difendere il loro potere. Ma a Porta Pia … ". E fece un eloquente gesto con la spada, come per dire: "L’abbiamo bucata quella porta e li abbiamo stanati!".

"Calma, calma!", l’esortò Federico, "Siamo qui per discutere e non per impugnare le spade.

"Bravo il mio condottiero!", urlò uno spirito che, balzato dalla gradinata, dov’era stato relegato, tentava di dirigersi verso il palco.

"Il solito rompiballe! Sia ricacciato al suo posto!", ordinò Federico.

L’intervento di Piero il vignaiolo e di Habdul El Pascià, pose fine al piccolo incidente, mettendo a tacere l’esule di Hammamet, sempre pronto a mettere il becco in cose che non lo riguardavano. L’atmosfera cominciava a diventare incandescente. E non poteva essere diversamente, visto il calibro dei personaggi adunati in un solo consesso.

"E Voi, Carlo V, discendente di quei due sovrani cattolici, cosa avete da dire in Vostra discolpa! Voi, i Vostri predecessori ed i Vostri successori, avete gestito il regno di Napoli e di Sicilia come se fosse un Vostro feudo personale, avete imposto leggi e regolamenti oppressivi, avete mandato laggiù rappresentanti incompetenti e odiosi agli occhi della povera gente, avete gestito la Sicilia come una colonia spagnola. Inevitabilmente, ai soprusi la gente rispose con la violenza, alla ritorsione rispose con le offese, ai torti seguirono gli sgarri e le azioni mafiose".

"Maestà!", suonò una dolce e melodica voce femminile, "Sono Bianca di Navarra, la giovane regina di Sicilia, costretta a fuggire da una città all’altra perché inseguita da quell’immondo furetto di nome Cabrera, che aspirava al mio regno. Io, mai mi sono macchiata d’infamie e crudeltà, poiché amavo il mio popolo…..".

"Ecco dov’è la mia pernice dorata! Se mi sei sfuggita una volta, adesso t’acchiappo per sempre!", e così urlando, il Cabrera, infuriato e pieno di bava per la rabbia che covava da sempre nel suo animo, si lanciò con furore sulla giovane Bianca. Ma inciampando sull’alto gradino, rotolò per terra, tra le risa generali.

"Vi resta ancora il suo caldo nido!", lo rincuorò Federico, destando l’ilarità di tutti i presenti. E continuò:

"Mai i miei occhi videro donna più bella e affascinante, o Bianca regina! Nel mio regno, avreste meritato un destino migliore, sareste stata la mia tenera amante, Vi avrei colmata di carezze ed avrei tratto ispirazioni per tante poesie d’amore".

"Sempre il solito galante, il mio Imperatore. Avete dimenticato l’amore focoso per la vostra Anais?", gemette una voce proveniente da un punto imprecisato del teatro.

"Mia dolce Anais, mio fiore di Siria! Mostra il tuo corpo affascinante e suadente d’un tempo! Impazzii d’ardore per te, il giorno delle mie nozze con la povera infante Isabella, e mai potrò scordare quella prima notte d’amore, nel dolce suolo di Puglia. Ricordo i tuoi turgidi seni, i tuoi begli occhi orientali ed i calorosi baci che giuravano amore per sempre. Mostrati ancora una volta, che io possa ammirare il tuo celestiale sorriso!".

"Maestà! Vi conviene sognare il mio volto d’un tempo. Mio padre Giovanni osò punire la figlia innocente, non potendo colpire il suo Re. Ora, vago sfregiata e storpiata per colpa del mio amore per Voi!".

E tacque per sempre, nonostante Federico, sconvolto e commosso, l’incitasse a mostrarsi. Su tutto il teatro cadde un silenzio di tomba, finché una voce, dall’evidente inflessione spagnola, ruppe ogni indugio.

"Sire", iniziò finalmente Carlo V, "Era nostro compito mantenere l’ordine ed amministrare la giustizia, sia terrena che spirituale. Anche Voi avete combattuto gl’infedeli e le eresie con la spada; aiutati dalla fede e dalla Santa Inquisizione ecclesiastica abbiamo salvato tante anime e represso tanti atroci crimini".

