Partimmo con un fischio del treno dalla stazione di
Caltanissetta, seduti io e mio marito in seconda classe, stanchi e
sudati per sistemare i nostri bagagli; tutti e due dicevamo "si
vede che non siamo più giovani, l’età avanza di anno in anno".
Quel ritmo delle rotaie e le vibrazioni del treno,
come un’altalena, dava una sonnolenza a chi era stanca come me, una
piacevole e rilassante dormi veglia.
Sentivo il treno fermarsi e dire mio marito,
chiamandomi per nome, "Guarda siamo già a Catania". La
stazione era affollatissima di gente, ma quanto ne salivano e ne
scendevano, pensai. Con sorpresa mi sentii toccare le spalle, mi voltai
e vidi una mia vecchia amica davanti a me tutta sorridente e
contentissima e, abbracciandomi, mi ha detto: "Ti ho riconosciuta
subito! Non sei cambiata più di tanto da quando eri ragazza. Ti ricordi
quando giocavamo tutti insieme alle altre ragazze del nostro
rione?" Io la guardavo ed in un primo momento non mi veniva in
mente chi era, ma poi da un piccolo cassettino dei miei ricordi, vedendo
i suoi occhi e i suoi e il suo sorriso le dico: "Tu sei Concetta
Provengano - lei ancora sorridente -, vedi che non si dimenticano mai i
compagni di gioco!". Parlammo del più del meno, della nostra vita,
lei sposata con figli gia sposati e nonna. Io le dicevo idem con due
nipotini stupendi. Mi presentò suo marito ed io il mio e parlammo degli
anni passati: i più belli, ricordandoli con nostalgia. Poi mi chiese
dove stavamo andando "A Roma - le dissi - andiamo a fare una
visitina per i nostri trent’anni di matrimonio". Invece lei si
fermava a Messina dove abitava una sua figlia sposata. Vedevo alla mia
amica che mi osservava mentre guardavo perplessa tutta quella gente
salire nel nostro scompartimento del treno; gente di tante nazionalità
no le avevo mai viste, forse perché non viaggiavo mai. E così mi sono
sentita dire dalla mia amica: "Lo vedo come guardi a tutti questi
extracomunitari provenienti da paesi lontani. Le nostre stazioni e le
nostre città ne sono piene, ormai ci siamo abituati, ma voi che
provenite dai piccoli paesi di montagna ancora siete selezionati".
Vedevo anche mio marito guardare e ci incontravamo gli sguardi come per
dirci: ma come sono cambiati i tempi da quel lontano giorno del nostro
matrimonio: il 28 aprile 1962. Quando per la prima volta siamo andati a
Roma per il viaggio di nozze. Senza accorgercene del tempo passato
sentimmo il treno fermarsi: "Gia siamo a Messina" disse l’amica
mia e con tanta gentilezza e piacevolezza per quell’incontro, ci siamo
abbracciati delicatamente augurandoci, entrambi, un mondo di bene. La
stazione era affollatissima di tanta ma tanta gente e come si suol dire:
di tanti colori, Tutta quella gente non li avevamo mai visti. Ero nella
mia Sicilia e mi sembrava di essere non so di quale paese del mondo,
vedendo su quel treno salire ancora persone di tante razze e pur avendo
la televisione a casa che ci fa vedere e capire tante cose. Vedemmo
salire una famigliola: mamma, papà e due figli una di quasi due anni,
vestita alla buona e suo fratellino, anno più anno meno, anche lui
vestito con straccetti, non si capiva da quanti giorni l’avevano
addosso, di come erano sporchi e la puzza di sudore si sentiva senza
volerlo. Salivano tanta di quella povera gente che a descriverla ci
vorrebbero pagine intere. Ma la mia pena e la mia tristezza era grande
nel vedere in quei volti malinconici e con sguardi tristi che sembravano
appannati da lacrime che non riescono ad uscire mai dai suoi occhi. Non
li guardavo direttamente ma con la coda degli occhi, ma capivo la loro
sofferenza e ne soffrivo nel vedere quegli infelici con quegli sguardi
squallidi e vuoti, sempre fermi nel suo posto e le loro bocche
sembravano cucite; mai una parola. Vedemmo ancora salire due giovani
ragazzi nerissimi. Le loro facce sembravano sporche di carbone e con
sembianze maschili; i loro denti e i loro occhi spiccavano in quel nero
profondo. Li abbiamo visti sedere di fronte a noi nello stesso
scompartimento. Il treno ripartì e dopo aver traghettato cominciò a
risalire le Calabrie ma quei due giovani non avevano spiccicato neanche
una parola, un silenzio totale; si sentiva solo il treno con la sua
velocità. Finalmente dopo più di due ore, da quando eravamo partiti da
Villa San Giovanni, con piacere udimmo uno dei due giovani cantare a
bassa voce con parole inglesi, accompagnate da una musichetta con la
bocca, che intonando dicevano: "Che cosa sei. Che cosa sei….. Che
cosa sei - rispondeva l’altro ragazzo - non cambi mai. Non cambi
mai." Poi tutte e due a coro: "No perché. No perché. Perché
siamo degli sporchi negri!" Io senza volerlo, intonando lo stesso
motivetto, mi misi a cantare, anch’io a bassa voce, come per dargli
una risposta e farle capire che non era così come la pensavano loro
dicendo: "Siete due cittadini del mondo, sorridenti alla vita e
alla natura così perfetta, così colorata, così calibrata, così
varia. Lodate e cantate a voi stessi che siete vivi e non avete paura
così la vita vi sembrerà meno dura". L’abbiamo visto alzare, l’avevo
davanti e sembravano due giganti di quanto erano alti, strinsero la mano
a me e a mio marito dicendoci con gentilezza: "Very, very Good"
io le sorrisi rispondendogli: "Good look: buona fortuna". Era
già sera, quando entrammo nell’illuminata stazione di Napoli;
affacciati al finestrino guardavamo le persone chi a terra, chi
appoggiata ai muri, chi seduta nelle panchine; si sentivano i bambini
piangere. "Quanta sofferenza - mi diceva mio marito - c’è in
questi esseri umani". E provavo un immenso dolore sia fisico che
nell’anima nel vederli così sofferenti e non poter fare niente; ma
nel mio cuore desideravo una bacchetta magica per togliere tutte le
sofferenze che affliggono il mondo. Ma dico a tutti quelli che hanno la
possibilità di inserirli nel mondo del lavoro onesto, per la dignità
di ogni uomo e anche le mettiamo nelle mani di Dio.