La gita della scuola

 

Ritornando indietro con la memoria, ricordo quando andavo alla terza elementare: avevo appena otto anni. La scuola si trovava lassù, alla fine di una scalinata che ogni mattina mi sembrava interminabile. La chiamavamo " LU RICOPARU" e non ho mai saputo se aveva un nome ben preciso. Era un palazzone a due piani con cinque stanze per piano; quelle del pianterreno non comunicavano tra loro ma ognuna di esse aveva un portone che si apriva in uno spiazzale. A noi bambini ci sembrava grande ed imponente perché era l’unico palazzo del paese che aveva più di un piano. In quel periodo le classi erano abbastanza numerose e si facevano due turni: uno mattutino e uno pomeridiano. La mia classe era composta da quarantacinque alunni. Ogni mattina tutti salivamo quella scalinata, la maggior parte vestiti col grembiule nero ed il fiocco blu. Ogni mattina tutti i bambini di buon’ora andavamo a scuola e aspettavamo le maestre che con le chiavi in mano aprissero le porte delle classi. Le maestre le chiamavamo: Signorine, quando ci rivolgevamo a loro per qualsiasi cosa, o che non avevamo capito qualcosa; o che chiedevamo il permesso per andare a fare l’atto piccolo o l’atto grande ( così dicevamo per andare in bagno). Fuori dalla scuola eravamo come dei selvaggi, andavamo a fare i nostri bisogni all’aperto a "LU CUAZZU TUNNU". Erano altri tempi: più povertà e meno civiltà. In cinquant’anni sono passate tante cose brutte ma anche tante cose belle, e chi se li ricorda vede quali grandi differenze e quali grandi cambiamenti sono successi in questo periodo. Mi ricordo perfettamente tutte le mie maestre e quelle delle altre classi.La Maestra Serafina Valenti, teneva molto allo studio ed al galateo. Non ci castigava mai, come facevano gli altri che tenevano all’angolo per più di mezz’ora oppure in ginocchio per alcuni minuti. La Maestra Tortorici, era la sorella del medico condotto locale, aveva un altro metodo d’insegnamento, sbagliato secondo me; se c’era un bambino che non apprendeva subito quello che spiegava, lo metteva accanto a lei sulla cattedra e ci ordinava di alzarci tutti in piedi ed ad alta voce ci faceva dire "Asino, Asino" in continuazione e lei all’orecchio, del malcapitato di turno, gli ragliava come un vero somaro. Tutti i bambini eravamo traumatizzati da quel modo di educare. A chiunque toccasse quella farsa da burattini faceva pena. Un giorno chiamò alla cattedra, per il solito trattamento, una mia cugina ed io dalla rabbia, non potendo sopportare quell’idiozia, sbottai gridandole con tutti i nervi che avevo e dicendole apertamente che la vera "SCECCA" ed asina era lei, ricordo che la classe raggelò al pensiero di con quale castigo sarei stata punita; invece lei mi guardò a lungo e poi con un mezzo sorriso mi mando a sedere al mio posto. La Signorina Clementina Tulumello, era una buona educatrice ed anche una buona insegnante, sempre con un sereno sorriso in bocca. Sapeva sempre prendere tutti i bambini per il verso giusto. Conoscendo anche da quale ambiente familiare proveniva ognuno di noi, sapeva comprendere e capire anche coloro che non erano tanto bravi e apprendevano lentamente; lei non glielo faceva pesare anzi li incoraggiava dicendogli: "Vedrai diventerai il più bravo della scuola". La Maestra Luigia Rizzo, mamma mia quanto era magra! Sembrava una statua mal fatta, specie quando camminava con quei piedi "A PIRICHE’". Ci sembrava un fantasma vestito di nero, aveva il naso ad uncino e i denti all’infuori specialmente i due denti di sopra li aveva più grandi e sembrava un coniglio. Secondo lei gli alunni non erano mai abbastanza bravi ed a certuni li rimproverava dicendogli: "Cosa venite a fare a scuola solo per riscaldare il banco? Andate a raccogliere le olive o le mandorle o a fare i servi, perché avete la testa come le zucche". Ma la vera testa di zucca era lei che non capiva le condizioni di chi gli stava davanti e quali sacrifici facevano per poter andare a scuola. Le classi erano troppo numerose per una sola maestra. Loro dicevano: "Noi siamo come il contadino e voi come la terra; le nostre parole sono come un seme che va nella vostra testa, se la mente e buona, come una terreno fertile, il seme produrrà una pianta forte e rigogliosa e così voi, cari bambini, dovete aprire la vostra mente e fare entrare il nostro insegnamento. Però loro non capivano che ogni bambino era diverso l’uno dall’altro e ammiro il sistema scolastico di oggi che se un bambino ha bisogno vi sono i corsi di recupero oppure l’insegnante di sostegno, che mettono ogni alunno nelle condizioni di raggiungere eccellenti risultati nelle sue capacità. La Signorina Salvatrice Salvo, per me era un’ottima insegnante. Noi bambine l’adoravamo di come ci capiva. Gli insegnanti maschi,invece, per noi femminucce erano il terrore. Il Maestro Paolo Piccillo, del quale sono stata sua alunna in quarta e quinta elementare. Era un bravo insegnante ed un bravo educatore; si faceva valere sia come persona sia come maestro. Aveva