"Voi, siete stati i veri criminali! Voi ed i santi padri della Chiesa vi siete macchiati di tanti crimini orrendi, torturando innocenti, straziando le carni vive di poveri cristiani, bruciando e seviziando chiunque tentasse di contrastare i vostri infami propositi. Sono Fra Decu La Matina, uccisore del vostro giudice Cisneros, sadico e criminale inquisitore! Il vostro crimine grida vendetta al cospetto di Dio! Siate maledetti in eterno!".

Un lungo e caloroso applauso si levò dalla gradinata alle accorate e dure parole di Fra Decu, che, svolazzando per il teatro con la sua tunica nera, alleggerito del pesante fardello di quelle violente parole che serbava in seno e vomitate all’indirizzo dello spagnolo, se ne tornò nella sua grotta poco distante.

"Così è nata la mafia, ci siamo dovuti coalizzare contro i potenti e violenti signori. Noi rubavamo ai ricchi per dare ai poveri, rubavamo il frumento, nascondendolo persino nelle chitarre, per portarlo alle povere famiglie ridotte alla fame. C’era stata tolta la terra, eravamo ridotti alla schiavitù, rischiavamo la morte ogni giorno, per aiutare i nostri fratelli".

La voce del bandito Giuliano arrivava forte e chiara dalle gradinate di destra, dove stazionavano violenti banditi e capi mafiosi, suoi degni compari d’un tempo.

"Minchia! Giulianu!", ansimò Turiddu, strattonando con forza il cane che cercava di liberarsi del guinzaglio, e facendosi accapponare la pelle. Roba da farsi scoppiare una cacarella bella e buona! Muto e immobile era, e tale rimase. Per la sua fantasia, una cosa era parlare con compagni e amici di un violento mito popolare e vedere le gesta di quel bandito sui cartelloni illustrati dai cantastorie in piazza; ma un’altra cosa era ritrovarselo a due passi, in carne e ossa. Almeno così lui lo vedeva. Di Federico o Papa Innocenzo, di Carlo V o Bianca di Navarra non sapeva nulla, ma di Giuliano erano piene le cronache e tutti parlavano della ferocia di quel bandito. Definito buono e popolare all’inizio, ma cattivo e sanguinario con l’andare del tempo, tanto da finire impallinato dai carabinieri in un cortile. Ufficialmente, almeno!

"Talìa cu’ parla!", risuonò una voce in un marcato dialetto siculo, precisamente palermitano.

"Tu sì ‘nu scassapagliaru, altro che bandito o mafioso. Sei un rinnegato. Ti sei venduto ai politici per due lire, e per due lire a Portella della Ginestra hai sparato sulla folla! Bene ha fatto il tuo caro cugino Pisciotta a ficcarti due pallottole in testa. Noi ci moviamo solo quando ci sono in ballo miliardi e miliardi, milioni di dollari, droga, affari grossi. Allora sì che vale la pena di sporcarsi le mani coi mitra e con la dinamite. Altro che un tumulo di frumento o un chilo di farina nella chitarra! Hai sentito che "maschiàta" a Palermo! Era in ballo la nostra sopravvivenza, sentivamo il fiatone dei giudici dietro al collo, e quindi siamo stati costretti ad agire con forza".

"Cu’ è Riina ca parla?", intervenne il giudice Falcone, sempre ben abbronzato e col baffetto tirato a lucido. "Mostraci la tua maschera di vigliacco omicida! Cos’hai guadagnato ad uccidere dei giudici e dei padri di famiglia innocenti? Avessi avuto il coraggio, che non hai, avresti dovuto affrontarci personalmente, e spararci in faccia, secondo il codice d’onore mafioso, e non azionare un congegno elettrico, standotene lontano un miglio. Il fatto è che l’onore l’avete sotto i piedi, e la vostra miserabile condotta vi sta portando alla tomba, poco per volta. La mafia ormai sta esalando l’ultimo respiro, è orami alla fine, e non vi resta che pentirvi e dichiararvi sconfitti. Come il tuo vice, trovato sommerso da crocifissi e messali, da bibbie e santini: e quel bravo monaco che andava a dire messa nella sua cappella privata!".

