TRASLOCO
Accaldata, abbattuta e stanchissima mi sedetti sulla
sedia che si trovava accanto alla porta della cucina: non ne potevo più
di vedere quel disordine in tutte le stanze della casa. Il trasloco è
una gran bella faticata e mentre guardavo tutte quelle cianfrusaglie
buttate di qua e di la, gli scatoloni strapieni di roba, tutti i mobili
imballati pronti per essere caricati sul camion della ditta di trasloco,
pensavo: "Che confusione da alla mente vedere tutte quelle ciotole
e ciotoline, bicchieri e piatti, pentole e padelle etc.., sparse per il
pavimento della cucina. Ma quanti oggetti e cose possono esserci in una
casa!?" Mi rialzai dalla sedia facendomi forza e coraggio e mi
trascinai nella camera da letto e cominciai a sistemare negli scatoloni
il resto della biancheria. Piano, piano le montagne di federe, lenzuola,
tovaglie, vestiti, etc.. trovarono posto nei vari scatoloni e valigie
già muniti di targhette che specificavano il loro contenuto. Dopo avere
imballato tutto e averlo predisposto per essere caricato dai fattorini,
nel miglior dei modi, mi risedetti nello stesso posto di prima
rinfrescandomi un bicchiere d’acqua. Mi ritrovai a girare con lo
sguardo per le stanze dalle porte spalancate, alla ricerca di qualcosa
di dimenticato: qualche quadro, qualche soprammobile, o libro che era
sfuggita alla mia mente. Ma povera me fui distratta ad un tratto da un
gran baccano e mi ritrovai in mezzo ad una lite tra la mia gatta ed un
cagnaccio entrato dalla porta aperta. Quel bestione inseguiva abbaiando,
come se fosse "arraggiato" (con la rabbia), quella povera
gatta spaventatissima. L’inseguiva per tutte le stanze della casa fin
su la scala. Non c’e la facevo a star loro dietro, tanto erano presi
da quella furia scatenata. "Bum, Bam" sentii ad un tratto;
quel forte rumore proveniva dalla stanza accanto dove erano accumulati i
miei ricordi più cari. Salii gli ultimi gradini con un gran affanno. I
due litiganti erano spariti: la gatta era uscita da una piccola finestra
che da sul tetto, mentre quell’enorme cane era sceso furioso giù per
le scale: me lo sono visto quasi addosso; e se non fossi stata pronta a
scansarmi mi avrebbe preso in pieno facendomi rotolare giù per le
scale. Lo spettacolo che si presentò davanti ai miei occhi non appena
mi affacciai sull’uscio della stanza, fu spaventoso; quelle due bestie
avevano fatto un macello tra tutte quelle cianfrusaglie e quel che era
peggio, avevano fatto cadere il bellissimo comò di mia madre causando
quell’incredibile baccano. A vedere quel caro ricordo sbattuto per
terra mi prese un colpo e subito mi affrettai a rialzarlo. Mi ci
avvicinai come a una persona cara che cadendo si fosse fatta male e, con
delicatezza, quasi piangendo di rabbia, controllai ogni angolo del
mobile sperando che non ci fosse niente di rotto. Era un bellissimo
modello di fine ottocento, fornito di cinque cassettoni di un metro e
venti di lunghezza, molto profondi e larghi; le misure le conoscevo bene
perché lo misuravamo ogni volta che cambiavo casa per farlo adattare a
qualche angolo di stanza. Pensai: "Per fortuna non ti sei fatto
niente e questa è l’ultima volta che traslochi; finalmente andiamo in
una casa tutta nostra". Era di noce, intarsiato di fiorellini,
foglie e testine di angeli riccioluti dal sorriso beato. Lo specchio
puntellato d’umidità era contornato da una cornice intarsiata allo
stesso modo dei cassettoni e delle spigolature. Era un pezzo imponente e
originale d’epoca; abbastanza raro L’antiquario della mia città mi
aveva offerto quasi dieci milioni, per quel "Pezzo da museo"
come diceva mio marito; ma io non mi sono mai lasciata corrompere; tanto
che l’ho fatto restaurare e l’ho tenuto per me nella speranza che
almeno uno dei miei tre figli potesse tenerlo dopo di me. Le mie mani
continuavano a toccare ogni angolo del mobile e mi accorsi che in fondo
tra le scanalature dove scorrevano i cassettoni vi era qualcosa che era
sfuggita anche al restauratore. Toccai qualcosa di duro e rotondo e
cercai di tirarlo fuori non senza fatica. Mi ritrovai tra le mani un
sacchetto fatto di stoffa che il tempo aveva sgualcito, ma cucito fitto,
fitto. Cercai tra le cianfrusaglie sparse a terra qualcosa di tagliente