tutta una sua personalità; dava un senso di preziosità ad ogni cosa e ci ha faceva capire cosa voleva dire scuola e che cosa era veramente lo studio. Come supplente, a volte, veniva in classe il Maestro Attardi. Era solito dare bacchettate sulle mani agli alunni; era orribile vedere quei bambini con le manine sul banco e lui pronto con la bacchetta e se qualcuno ritirava le mani , lui con una del sue manone, lo teneva e con l’altra dava giù senza limite. Non lo sopportavo mi veniva voglia di darle a lui le bacchettate. Poi ricordo ancora Don Totò Messana; il Maestro Petix Angelo; il Maestro Milazzo, preciso e dispotico; il Maestro Petix Arturo, che con la sua insolita magia ci faceva ridere, ma faceva anche a volte paura a noi poveri bambini senza esperienza di vita. Invece il Maestro Beniamino Tulumello, era sempre pronto, a chi non capiva bene cosa aveva detto nella lezione, a ripetere tutto di nuovo daccapo con calma e precisione; era anche una persona molto buona. Il Maestro Messana Lillo ci faceva cantare in coro "Va Pensiero", facendoci fare le doppie voci di basso e di tenore e con molta precisione ci faceva convertire i suoni della musica con la voce. Tanti altri maestri passarono per quella scuola negli anni che io fui scolara. Ma quella che ancora mi ricordo è la gita, chiamiamola gita, è stata più una lezione di vita a cielo aperto che un divertimento. Era primavera. Come ogni anno, tutti i maestri ci portavano in campagna a visitare qualche masseria a farci vedere le pecore ed a mangiare la ricotta. Quell’anno ci portarono alla "PIRRERA DI LI GRUTTAZZI". Tutti ci siamo messi di buona mattina in cammino per la miniera, che si trovava ad un paio di chilometri dal paese. Messi in fila per due cantavamo per la strada "SCIURI, SCIURI, SICILIA BEDDRA TU SI NA SCIURERA….". Arrivati alla miniera, quel buco scavato nella roccia, nella mia mente di bambina mi fece molto impressione. Mi sembrava, così come mi raccontava mia nonna, una "VUCCA D’IMPIARNU". Vedevo tutte quelle persone, ma che dico, quei poveri diavolacci resi senza personalità, a torso nudo, tutti con la stessa espressione di dolore che non faceva distinguere neanche i lineamenti del viso. Sulla loro faccia nera si intravedevano due occhi brillare come lucciole nella notte più nera. Salivano chini ad uno ad uno con grossi sacchi carichi di terriccio da cui sarebbe stato poi estratto lo zolfo. Tutti sudati; la pelle impastata sembrava ricoperta di una crema nera a sfondo giallastro. Ogni scalino che facevano si riposavano per pochi secondi e, con un respiro affannoso, uscivano all’aperto scaricando i sacchi accanto all’apertura della miniera. Ricordo che mentre io ero attenta a osservare quei poveri cristi, quei "CARUSI" di quattordici, sedici anni, mi si avvicinò "LU ‘ZZI PEPPI ARBA" chiedendomi di chi ero figlia; ma io non risposi perché ero ancora intontita da quella visione per me infernale, di quei poveracci malandati; lui mi disse: "Lu vidi figlia mia comu si scutta lu pani ni la pirrera, pirchì ancora nun ci sunnu li vaguna. Vidi chissi du c’acchiananu: unu è ma figliu Totò e chiddru appriassu è Pippiniaddru Ciraulu. Vidi comu cancianu , nun parinu ‘cchiù iddri; di quantu ijettanu sangu ni la fossa di la pirrera". In quel momento si avvicinò il maestro Tulumello e quel poveraccio continuò a parlare dicendogli: "Vidissi, Don Beniamì, nun aviammu ‘cchiù suspiru e mancu voglia di campari e siammu sulu scecchi di issaru buani sulu a travagliari", e indicò Turuzzu Maccu che con un enorme sacco sulle spalle stava uscendo da quell’orribile fossa e improvvisamente arrivato all’ultimo scalino cadde per terra tenendosi il petto con le mani forte forte, imprecando: "Miagliu muriri ora stessu, ca fari sta vita peggiu di li cani" e rivolgendosi a noi continuò urlando: "La morti è na liberazioni!" e stramazzò perdendo completamente i sensi. Mi sentii molto male a vedere gli altri minatori soccorrerlo e tentare di rianimarlo: chi gli batteva le spalle, chi gli alzava le braccia e chi gli buttava acqua sul viso. Lui sembrava morto, con la bava alla bocca. Dopo svariati tentativi aprì finalmente gli occhi e bevuto un sorso d’acqua si rialzò e riprese il lavoro come nulla fosse successo. Episodi come questo accadevano frequentemente e ogni tanto qualcuno veramente non apriva più gli occhi, tra la disperazione di tutti i minatori che temevano che quel destino potesse capitare pure a loro. Da quella "GITA" mi resi conto di quanto si potesse soffrire per portare a casa un tozzo di pane per continuare quella misera vita. Da quel giorno non ho più invidiato la mia amichetta Rosaria quando mi diceva, vantandosi con orgoglio: "Ma patri travaglia a la pirrera e porta la quinnicina intra". Tra me e me benedissi il mestiere di mio padre, che faceva il pastore e che anche se non portava a casa la "QUINNICINA", ero sempre sicura che portava a casa se stesso e sulle sue spalle non arrancava un sacco di zolfo ma un tenero agnellino per festeggiare il suo ritorno.