"Maestà!", continuò volgendosi all’Imperatore, "Voi ci chiedete una ricetta per debellare la mafia e cancellare questa vergogna che infanga il buon nome della Sicilia in tutto il mondo. Non servono leggi speciali, non servono prefetti di ferro, non serve deportare i mafiosi; sono i siciliani che devono capire che l’onestà, prima o poi, paga, che non bisogna avere paura di quattro quaquaraquà, per quanto armati fino ai denti, che non si deve soggiacere al "pizzo" di pochi malavitosi. Ma soprattutto, è necessario combattere l’omertà, madre di tutti i mali che affliggono l’Isola. I giovani stanno imparando a vivere secondo queste buone regole, e le nuove generazioni presto saranno libere da questo flagello che da secoli opprime la Sicilia".

Un lungo e caloroso applauso si levò in tutto l’anfiteatro. Anche Turiddu si unì al coro degli spiriti, mentre il suo cane emetteva piccoli latrati di compiacimento. La notte ormai volgeva al termine, e bisognava concludere la grande riunione prima che le luci dell’alba cominciassero a rischiarare l’orizzonte.

"Amici miei!", concluse a quel punto il grande Federico di Svevia, "Abbiamo ascoltato i vostri autorevoli pareri, e soprattutto l’accorato e lucido suggerimento del nostro giudice che ha lasciato la sua vita sul selciato, per difendere la nostra cara terra. La nuova generazione saprà finalmente porre fine alle faide mafiose, taceranno per sempre i mitra e le bombe assassine, nascerà una nuova alba di pace e di concordia. Il popolo siciliano saprà riscattare i secoli bui, in cui fame, ignoranza e paura sono state alla base di violenze e rancori. Finalmente, il canto cupo e sinistro della lupara, da sempre emblema di rispetto ed onorabilità di tante famiglie, potrà tacere, e tornare un normale strumento di caccia. Fra poco, i primi chiarori annunceranno un’alba di pace che, da questo anfiteatro di Balatazza, centro dell’Isola, speriamo si propaghi verso le tre punte sicane".

Anno Domini, mille ……

 Così finiva l’ultima pergamena che il più grande dei due mocciosi si era affrettato a leggere. Gli occhi arrossati, man mano che la lettura procedeva, si guardavano con stupore ed incredulità. Una forte allucinazione s’era impossessata di loro. Tutti quei personaggi, quei mafiosi, quei guerrieri d’altri tempi! Alcuni nomi erano familiari, altri un po’ meno. Il posto dove, secondo le pergamene, s’era tenuta l’adunata, riuscivano ad individuarlo nei pressi della scuola, dove si recavano quasi ogni giorno per giocare a pallone. Ma l’anfiteatro, con tutti quei gradini, che roba era?

"Siamo a Montedoro qui, non a Balatazza!", continuavano a ripetersi i due cuginetti. "Quei personaggi, quelle storie e quei discorsi tanto strani! Il nonno non poteva essersi inventato tutto di sana pianta: per tenerla così ben custodita nella cassa dei misteri, quella storia avrà pure qualche fondamento di verità!".

La curiosità, si sa, nei bambini è sempre tanta. Non appena riuscirono a sgattaiolare da quella soffitta, e ce ne volle, senza farsi scorgere dal nonno, si diressero verso il luogo descritto. Salirono d’un fiato e di corsa i cento e passa gradini, fermandosi nei pressi dell’edicola dedicata alla Madonna del Rosario. Si guardarono intorno perplessi. Il panorama era quello, perbacco, non poteva cambiare da un giorno all’altro! La grande vasca era sempre lì, alla loro destra, imponente. Ma del grande anfiteatro e dei teatranti, nessuna traccia.

"Ancora una volta, il nonno s’è preso gioco di noi!", commentarono sconsolati e beffati i due cuginetti.

"Guarda chi c’è!", disse ad un tratto il più piccolo, stringendogli forte la mano.

Un brivido gelido percorse la schiena dei due, che quasi paralizzati ed impossibilitati a scappare, si appoggiarono ad una parete dell’edicola; guardando l’immagine della madonna sembravano supplicare: "Almeno, aiutaci tu!".