per aprirlo, ma non trovai nulla. La curiosità mi fece chiedere un paio
di forbici alla vicina. La signora gentilissima me li prestò e subito
con bramosia mi misi a scucirlo. Mi ritrovai tra le mani un vecchio
orologio da taschino con la sua catenella; lo rigirai e dietro vi era
scritto "argento 800". Era stato del mio carissimo nonno
materno. In fondo al sacchetto, poi, trovai una cosa ancora più
preziosa: la corona del Rosario di mia nonna. I grani erano di osso
marrone con i gancetti di rame ossidato dagli anni. Era fatta di
materiale umile, come era la mia nonna. Tornai indietro con la memoria e
rividi mia nonna Maricchia con la corona tra le mani giunte mentre,
insieme con le comari, recitava, con fervente devozione, la più
semplice delle preghiere cristiane: il "Padre Nostro". La
vedevo sgranare "Ave Marie" dopo aver contemplato i
"Misteri". Si distingueva tra tutte sia per la tonalità della
voce forte, ma allo stesso tempo serena e sicura; sia per il suo aspetto
fisico: alta più della media, snella e i lineamenti del viso erano
regolari e fini. Era una bella donna. Ad essa ricorreva ogni comare
bisognosa di preghiere; si raccomandavano alle sue preghiere per i
bisogni spirituali e materiali. Io da piccola le osservavo mentre
pregavano, e ricordo che una di loro, Comare Filuzza, credo si
chiamasse, un giorno disse a mia nonna: "Comare Maricchia, una
preghiera particolare per me, affinché questa sera mio marito non torni
a casa ubriaco e non picchi me e i miei figli. Sembra abbia il diavolo
in corpo e l’altra sera prima ha spaccato tutto e poi ci ha fatto neri
con la cinta dei pantaloni. Gridava come un pazzo e minacciava di
volerci ammazzare tutti. Guardate qua, cara comare, come ci ha
ridotti". La povera Filuzza mostrava la sua schiena e quella del
più piccolo dei suoi bambini. Mi restò impressa nella memoria la scena
di quelle povere spallucce già gracili dalla fame e pestate dalla
bestialità di un minatore incattivito dal vino, che era allo stesso
tempo carnefice e vittima di quella miseria. Un’altra voce si aggiunse
a quella della povera Filuzza nel chiedere intercessione: era quella di
Comare Ciccia: "Ricordatevi pure di mia figlia Marannina, povera
creatura, abbandonata, con tre figli da campare, dal marito. Quel
disgraziato era partito per l’America tre anni fa e non ha dato più
notizie; lo piangevamo per morto ma lo ‘Zzi Nicola Pardo, tornato l’altro
ieri dall’America, ci ha raccontato che l’aveva visto fare l’americano
con un’altra donna da cui ha avuto gia due figli. Povera figlia mia
sembra impazzita dal dolore urla e sbatte la testa contro i muri della
casa. In questi tre anni ha fatto i lavori più umilianti per poter dar
da mangiare ai suoi piccoli. E’ andata a servizio da Donna Letizia
Chiaramonte, a spigolare, a prendere l’acqua a Don Luigino Martinez e
persino a lavare i panni ai gendarmi scapoli. Ha ventidue anni e sembra
una vecchia di settant’anni. Pregate Comare Maricchia affinché il
Signore gli dia la rassegnazione e la forza di vivere e lottare per i
suoi figli". Guardavo quella corona e pensavo: chissà quante volte
questi grani così invecchiati sono passati tra le dita della mia
amatissima nonna, chissà quanti segreti le sono stati confidati, quante
lacrime li hanno bagnati, quante preghiere sono state elevate a Dio con
questa corona che io tengo tra le mani adesso. Mi sembrava di tenere
anche tutti quei dolori e quelle speranze già passate ma sempre vivi e
presenti, seppure diversi, in ogni uomo. Povere donne quanta fede,
quanta devozione le animava. Ricordo Comare Tana che diceva, anzi
"predicava": "Cara Comare Maricchia "Orazione e
penitenza" e "Tacere e cuocere". Non c’è nulla da fare
se questa sera non abbiamo mangiato; se il marito si ubriaca e ci batte;
se siamo privati di qualcuno o di qualcosa. Non dobbiamo lamentarci ma
dire sempre: sia fatta la volontà di Dio. La cosa più importante è
avere la fede di Dio e un po’ di salute. Nella gioia e nel dolore
benedetto il nome del Signore". "Le sofferenze accettate ed
offerte sono grazie che permetteranno l’ingresso nostro, dei nostri
cari, dei poveri peccatori per cui offriamo le nostre pene e perfino dei
nemici, in paradiso: il regno della gioia e della vita eterna!"
Comare Tana non c’era più da diversi decenni eppure le sue parole
erano rimaste vive in me e mi portarono a questa riflessione: il
paradiso è più popolato da santi nascosti che di santi ufficiali cioè
di quelli venerati dalla chiesa. Santità senza scalpore, senza
miracoli, senza estasi ne visioni ma fatta di nuda e cruda umanità;
santità sofferta e rassegnata ma anche speranzosa e persino devotamente
allegra. I loro volti pieni di rughe e i sorrisi quasi tutti senza denti
esprimevano una gioia di vivere ed una luce che ho rivisto nel volto di
Madre Teresa di Calcutta in una foto mentre cullava teneramente una
bambina di qualche lontano villaggio indiano. Possedevano il senso dell’umorismo
anzi persino scherzavano sulla loro rassegnata miseria e questo le
"santificava" ogni giorno. Tutte indossavano la medesima
"divisa": vestiti lunghi arricciati in vita e neri per gli
interminabili lutti. Guardai la corona e mi ritrovai a pregare un
"Eterno riposo" per quelle donne che sorridevano a una vita
che non era una vita e mi sorpresero le lacrime….. Un rumore mi destò
dalla preghiera: mi era caduto dalle mani l’orologio. Mi chinai subito
e lo ripresi in mano convinta che si fosse rotto in mille pezzi, ma con
incredibile sorpresa sentii un tic tac: funzionava ancora! Girai il
"piretto" per dargli corda: ecco il suono della mia infanzia!
Rivedo Nonno Turiddu con l’orologio in mano attorniato da noi nipoti.
Ai nostri occhi di bimbi quel tic tac aveva qualcosa di magico e
fantastico allo stesso tempo. Per noi, ignoranti del meccanismo di
rotelle che lo regolava, quel suono era provocato da minuscoli esseri
dai vestiti coloratissimi che abitavano in quella "scatola
magica" che segnava il tempo. Eravamo tantissimi e quasi tutti
della stessa età; ci mettevamo in fila, l’uno dietro l’altro,
aspettando il nostro "turno". Nonno Turiddu ci faceva sedere
sulle sue ginocchia e avvicinava l’orologio alle nostre orecchie per
farci sentire il "tic tac". Si divertiva moltissimo nel vedere
la meraviglia stampata sui nostri volti. Era molto orgoglioso della sua
numerosissima famiglia. Ricordo i suoi bei occhi azzurri che si
riempivano di gioia quando diceva: "Ho dieci figli: otto maschi e
due femmine ed ognuno di essi ha nove figli. Fatevi voi il conto di
quanti nipoti ho!" Povero nonno rideva nel dire ciò e i suoi occhi
sembravano più azzurri che mai. Poi prendeva l’orologio dal taschino
del gilet, colore nero, e, fissandolo intensamente, aggiungeva: "E’
passato all’orecchio di tutti i miei nipoti. L’ho fatto sentire a
tutti questo tic tac". Ad un tratto la nostalgia mi assalì a quei
ricordi lontani, a quei volti così amati e ormai da decenni svaniti.
Desiderai tornare indietro nel tempo, a quando ero bambina, soltanto per
rivederli un solo attimo ancora, ma ciò non era possibile. Pensai:
"Il pensiero è l’unico mezzo che abbiamo per rivivere le
emozioni, i sentimenti del passato ed incontrare chi abbiamo amato su
questa Terra". Ebbi l’impressione di aver visto un film, un
nastro cinematografico che era stato proiettato nella mia mente. Mi
rassegnai stringendo tra le dita la corona e l’orologio come fosse l’ultimo
regalo della vita e mi dissi: "Tutto passa e finisce, proprio come
un film, e non ci resta che queste emozioni e questi ricordi per
sostenerci e costruire la trama quotidiana di quest’altro film che
stiamo vivendo". Senza rendermene conto, in mezzo al caos del
trasloco in corso, cercai e trovai penna e quaderno e cominciai a
scrivere …. scrivere …. E scrissi queste poche righe per onorare la
memoria di tutte quelle persone. Esse non figureranno mai nei libri di
storia, ne nelle enciclopedie, neppure nelle schiere dei santi, pur
avendo vissuto da tali sopportando con cristiana rassegnazione i colpi
di un fato avverso. Erano persone vere, degli eroi semplici come
semplici sono questa corona e questo orologio che tengo tra le mani, e
come queste poche righe che dedico a loro, e che bacio con immenso amore
e devozione come se si trattasse di "sacre" reliquie
testimonianza di chi è vissuto prima di me e che senza di essi io non
sarei qui a raccontarmi.
|
|