"Avete marinato la scuola, birbanti!", li apostrofò una voce che sembrava venisse dall’oltretomba. Era Turiddu che, con il solito mantello rosso sulle spalle ed un tascapane a tracolla, portava a spasso il suo cane bastardo. I due lo conoscevano bene Turiddu, che, benché fosse considerato il matto del villaggio, forse era una delle poche persone assennate di quella piccola comunità. Era un personaggio d’altri tempi, veramente, e sarebbe stato bene al centro di quella strana riunione, anziché starsene soltanto ai margini.

"Farete i conti cu zi’ Pitrinu e zi’ Dduvicu!", continuò con un sorriso beffardo, digrignando i pochi denti.

I due, ammutoliti e spaventati, più che dalle minacce dal fatto che ricordavano la sua presenza in quella pergamena, non risposero alle parole di Turiddu, che nel frattempo, strattonato dal suo cane, aveva cambiato direzione e, come d’incanto, era sparito dietro una casa.

"E se fosse tutto vero? Quello c’era nell’anfiteatro!", commentarono convinti.

Quella storia era troppo bella, per non crederci, veramente! E corsero insieme, oltre la grande vasca, alla ricerca del fantomatico anfiteatro che, secondo la pergamena, scritta o non scritta dal fantasioso nonno, da qualche parte doveva pur trovarsi!

                                                                   f i n e

 

Note su Federico II di Svevia

Partorito da Costanza in un tendone piantato nella piazza del mercato di Jesi, giunse a Palermo a dorso di mulo, elicottero dell'epoca, superando ostacoli inimmaginabili, guadi e montagne, nemici invisibili, pronti a colpire nell’ombra.

Mosse i primi passi in quello stupendo palazzo normanno, imparando presto a proprie spese l'arte della sopravvivenza a tutte le privazioni e i complotti di corte.

Rimase quasi subito orfano del padre, quello svevo sanguinario di Enrico VI, che il giorno della sua nascita mise a morte, con bieco tradimento, decine di baroni siciliani: Sibilla, la vedova di Tancredi, venne deportata in Germania, il figlio di costei, Guglielmo, venne accecato, evirato e chiuso in carcere.

Tutta la Sicilia fu pervasa da un'ondata di terrore e di sangue. Così si era vendicato di una congiura di palazzo, e avendo sospettato persino della moglie Costanza, la mise agli arresti.

Questa, alla sua morte, cercò di rimettere ordine in Sicilia, cacciando Marcovaldo e Gualtiero di Pagliara, e fidando nell'amicizia del Papa Innocenzo III, di cui aveva tanto bisogno

Provvide a cacciare dall'Isola tutti quei tedeschi avventurieri e facinorosi fedeli alla casa sveva, riportando così la Sicilia alla originaria sovranità normanna, di cui era unica e degna erede. Fece incoronare Federico, di tre anni appena, re di Sicilia, nella stupenda Cattedrale di Palermo, con grande sfarzo e festa di popolo. L'anno successivo moriva anche la mamma Costanza, che Federico tanto amava e che gli fu di guida spirituale per tutta la vita. Da quel momento si ritrovò solo con una pesante eredità sulle spalle e tanti nemici che tramavano nell’ombra. Per tutto il giorno girovagava per le strade e per i pericolosi vicoli della Vucciria, avendo come compagni di gioco tanti disgraziati coetanei ridotti alla fame.

E fu allora che imparò a vivere, a capire la vita e i disagi della triste esistenza, a conoscere il dialetto siculo come la lingua araba, il tedesco e il francese. Preso sotto la tutela e la protezione di Papa Innocenzo, imparò il latino, studiò l’eloquenza e la poesia, si avviò a diventare il grande personaggio, venerato da tanti e odiato da molti.

Federico II, morto il 13 dicembre del 1250, riposa nel Duomo di Palermo, in un maestoso sarcofago di porfido rosso, dove inizialmente doveva essere sepolto il nonno, Ruggero II, nel Duomo di Cefalù. Un alone di mistero aleggia intorno alla sua tomba. Nel 1338 il sarcofago fu aperto per deporvi la salma di Guglielmo, duca d’Atene, figlio di Federico III d’Aragona, e quattro anni dopo per deporvi il fratello del primo, Pietro II, re di Sicilia (Calascibetta). L’ultima apertura avvenne nel 1781, in occasione della ristrutturazione della Cattedrale. Nel 1994 è stata effettuata una ricognizione con una microtelecamera, e pare che i gioielli, corona e spade siano scomparsi!